Non è che serva un barbiere per darci un taglio

Oggi mi sono tagliato con il rasoio mentre ascoltavo un podcast di Alessandro Barbero. Spiegava che al tempo di Dante l’appellativo di “messere” non era appannaggio di tutti, mentre imboccavo la galleria a 90 km/h cercando di evitare la coda per salire a fare un attimo una sosta in bagno dopo il viaggio (che è sembrato breve). Ho fatto in tempo per la festa nel bosco di ieri, visto che ho dato un orario preciso mentre mi parcheggiavo sotto la tovaglia del picnic della festa perché stava piovendo, bisogna smontare la brace subito – ho detto mentre ripulivo le scarpe dal fango e stavo a letto a leggere prima di svegliarmi ché è ora di andare.

Oggi mi sono tagliato con il rasoio mentre mi guardavo allo specchio pensando di dover ripulire un po’ il collo sotto la barba, ma non mi sono accorto che mentre mi insaponavo mi ero già ripulito e il puntino rosso si era anche fermato dal gocciolare sangue che stava uscendo copioso dal gomito per colpa della rete arrugginita, fortuna che sono vaccinato contro il tetano da quella volta che mi stavo vaccinando contro il tetano.

Oggi mi sono tagliato con il rasoio e direi è ora di cambiare lama ma l’avevo già cambiata mentre lo dicevo. Forse potevo riprovare a radermi ma nel 2013 non rasavo né rifinivo nulla intorno la barba e difatti non ho più lamette in casa per questa scelta e sono uscito a comprarle a Budapest, ma in aereo non va la carta ma per fortuna qui in Islanda mi sono portato degli yen che ho cambiato dopo una lunga fila per parlare con la farmacista che era accanto allo stand dei preservativi.

È successo più o meno una decina di anni fa che il contropelo stamattina mi ha dato problemi, nel 2010 comprai subito una crema emolliente ma ieri è già finita, è pazzesco come passa il tempo quando ti sei tagliato.

Oggi mi sono tagliato con il rasoio, stavo tamponando il puntino rosso e la professoressa mi ha richiamato che facevo troppo chiasso. Stavo provando a giustificarmi che non era colpa mia ma in strada c’ero solo io in bici e per di più procedevo in modo spericolato, era inevitabile che rischiassi di affogare in piscina perché mi ero messo paura dopo un volo dal divano: a 3 anni è pericoloso – ha detto la ginecologa a mia madre congratulandosi per l’ottimo stato di salute mio nella pancia.

Oggi mi sono tagliato con il rasoio e non mi ricordo come sono arrivato sin qui oggi a scrivere che

Non è che se lanci un sasso verso uno specchio d’acqua sono 7 anni di guai

Sono entrato nel bagno di un bar e mi ha colpito che al posto dello specchio sul lavandino ci fosse un poster che reclamizzava una grappa.

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La collocazione di una pubblicità nei servizi igienici è quanto mai fraintendibile. Il messaggio che ne traggo è che il posto idoneo per questa grappa – che, tra l’altro, in passato ho bevuto senza aver nulla da recriminarle – possa essere solo il bagno.

Mi capita di guardarmi spesso allo specchio. O nelle vetrine. O in qualunque altra superficie riflettente. Non è vanità, è più che altro l’ansia di aver qualcosa in faccia. Forse è la mia stessa faccia a darmi questa impressione.

Non bisogna dare la propria faccia per scontata.

Mi piace osservare le facce della gente. Lo faccio da così tanto tempo e così spesso che ora mi sembra di riconoscere delle facce e scambiarle per altre facce a me familiari. Mi chiedo se io faccia (e lo dico non a caso) lo stesso effetto a qualcuno. Mi hanno scambiato per qualcun altro, delle volte. Altre volte mi sono fatto scambiare per qualcun altro, invece. Altre ancora, vorrei essere proprio qualcun altro.

A volte però potrebbe essere un problema.

Una persona mi si è aperta davanti. Come una finestra spalancata da uno ventata. Mi ha detto che delle volte non si riconosce. Come se fosse qualcun altro. A me è venuta in mente questa canzone, che parla di un disturbo dissociativo, la depersonalizzazione:

 

Inizia proprio parlando del guardarsi allo specchio: I woke up this morning/Didn’t recognize the man in the mirror.

Quando ero al liceo una mia compagna di classe tentò di buttarsi dal balcone del bagno. Il fatto che una scuola avesse i balconi può sembrar strano, ma la nostra sede non era altro che un palazzo condominiale riadattato a uso scolastico.

Non sapemmo mai la verità, se lei tentò veramente di scavalcarlo oppure la compagna di classe che era con lei e diede l’allarme andò in paranoia notandola affacciata e con lo sguardo perso nel vuoto. Questa seconda versione iniziò a circolare qualche giorno dopo l’accaduto. La compagna salvatrice era nota per essere un po’ ansiosa e paranoica. Non è proprio una bella cosa essere considerati così.

Non mi ricordo molto di quel che avvenne nei giorni successivi. Non se ne parlò molto con i professori. Ricordo solo una discussione sullo specchio e dell’impatto che può avere su un/un’ adolescente la scoperta della propria immagine. E con quello iniziò e finì il nostro primo e ultimo angolo di confronto scolastico socio-psico-pedagogico di quei 5 anni.

In tempi più recenti, invece, sono stato in un B&b che aveva degli specchi sui comodini. No, non in verticale sulla parete cui era appoggiato il comodino: no, lo specchio era orizzontale incollato sul ripiano del comodino. Quando li ho visti ho pensato immediatamente due cose:

  1. Li avranno messi lì per far pippare?
  2. Quanta gente ci avrà pippato, fino a quel momento?

Così non ho preso sonno pensando a quegli specchi e a gente china sopra di essi a sniffare. Il che è un pensiero assurdo, in una camera di albergo potrebbe avvenire di tutto e uno su questo non ci pensa mai, ma quegli specchi sul comodino mi facevano venire una sola cosa in mente.

A pensarci bene, gli specchi sono proprio un gran fastidio.

Forse è davvero meglio toglierli e bere.

Non è che se addenti due volte qualcosa poi ti penti perché è un rimorso

Ho guardato una partita di calcio del Mondiale che mi ha fatto pentire di averlo fatto. Era avvincente come un’autopsia. Il tempo che ho speso per seguirla non tornerà più indietro.

Nulla torna mai indietro, neanche i boomerang se non li lanci bene.

Sono un ostentatore di sicurezza. Predico l’arte dialettica del chi-se-ne-frega e la disciplina agonistica dell’alzata di spalle. Racconto alle persone, con tronfia sicumera, che il passato è ciò che ci definisce, che le esperienze, di qualunque tipo esse siano, fanno crescere, che tutto fa curriculum e che un uovo oggi non ti aumenta il colesterolo.

Dico che non bisogna mai pentirsi delle proprie scelte e che bisogna sempre tirar dritto. Tranne di fronte alle curve, in quel caso ci si adatta.

Ma quando rientro a casa e slaccio la cravatta – che non indosso mai ma mi piace il gesto che si fa per allargarla così lo faccio lo stesso – mi guardo allo specchio e mi dico che mento. A volte esclamo anche Che mento! osservandomi la barba che lo onora.

A me del passato frega eccome. E le mie spalle son forse troppo deboli per riuscire ad alzare abbastanza pesi.

Vivo nei tormenti. Vivo nella vergogna. Vivo in una portiera che sbatte e un messaggio di disprezzo. Vivo nell’errore e nella scelta sbagliata. Vivo nelle porte chiuse di cui mai si conoscerà l’altro lato. Vivo nell’ossessione che la via imboccata non sia mai quella giusta. Vivo. Sopravvivo al passato.

Un giorno qualcuno scoprirà la mia menzogna e la mia ipocrisia.

Quel giorno mi sentirò sollevato.

Non è che quando sei stufo vai dal barbiere per darci un taglio

Ho tagliato i capelli perché speravo di non riconoscermi.

Per un po’ ci sono cascato, finché non sono arrivato a casa e, guardandomi allo specchio, mi sono chiesto Chi sei? Vattene da casa mia prima che chiami la polizia. Allora ho gettato la maschera. Nel bidone della latta, perché era una faccia di tolla.

Si trattava di un bluff perché in realtà non saprei come chiamare la polizia ungherese. Conosco il numero ma non so se chiamandola in altre lingue sappia rispondermi. E, inoltre, “polizia ungherese” è troppo lungo da dire: il tempo di esclamarlo e il malintenzionato è già scappato (Troisi docet).

Di cattivi soggetti a parte il sottoscritto comunque non ne ho visti mai nella mia zona.

Il caso più interessante – per rendere l’idea – si è verificato la settimana scorsa, verso mezzanotte. Un semplice ubriaco che cantava giusto sotto la mia finestra. O forse era uno sobrio che cantava canzoni di un ubriacone (tipo Vászko Rószi, noto artista magiaro).

Volevo omaggiarlo della performance con qualche frase apotropaica dialettale ad ampio spettro geografico (cioè coprendo un ventaglio di improperi Nord-Sud), solo che ha smesso dopo poco. Mi sono sentito molto triste. Un essere umano dovrebbe pur aver diritto di sfogarsi col primo ubriaco di passaggio. Tanto lui beve per dimenticare, quindi non avrà memoria dell’accaduto.

Quando abitavo a Blaha, una zona un po’ più borderline, qualcuno è stato da me apostrofato male ma credo fosse troppo ciucco per rendersene conto. Erano comunque ubriaconi a modo, mettevano le lattine di birra nel cestino.

Il riciclaggio è importante. Vorrei darmi a quello del denaro.

Ho imparato da molto tempo a separare i rifiuti.

I due di picche, ad esempio, vanno nell’organico. Perché in fondo tutto si riduce a una questione di organi.

I feedback negativi al CV vanno nel vetro, perché sono speranze in frantumi.

Gli intenti positivi bloccati sul nascere, nella carta, perché sono castelli di tal materiale.

I Non lo so, nell’indifferenziato.

Potrei aggiungere altro ma temo di non riconoscermi più. Già ho avuto problemi a identificare collutorio e shampoo, causa flaconi simili.

Almeno, comunque, ora il mio taglio di capelli non perderà lo smalto di un tempo.

Non è che l’indiano abbia fascino solo perché è con-turbante

Ero un bambino impaziente. Una volta mi regalarono un calendario dell’Avvento. Dopo il primo giorno avevo già aperto tutte le porticine per sbirciarvi dietro. Salvo poi tentare di reincastrarle nuovamente per coprire il misfatto.

Non ricordo quando l’impazienza mi si è trasformata in ansia. Riesco sempre a essere pronto per uscire in anticipo sul tempo accettabile riconosciuto come anticipo.

Non sono più impaziente su avvenimenti programmati a lungo termine. È come se non riuscissi ad accoglierli più con l’entusiasmo di un bambino. È probabile che sia normale, da adulti. Eppur me ne dispiace molto.

Mi sono guardato allo specchio mentre mi provavo dei maglioni. Mi sono visto brutto tanto.

Ma non sono brutto o, quantomeno, non lo sono in maniera preponderante. Diciamo ho una bruttezza anonima, si può diluire nella massa. Sono anzi capace di assumere qualche posa conturbante, con la giusta illuminazione e un certo grado alcolico. Nel sangue altrui.

Mi sentivo brutto per una percezione di diversità. Allo specchio ho avuto uno sguardo su me stesso, non riconoscendomi come ricordavo.

Mi chiedo cosa io abbia fatto negli ultimi venti anni. È il tempo che sono andato a dormire e mi sono risvegliato con i piedi più grandi. Che poi mi sono sembrati di nuovo più piccoli, prima di scoprire che le taglie delle scarpe sono state ridefinite.

L’imbarazzante visione della mia bruttezza mi ha fatto fuggir via dal camerino.

Non prima di aver riposto i capi, onde evitare di incorrere in qualche battibecco con un guardiano dalla forma squadrata. Non era quel che poteva definirsi, con un cliché, un armadio. Avrei detto piuttosto un comodino. Brutto e imbruttito ancor più dall’espressione arcigna che è forse costretto ad assumere per lavorare.

Fuori una donna che non ho nemmeno guardato in volto ha provato a vendermi del Dio. Ho fatto un gesto di diniego con la mano. Un’altra donna più avanti ha provato a vendermi del Politico. Ho ripetuto il gesto di diniego.

Lo spaccio dovrebbe essere illecito.

Non è che porti una donna su un fiume bergamasco per prenderla sul Serio

Io sono una persona seria.

Sul serio.

Chi mi vede può dire che sia un tipo serio.

Oppure che mi stia rompendo i maglioni. A volte l’espressione seria e quella smaglionata si confondono. È per confondere l’interlocutore. Come disse Oscar Wilde: È meglio tacere e sembrare scoglionati che aprire bocca e togliere ogni dubbio.

Io sono una persona seria.

Anche se i jeans mi danno fastidio al pacco non mi toccherò mai lì per darmi una sistemata finché non sarò tra le mie quattro pareti dove ci sono solo io e a volte dove nemmeno io ci sono, perché io, il serio, dopo una giornata di serietà sono stanco e vado a dormire per primo.

Io sono così serio che poi non mi riconosco più di fronte alle persone.
Esse sono come uno specchio: in ogni individuo con cui interagisco vedo un me stesso.

E allora vorrei dire a chi mi sta parlando Scusa, mentre mi parli io penso che vorrei sistemarmi il pacco perché mi dà fastidio, ma non posso perché giusto un momento prima mi ha detto quanto fossi serio che non sono tipo da sconcezze allora mi sembra di deludere le idee altrui e finisco col riconoscermi ancor di meno tutto perché ho un jeans che forse non andava bene per me ma che porto con ostinata serietà.

 

Non è che non ti fidi di un dado solo perché ha diverse facce

Padre si è comprato una tazza con l’effigie di Jimi Hendrix.
O almeno questo è il nome scritto sopra. Io quando lo guardo mi sembra a tratti Prince. Altre volte Lionel Richie. Dipende dalle ore del giorno e dalla luce. Forse in realtà cambia volto. Purtroppo l’ha portata al lavoro e non posso proseguire l’osservazione delle mutevoli facce della tazza.

Cambiare faccia a seconda dell’illuminazione è interessante.

Io cambio espressione ma non ho coscienza di ciò.
Mi chiedono “Che hai?” notando un’ombra sul mio volto e io non so cosa rispondere perché in quel momento non ho nulla.


Beninteso, è impossibile avere “nulla”, a meno di non essere degli Epicurei e aver raggiunto ἀταραξία e ἀπονία (atarassia e aponia, assenza di affanno e turbamento), il nostro corpo sarà sempre preda di qualcosa, quindi la risposta “nulla” è falsa e tutte le persone che dicono “nulla” e non sono epicuree stanno mentendo. Sarebbe più corretto rispondere “Non ho quel che pensi io abbia anche se non ne sono sicuro perché non so cosa pensi io abbia finché non me lo dici”. E quindi è tutta una grande confusione.


Eppur mi han fatto notare che il mio volto assume invece espressioni seccate, a tratti. Io questo non posso saperlo, non so quale sia la mia espressione seccata perché quando ho l’espressione seccata non ho uno specchio dinanzi a me. E quando mi guardo allo specchio non sono seccato. Tutto questo è seccante.

So di non essere seccato, ma il mio volto sembra dire il contrario.

Al che ho iniziato a preoccuparmi di tutte le espressioni involontarie del mio viso, che potrebbero nuocermi in qualche modo.

Come quando in un colloquio, passati alla fase della conversazione più informale e delle domande, alla mia curiosità su come fosse l’ambiente di lavoro le tre intervistatrici si sono guardate e hanno riso e poi una ha detto “Siamo tutte donne”. Io ho annuito sereno pensando Beh chi se ne frega, dei colleghi mi importa che non rompano i maglioni ma ora il dubbio atroce: e se la mia faccia in quel momento avesse assunto un’espressione diversa, del tipo “Oddio che tragedia” e se ne siano accorte? Io non stavo affatto pensando “Oddio che tragedia”, stavo appunto pensando “A me importa che la gente non rompa i maglioni, a prescindere dal sesso” ma non posso sapere se la mia faccia avesse o no realmente l’espressione “A me basta solo che non mi rompano i maglioni”.

Che a pensarci su neanche è una bella faccia.

Non è che la recitazione sia l’aforisma di un sovrano

Tra i traumi infantili che mi porto dietro c’è quello legato alle recite scolastiche.
Uno strumento di tortura psicologica sui bambini a uso e consumo esclusivo del sadismo delle maestre, il compiacimento delle madri e il delirio di onnipotenza del dirigente scolastico che deve pur farsi ricordare in qualche modo.

Beniteso, il mio è solo il giudizio sprezzante tipico degli emarginati, di quelli condannati a vita a interpretare un albero o un cespuglio. Io ero ancora più indietro nella scala gerarchica: potevo aspirare al massimo a fare l’ombra del cespuglio.

Tra le recite vergognose ne ricordo, a sprazzi e frammenti, una molto particolare che non so da quale gran-de-mente addetto alla regia sia stata partorita. Quanto sto per raccontare è tutto vero. Neanche la mia perversa fantasia sarebbe arrivata a tanto.

La recita, che coinvolgeva vari plessi scolastici, credo fosse una sorta di allegoria dell’Italia gaudente di quegli anni (son quasi certo fosse il 1993), contenente varie sottotrame: ricordo un mio compagno di classe riccioluto che leggeva finti notiziari interpretando Enrico Mentana e un’altra, che si chiamava Carmen, che andava in scena nel ruolo di un’improbabile “Carmen Lacugina”*, bambine scelte tra quelle che delle quinte sembravano più grandi per impersonare ragazze di Non è la RAI, un balletto coreografico sulle note di What is love di Haddaway e, per restare in tema con l’attualità, Poggiolini e il suo famoso lingotto d’oro**.


* Carmen Lasorella, volto noto del giornalismo televisivo di quegli anni.


** Breve flashback sulla Prima Repubblica: Duilio Poggiolini era il n.1 della Commissione farmaceutica della CEE ed elemento di spicco all’interno del Ministero della Sanità. Fu coinvolto in episodi di corruzione e tangenti ricevute dalle case farmaceutiche, oltre a vari scandali tra cui quello del sangue infetto (sacche per trasfusioni messe in circolazione provenienti da soggetti a rischio). Viveva in apparente sobrietà ma quando le FdO perquisirono il suo appartamento trovarono un vero e proprio tesoro (lingotti compresi) nascosto negli armadi, nei materassi e nel pouf.


Mancavano solo OK il prezzo è giusto!, Guido Nicheli, il cocktail di gamberi e il campionario trash nazional popolare era completo.

Non so di quanti reati – a cominciare dalla pedofilia – e quanti processi su Facebook oggi si macchierebbe una simile rappresentazione. Per fortuna erano gli anni ’90 e anche i genitori all’epoca erano più tolleranti: erano di quella generazione che se dicevi loro che la maestra ti aveva dato uno schiaffo se ti andava bene le davano ragione. Se ti andava male, ne prendevi un altro.

Che parte avevo io in questo carrozzone?
Io c’ero e non c’ero: ero dentro lo show ma al di fuori di esso. Recitavo nell’intermezzo pubblicitario tra i due atti.

Rimanendo in linea con i tempi storici, si trattava di una parodia degli spot Melegatti e delle Ferrari che regalava in premio.


Anche la pubblicità occulta credo vada aggiunta alla lista di reati.


Desideroso di mettere in mostra le mie abilità recitative, mi esercitavo nella mia battuta ogni giorno. Stressavo qualunque parente avessi a tiro per chiedergli di aiutarmi nelle prove. Quando venni abbandonato da tutti, al suon del sbrigativo “Ora non ho tempo, ho da fare”, passai a esercitarmi davanti allo specchio.

Non ricordo affatto cosa dovessi dire, rammento soltanto l’attacco: alla vista dei due tapini che recitavano con me, con dei pacchi di pandori tra le braccia, dovevo iniziare, con enfasi, dicendo “Ma come, non avete preso Melegatti?!…”. Anche qui è evidente il citazionismo: era lo stile stalker del supermercato che appare all’improvviso e chiede alla massaia perché mai abbia scelto un prodotto invece di un altro.

Provavo differenti pose e intonazioni.


Si prega di leggere le frasi seguenti con tono diverso ognuna.


Ma come?!
Ma come?!
Ma come?!
Ma dici a me?

A una settimana dalla recita, le maestre cambiarono le battute dello sketch. Non le ricordo, ma l’attacco era ovviamente diverso.

Non fu un problema adattarmi, per un professionista del mio calibro.

Quando arrivò il fatidico giorno io entrai in scena titubante. Le gambe tremavano un po’ per la tensione un po’ perché lo spazio tra il sipario e la fine del palco mi sembrava esiguo e avevo paura di cadere di sotto.
Arrivarono i due tapini dal verso opposto al mio. Io inspirai, gonfiai il petto e dissi, spalancando le braccia:
– Ma come?!
oh cazz (esclamai nella mia testa)
– No! (gridai)
E mi diedi uno schiaffo in testa.

Poi ricominciai da capo, stavolta con la battuta giusta, ma ci furono risate, qualche buu e qualche fischio impietoso da parte di quelli delle altre classi presenti in platea.

E quello fu l’inizio e la fine della mia carriera teatrale.

Note allegoriche:

  • Lo spettacolo si concludeva con “Enrico Mentana” e Carmen Lacugina che annunciavano a reti unificate che tutto il mondo proclamava la pace sempiterna
  • Poggiolini regalava il suo lingotto a una famiglia indigente
  • Una povera bambina che impersonava la pace, o forse il mondo o forse la pace nel mondo, che durante la coreografia musicale doveva saltellare sul palco indossando una calzamaglia integrale di lana grezza che le starà ancora oggi provocando eritemi da prurito e che sotto i riflettori era trasparente e mostrava i suoi mutandoni della nonna e l’adipe sulle zinne
  • Alla fine c’era il coro, di cui feci parte seminascosto: indossavamo il saio da Comunione – un’altra geniale idea della regia – che a me andava larghissimo perché me l’ero fatto prestare. Mi faceva sembrare un misto tra un fantasma e uno del Ku Klux Klan
  • La SNAI per eccesso di giocate smise di accettare scommesse sulle bestemmie dei padri costretti a trovare parcheggio in pieno centro storico e a subire tutto questo scempio.

Non è che hai le idee di Michael Jackson solo perché riesci a schiarirtele

Sono uscito per la mia consueta passeggiata domenicale, questa mattina.
Anche se non so se due volte possano costituire una consuetudine: quand’è che inizia? C’è un momento in cui un agire diventa consuetudine?


Mi ricorda la storia del paradosso di Eubulide sul mucchio di sabbia: ne esistono varie versioni, in sostanza esse dicono che se tolgo un granello di sabbia da un mucchio, esso è ancora un mucchio, ne tolgo un altro e lo è ancora, ecc. ecc.. Quindi, quale è il momento in cui il mucchio non lo è più, considerando che IL granello non È il mucchio?


Uscendo di casa, ho constatato che il cortile interno del palazzo dove vivo ha un che di inquietante.

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Un tempo dovevano esserci delle attività commerciali lungo i lati e il portone doveva esser sempre aperto per il via vai di persone: c’è ancora lo scheletro di qualche insegna a ricordare il tutto.

La sedia a rotelle che si nota a sinistra è sempre lì. Giace abbandonata e impolverata.

Non incrocio mai gli altri inquilini, né li sento muoversi, parlare, agire. L’unico segno della loro presenza è costituito dai cassonetti della differenziata che si riempiono. A volte tutto il complesso sembra un luogo fantasma. Forse prenderà vita di notte.


A scanso di equivoci o di attacchi d’angoscia: non è così lugubre e la zona intorno è abbastanza viva.


Colto quindi da questi pensieri melanconici, mi sono recato nuovamente a Buda, deciso a percorrere stavolta vie che i turisti non battono neanche ai calci di rigore.

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Le persone mi trovano strano quando dico che, delle volte, amo le strade deserte, gli alberi spogli, il cielo grigio e l’orizzonte fumoso.


In pratica lo scenario che ho trovato oggi. Penso eleggerò questa strada a “mio” posto. Il “mio” posto è un luogo che, seppur frequentato da altre persone, è considerato dal punto di vista emotivo una proprietà personale, in quanto gli altri non ne coglieranno la stessa specificità.


Allora evito di raccontarlo per non apparir a-normale, ma è uno sforzo inutile in quanto la gente riuscirà sempre a trovarti addosso qualcosa di strano, come un poliziotto corrotto che durante una perquisizione ti infila in tasca una bustina di droga.

Ho poi incontrato una cornacchia lungo la strada.

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Volevo catturarla in una foto, ma ogni volta che le puntavo contro il telefono zampettava più avanti al momento dello scatto. Ha rifatto tre volte lo stesso gioco, poi si è fermata, mi ha lasciato scattare e dopo se ne è volata via.

Amo queste passeggiate perché concorrono a un percorso di deframmentazione della mente. Schiariscono le idee permettendo di compiere un check di tutto quello che si è accumulato, rimettendolo al posto giusto.

Quando cammino senza una direzione la mente è libera nel suo riordino in quanto l’attenzione non è focalizzata su essa.


L’atto di pensare che si sta pensando costituisce una limitazione del pensiero.


L’attività motoria della deambulazione è quindi un buon sistema di deconcentramento.

Quando infine l’umidità ha iniziato a esser eccessiva – me ne sono reso conto dai baffi che cominciavano a gocciolare – ho ritenuto opportuno rincasare.

Anche l’ovvio vuole la sua parte

Sono tornato a Roma mi-costi-un-Capitale e, per non perdere le mie vecchie abitudini, ho ovviamente dimenticato delle cose a casa.

In particolare, tra l’altro, due oggetti importanti: accappatoio e pettine. E dire che quest’ultimo neanche lo uso per i capelli, visto che quando sono corti stanno fermi da soli e quando cominciano a crescere basta infilarci la mano come a voler sistemare un ciuffo inesistente.

Io il pettine lo uso per la barba e i baffi.
La gente ride quando ascolta questa cosa, quella stessa gente che mi fa i complimenti per la barba curata: forse credono che una barba si curi da sola? Magari di notte mentre dormo se ne va a passeggio come le scope di Fantasia e va a darsi una sistemata davanti lo specchio?


Quanto è bella la sequenza della danza delle scope? E dire che da bambino un po’ mi terrorizzava, un po’ per le scope che si animavano con braccia e pseudo-gambe (ma senza occhi né bocca!) e un po’ per la musica che era un crescendo di inquietudine.


E dire che sino a questa mattina ho continuato a mettere in valigia sino all’ultimo momento cose che ricordavo di aver dimenticato. E mentre infilavo dentro anche il mio fido borsello mi sono ricordato troppo tardi che avevo dimenticato di togliere dall’interno i confetti che mi aveva dato M.. È stata a un matrimonio, i confetti non le piacciono e quindi quando ci siamo visti lunedì me li ha rifilati. Dato che non piacevano neanche a me, li ho dimenticati nel borsello. Non è stato bello quando nel prenderlo sono rotolati giù sul pavimento, col gatto che giocava a fare il calciatore e con la zampa a cucchiaio (al grido di “mo te faccio er cucchiaio”) li infilava sotto il letto.

Il mio ritorno è stato contrassegnato, nel regionale da Termini a Stazione-prossima-a-Casa-Romana, da uno spettacolo teatrale. Nel vagone precedente il mio quattro passeggeri (o persone che sembravano tali prima di rivelarsi attori – probabilmente squattrinati – che cercano di farsi conoscere), hanno cominciato a dar vita a una rappresentazione tra i sedili, sotto lo sguardo curioso, un po’ perplesso, a tratti distaccato e accompagnato da qualche ventata di alitosi, degli altri passeggeri.

Quando mi sono alzato per scendere ho assistito all’atto finale e mi ha colpito ciò che ha detto uno degli attori: “il viaggio è il viaggiatore”. Gli altri tre hanno iniziato a ripetere la stessa cosa come un mantra: “il viaggio è il viaggiatore”. Forse mettevano in scena Pessoa o forse l’hanno soltanto citato, non lo so.

Mi sono interrogato su cosa potesse significare e sono giunto alla conclusione che è una di quelle cose ovvie cui non pensi mai, ma che quando realizzi pensi “certo, è così!”. È un po’ come quando in un giallo avete avuto il colpevole sotto gli occhi sin dall’inizio ma non avete mai puntato il dito contro di lui: quando viene rivelato, voi esclamate: “Ma certo, era lui!”.

In fondo, il viaggio siamo noi stessi. Non è detto che due persone che si spostano da un punto A a un punto B vivano le stesse esperienze, provino le stesse sensazioni, ricevano allo stesso modo gli input dall’esterno. Da persone diverse, viaggi diversi.

Inebriato da questa mia scoperta e sentendomi ispirato, ho provato a ri-scoprire altre cose ovvie. Come ad esempio scoprire il detto mai fidarsi delle apparenze: entrato in casa e non vedendo in giro la coinquilina cinese, né notando nel frigo la sua solita provvista di bibite gassate di ogni sapore, colore, colorante ed emulsionante, ho sperato che avesse levato le tende.

Pia illusione: dormiva. Alle ore 13 si è alzata dal letto e ha iniziato a fare i suoi vocalizzi lirici.


Riassunto delle puntate precedenti per chi non c’era e se lo fosse perso e per chi c’era ma non gliene fregava niente e anche se lo riscrivo non so se gliene fregherà: a Casa Romana c’è una cinese, astro nascente della lirica, che è qui per specializzarsi come soprano.


Vorrei concludere questo post con una nota di colore. Ho appreso soltanto oggi che qualche giorno fa il Papa si fosse recato da un ottico per cambiare gli occhiali, destando curiosità e stupore nei cittadini.


Non capisco le reazioni: un Papa non usa occhiali? E se li usa, dovrebbe mica fabbricarseli da solo?!


Ho provato anche io grande curiosità e stupore nel rendermi conto che l’ottico era lo stesso cui mi ero recato io per far sistemare i miei occhiali, quello simpatico e sovrabbondante di lettere ‘a’.

Ora, non so se nel negozio Sua Santità abbia incontrato lo stesso tizio con cui ho avuto a che fare io, ma ho provato a immaginare la scena:

PF: Mi scusi fratelo…sono aquì porqué coi miei occiali non vedo bene…
O: ‘a Francé: ma chi t’aaaa dato ‘ste lenti? Pure ‘na talpa ce vede mejo, mò t’aaaa dò io ‘na lente seria.
PF: Grassie…

Sì, più o meno sarà andata così.


ERRATA CORRIGE
Purtroppo non è lo stesso. Il mio era all’inizio di via del Corso (partendo da Piazza del Popolo), il Papa è andato in quello nella parallela, a via del Babuino.

E so anche il motivo: PF deve aver letto il mio post e deciso che quello dove sono stato non gli piaceva.


Il mondo di Dalí (3)

prima parteseconda parte

Terza parte

___Da bambino ero spesso vittima di un incubo ricorrente. Nella mia sequenza onirica, una marachella venuta allo scoperto mi aveva attirato il biasimo dei familiari, divenuti severi oltre misura come preda di precedenti rancori. Logorato dai sensi di colpa, mi allontanavo indietreggiando verso un buio corridoio, senza perdere di vista la stanza illuminata dove i miei genitori, dagli sguardi carichi di riprovazione nei miei confronti, rimanevano immobili. Mentre l’oscurità intorno cresceva, delle eteree braccia provenienti dalle ombre si allungavano verso di me. Le mani mi sfioravano, parevano tentare di tirar via qualcosa da me, forse spogliarmi dell’onta e del rimorso, senza successo. Infine, quando anche l’ultimo barlume di luce si era spento, avevo la sensazione di precipitare. Guardando in basso potevo vedere un oceano blu, profondo e gonfio come sul punto di esplodere, ad attendermi. I flutti in collera si alzavano in enormi creste, cigli spumosi in procinto di separarsi in due parti rivelando immense fauci pronte a richiudersi su di me, seppellendomi nell’abisso. È a quel punto che finivo per destarmi dal sonno, con la sensazione di essere precipitato sul materasso.
___Dopo tanti anni l’incubo si ripresentò, con le medesime sensazioni e paure culminate con la caduta verso la bocca oceanica. Svegliatomi prima di essere divorato dai marosi, questa volta mi ritrovai realmente sott’acqua. Annaspai e mi agitai prima di rendermi conto che non avevo alcun bisogno di respirare: credetti di vivere ancora un sogno, ma specchi sul fondo e strani esseri che vi fluttuavano intorno mi rammentarono il surreale mondo in cui mi trovavo. Era proprio un meraviglioso spettacolo, volatili dai colori sgargianti agitavano le ali come fosse l’acqua e non l’aria il proprio elemento naturale, qualche creatura metà pesce e metà altro di indefinito di tanto in tanto faceva la sua comparsa tra rocce e alghe multiformi, più in là, invece, un anziano nudo apriva e chiudeva il suo torace come fossero le ante di credenza, rivelando un corpo privo di visceri, mentre una donna-tigre graffiava con ira la superficie di uno specchio.
___Uscii dall’acqua arrampicandomi su una robusta alga che mi fece da scala. La presenza di specchi anche sott’acqua non mi stupiva più di tanto, ne esistevano alcuni disposti in modo casuale persino tra i cieli, poggiati su maestosi archi di pietra o imprigionati in solide conformazioni rocciose sospese nell’aria senza alcun sostegno. Realizzai che anche la prospettiva era coartabile alla legge del caso che dominava questo universo. Così come, osservandolo dalla giusta angolazione, un alberello in primo piano può sembrare più alto di una montagna, allo stesso modo era possibile unire gli artefatti in aria sino a congiungerli con il suolo semplicemente guardandoli da una determinata posizione. Svelata l’illusione, potei anche concedermi una passeggiata tra le nuvole.

Morbida costruzione con fagioli bolliti

___Le creature di questo mondo non cessavano di stupirmi. Non mi era ancora ben chiaro se esistesse una suddivisione tra esseri umani – o presunti tali – e animali, mentre potevo azzardare nel credere a una distinzione tra i sessi, seppur in molti casi fosse impossibile discernere le differenze. Vagare per terre desolate o esibirsi davanti agli specchi sembravano le uniche loro occupazioni, senza premura alcuna di soddisfare altre necessità, come alimentarsi o trovare ristoro nel sonno. Un altro arcano era rappresentato dagli specchi, che io continuavo a identificare come tali ma che sarebbe stato più corretto definire come delle finestre sul mondo reale; è solo dall’altro lato che lo specchio assolveva la sua semplice funzione di riflettere la luce.
___Il funzionamento della connessione con il nostro universo mi era chiaro parzialmente, il modo in cui fosse possibile sintonizzarsi sul proprio alter ego rimaneva un mistero. Gli specchi liberi mostravano luoghi casuali, grazie a ciò posso dire che col mio vagabondare avevo visto interni di abitazioni da qualsiasi angolo del mondo. Un dubbio qui mi inquietava, come fosse possibile, con le infinite combinazioni possibili, che io fossi riuscito a vedere – anche se ne avrei fatto a meno – un luogo a me familiare come era la stanza di N.? I ricordi potevano essere vaghi e sbiaditi, magari avrò viaggiato per l’equivalente di secoli prima di incontrare per caso quello specchio, ma non ne ero certo. Un incontro fortuito, può darsi, ma ricordo che in me in precedenza si agitava il pensiero di quella donna, tra nostalgia e malinconia e il desiderio di raggiungerla. E che dire dei miei esperimenti con il tempo? Possibile che la mia fortuna fosse tale da essermi imbattuto facilmente in finestre aperte su degli orologi? Fino a quel momento, preso dalla suggestione dei luoghi che visitavo, non ci avevo riflettuto, ma qualcosa ora poteva cominciare a quadrare. Sì! Forse era il pensiero la chiave di tutto, in qualche modo lo specchio era in grado di entrare in risonanza con le onde mentali di chi vi si poneva di fronte.
___Animato da nuovo impeto, intravedevo una flebile fiamma di speranza. Tra il camminare senza meta e il segreto desiderio di trovare il mio alter ego, non avevo mai rivolto un pensiero verso casa mia, la rassegnazione o un desiderio di fuga dal reale mi avevano distratto. Ma ora, sì, potevo compiere un tentativo, magari una volta sintonizzato su quel luogo familiare – da cui, non ne ero sicuro, probabilmente il mio viaggio aveva avuto inizio –  potevo ritrovare la via del ritorno o, anche, attirare il mio doppio di questo mondo e attendere lo sviluppo degli eventi.
___Non fu semplice, nella furia dell’eccitazione mi concentravo a fatica, cambiavo specchio di frequente, fuggendo da quelli occupati. Poi, finalmente, mi sentii attratto verso un vetro informe incastonato nel terreno. Dall’altra parte, in penombra, potevo riconoscere in un corridoio un vecchio mobile sul quale erano poggiati, in razionale disordine, una rivista, le chiavi di un’auto, delle bollette ancora da pagare e un soprammobile di dubbio gusto. Lo avevo trovato, era lo specchio aperto sull’ingresso del mio appartamento. Forse una lacrima di commozione fece la sua comparsa.
___La porta all’improvviso si aprì e una mano sull’interruttore accese la luce. Qualcuno violava il mio domicilio? Una persona dalle sembianze familiari, di spalle, passò davanti lo specchio, gettando le chiavi sul mobile. Nulla poté descrivere l’orrore che provai mentre il presunto intruso si girava, mostrandosi a me.
Lui era me!
Il mostro di là dello specchio, dunque, ero io!

Il mondo di Dalì

«È l’ultima volta».
Forse N. lo avrà detto a se stessa, mentre le sue mani scivolavano sulla schiena dell’ex di una vita. La relazione tra i due poteva dirsi finita da qualche anno, ma occasionali appuntamenti di letto non erano mai cessati. Inconsciamente, era il pretesto di N. per fuggire ogni altra relazione, evitare di sentirsi legata a qualcuno che le si potesse stringere troppo.
Mentre lui indugiava sui segreti intimi di lei, il senso del rimorso si fece evanescente, sopraffatto dal demone della passione. Mi allontanai da quelle scene per pudore, e anche per rabbia, considerato che la verità sulle persone che si conosce non fa mai del bene.
___
Qualsiasi spettatore indiscreto avrebbe visto due corpi nudi stretti su un letto, ma, in fondo la stanza, lo specchio mostrava tutte altre immagini: esseri mostruosi stretti in un animalesco amplesso, zanne e artigli che incidevano le carni in un’orgasmatica estasi, versi inumani da bocche grondanti ulcerose bave. Nessuno sa ciò che gli specchi proiettano quando non sono osservati, pur essendo a portata di sguardo. Nella beata indifferenza, si apre la finestra sul mondo di noi stessi, con i nostri diabolici corrispettivi, portatori delle nature occulte di ogni essere umano, inconsapevoli abitanti di una Terra al di là di un vetro.

La disintegrazione della persistenza della memoria (1952)

___Non ricordo di preciso quando io abbia effettivamente varcato la soglia, né da quanto io mi trovi qui. In questo mondo non esistono meccanismi per scandire il tempo, né è disponibile un qualsiasi riferimento allo scorrere degli eventi. Tentare di cogliere qualche indicazione scrutando l’altro lato è speranza vana, le mie ricerche sono terminate senza successo.
___Un giorno, uno specchio che si apriva su una stanza provvista di un orologio a muro con datario mi diede modo di iniziare il mio esperimento. Senza smettere di guardare dall’altra parte, sincronizzai il mio orologio da polso, lasciando poi trascorrere un minuto. Il tempo passò in maniera uguale e con precisione simmetrica per tutte le lancette, dandomi modo di procedere con il test successivo. Memorizzate ora e data, mi allontanai tenendo d’occhio il mio orologio anche questa volta per un solo minuto. Rimasi basito nello scoprire che per il calendario dell’orologio a muro erano invece passati due giorni, quando andai a controllare. Pensai che quella fosse l’equivalenza base tra i due mondi in assenza di un osservatore, ma per sicurezza ritentai l’esperimento con la stessa modalità. Scaduti i 60 secondi, al di là dello specchio vidi che era trascorsa una settimana! Dopo l’iniziale smarrimento, mi allontanai da lì pensando che si trattasse di uno scherzo o di un malfunzionamento dell’oggetto. Trovai altre finestre aperte su calendari automatici, orologi o altri apparecchi per segnare il tempo, ma ogni esperimento finì col restituirmi risultati ogni volta diversi, un minuto dal mio lato poteva valere da un secondo a un intero mese dall’altra parte del vetro. Affranto e nervoso, gettai il mio orologio in un fossato. Pochi secondi dopo, un rumore attirò la mia attenzione: col quadrante in pezzi, l’orologio giaceva al suolo come piovuto dal cielo.

fine prima parte

seconda parte