Non è che ti serva un ornitologo per un composto volatile

C’è un volatile tropicale, il bucero, che ha sviluppato una strategia di vita vincente. La chiamerei La scelta del bucero. Sarebbe un buon titolo per un libro. Se fossi in grado di scriverne uno.

Il saper scrivere non si limita all’infilare una serie di parole, come perline in una collana, in una lingua corretta e con la dovuta attenzione verso la sintassi. È come dire di saper giocare a basket perché si conoscono le regole. È importante ma non sufficiente.

Inoltre, per me conta anche e soprattutto lo scopo dello scrivere. Una scrittura senza scopo fallisce in partenza.

L’unica volta che ho scritto con un serio scopo è stato in prima media, quando scrissi una lettera, lunga, a una mia compagna di classe di cui ero invaghito.

La lettera finì nel cestino, accartocciata a formare tante circonvoluzioni quante quelle del mio cervello che aveva cercato di mettere insieme qualcosa di pregno e prolisso come un trattato sulla Cacopedia.

Lei poi mi disse che non c’aveva manco capito niente e dopo le prime righe l’aveva gettata.

Posso quindi difendermi dicendo di non essere stato capito dal pubblico e puntare il dito contro la sua ottusità.

Mi sto dilungando.

La strategia del bucero, dicevo.

Questi volatili si piazzano nelle zone dove le manguste scavano le tane e portano allo scoperto cavallette, locuste e altri insetti, di cui sia le manguste che i buceri si cibano. Potrebbero sembrare in competizione per la caccia, ma il bucero svolge una funzione utile per la mangusta: la avvisa dell’arrivo di rapaci suoi predatori. La fiducia della mangusta è tale che non teme di lasciare che le cucciolate si aggirino sotto lo sguardo attento del bucero.

Il bucero agisce per convenienza, chiariamo, non certo per amore della mangusta e spirito fraterno interspecie.

Quantomeno, comunque, evitano di farsi una guerra tra poveri.


Poveri nei confronti dell’aquila, s’intende. Perché nessuno ha chiesto il parere delle locuste!

 


Vedo in giro tante guerre tra poveri.

Ieri, cercando delle informazioni in rete, sono finito su un forum di concorsi. Uno dei più grandi e frequentati. Ho chiuso dopo averne letto un paio di pagine. C’era solo gente che si aggrediva a vicenda. E pure a Vicenza. È vero che in un concorso sono tutti tuoi avversari, ma, alla fine, credo che pur con storie diverse si trovino tutti nella stessa medesima condizione. Un popolo di concorrenti che vivono di speranze, attese e sudore su testi e test. E, alla fine, energie che vengono spese solo per odiare qualcun altro che non sta facendo nulla di male. Proprio come te.

Il forum di concorsi è solo un esempio, che mi era venuto in mente. Se spengo il computer e scendo per strada vedo persone che si gridano disprezzo, accusandosi di rubarsi spazio a vicenda. Ma loro sono solo manguste o buceri che condividono la stessa nicchia e non si accorgono di ciò che qualcun altro, qualche aquila, gli sta portando via.

Sì, qualcuno dovrebbe scrivere La scelta del bucero.

Non è che se lanci un sasso verso uno specchio d’acqua sono 7 anni di guai

Sono entrato nel bagno di un bar e mi ha colpito che al posto dello specchio sul lavandino ci fosse un poster che reclamizzava una grappa.

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La collocazione di una pubblicità nei servizi igienici è quanto mai fraintendibile. Il messaggio che ne traggo è che il posto idoneo per questa grappa – che, tra l’altro, in passato ho bevuto senza aver nulla da recriminarle – possa essere solo il bagno.

Mi capita di guardarmi spesso allo specchio. O nelle vetrine. O in qualunque altra superficie riflettente. Non è vanità, è più che altro l’ansia di aver qualcosa in faccia. Forse è la mia stessa faccia a darmi questa impressione.

Non bisogna dare la propria faccia per scontata.

Mi piace osservare le facce della gente. Lo faccio da così tanto tempo e così spesso che ora mi sembra di riconoscere delle facce e scambiarle per altre facce a me familiari. Mi chiedo se io faccia (e lo dico non a caso) lo stesso effetto a qualcuno. Mi hanno scambiato per qualcun altro, delle volte. Altre volte mi sono fatto scambiare per qualcun altro, invece. Altre ancora, vorrei essere proprio qualcun altro.

A volte però potrebbe essere un problema.

Una persona mi si è aperta davanti. Come una finestra spalancata da uno ventata. Mi ha detto che delle volte non si riconosce. Come se fosse qualcun altro. A me è venuta in mente questa canzone, che parla di un disturbo dissociativo, la depersonalizzazione:

 

Inizia proprio parlando del guardarsi allo specchio: I woke up this morning/Didn’t recognize the man in the mirror.

Quando ero al liceo una mia compagna di classe tentò di buttarsi dal balcone del bagno. Il fatto che una scuola avesse i balconi può sembrar strano, ma la nostra sede non era altro che un palazzo condominiale riadattato a uso scolastico.

Non sapemmo mai la verità, se lei tentò veramente di scavalcarlo oppure la compagna di classe che era con lei e diede l’allarme andò in paranoia notandola affacciata e con lo sguardo perso nel vuoto. Questa seconda versione iniziò a circolare qualche giorno dopo l’accaduto. La compagna salvatrice era nota per essere un po’ ansiosa e paranoica. Non è proprio una bella cosa essere considerati così.

Non mi ricordo molto di quel che avvenne nei giorni successivi. Non se ne parlò molto con i professori. Ricordo solo una discussione sullo specchio e dell’impatto che può avere su un/un’ adolescente la scoperta della propria immagine. E con quello iniziò e finì il nostro primo e ultimo angolo di confronto scolastico socio-psico-pedagogico di quei 5 anni.

In tempi più recenti, invece, sono stato in un B&b che aveva degli specchi sui comodini. No, non in verticale sulla parete cui era appoggiato il comodino: no, lo specchio era orizzontale incollato sul ripiano del comodino. Quando li ho visti ho pensato immediatamente due cose:

  1. Li avranno messi lì per far pippare?
  2. Quanta gente ci avrà pippato, fino a quel momento?

Così non ho preso sonno pensando a quegli specchi e a gente china sopra di essi a sniffare. Il che è un pensiero assurdo, in una camera di albergo potrebbe avvenire di tutto e uno su questo non ci pensa mai, ma quegli specchi sul comodino mi facevano venire una sola cosa in mente.

A pensarci bene, gli specchi sono proprio un gran fastidio.

Forse è davvero meglio toglierli e bere.

Non è che non ti puoi laureare in piedi perché si tratta di una seduta di laurea

Viviamo in un’epoca in cui cerchiamo sempre più certezze per la nostra salute: vogliamo sapere che i prodotti che acquistiamo sono 100% organic 100% bio 100% senza olio di glutine e per questo ci piacciono le confezioni con tante di queste scritte colorate.

Organizziamo varicella party perché anche una malattia esantematica ha diritto a divertirsi.

Sempre più italiani si curano con metodi alternativi. Sempre più alternativi si curano con metodi italiani.

È per questo che oggi vorrei parlare di una pratica di cui mi sono da tempo note le virtù terapeutiche: il facesitting.


Preciso che questo articolo non ha alcuna finalità di divulgazione scientifica, non essendo io medico: indi per cui non posso essere tacciato di essere al soldo di qualche multinazionale.

La seconda avvertenza è quella di praticare il facesitting solo in ambienti sicuri e con personale professionista e qualificato. A tal proposito, posso fornire su richiesta in via privata il contatto di qualche mistress che effettua sedute terapeutiche di facesitting. Il contatto viene da me fornito a titolo puramente personale e SENZA ALCUNO SCOPO DI LUCRO se non quello di ricevere una percentuale sul numero di clienti.


Facesitting letteralmente vuol dire facciasedendo, dalla formula di cortesia che un tempo si utilizzava per dar inizio alla pratica. La padrona, infatti, chiedeva umilmente al servo

– Potrei metterle il culo in faccia, mio buon servitore?

il quale rispondeva

– Prego mia signora, faccia sedendo.

Il facciasedendo o facesitting nasce in Inghilterra nel ‘700, come pratica ricreativa della classe gentry per svagarsi dalle ubriacature al pub e le partite di whist. Molto spesso le due attività si univano e non era raro che venissero giocate partite di whist mentre i giocatori praticavano facesitting sulla servitù.

Ben presto però ci si accorse che i servi su cui era praticato facesitting durante il weekend fossero sul lavoro più volenterosi ed energici nel corso della settimana successiva.


Per quanto si possa essere volenterosi ed energici nello svuotare pitali giorno per giorno.


Qualcuno pensò a una correlazione con la pratica ma qualsiasi discorso intorno al facesitting si arenò in modo brutale quando un uomo morì soffocato durante una seduta.

Lo scandalo fu che la vittima non fosse un semplice domestico o lacchè – non era raro infatti che qualche sguattero di cucina ci lasciasse le penne sotto le poderose natiche di qualche Madame – ma un lord gentleman molto noto e stimato nella sua comunità, mentre la donna proprietaria del culo non una contessina ma una “volgarissima cuoca”, come scrissero i giornali del tempo. Il caso finì sulla bocca di tutti – quella stessa bocca su cui, con tanta ipocrisia, fino a poco prima era poggiato un deretano – e arrivò a Corte. Re Giorgio III, l’allora Sovrano che sembrava non disdegnare usmare sederi altrui, con un editto dichiarò illegale “poggiare le proprie nude terga a contatto col viso di un altro essere umano”. Per questo intervento bacchettone e moralizzatore fu molto criticato e da Re Giorgio Terzo fu soprannominato Re Giorgio Terga perché si diceva a forza di praticare avesse assunto la faccia come il.

Caduta in disgrazia, la pratica finì quindi nel dimenticatoio e bisognerà attendere l’età vittoriana per la sua riscoperta. A dispetto della sua dichiarata austerità e sobrietà di costumi, l’epoca della Regina Vittoria fu, per usare parole degli storici*, “un’età di veri porcelloni e mandrilli”.


* Tra cui il Prof. Durbans dell’Università di Scarborough.


Sempre più professioniste del meretricio offrivano nella propria lista di servizi anche quello di una bella seduta in faccia, facendosi però definire, forse per qualche vaga eco degli antichi trascorsi in cui esisteva una rigida separazione sociale, “padrone” mentre ai propri clienti era riservato il ruolo di “schiavo”. Molti avventori di postriboli tornavano a casa corroborati dalla seduta, rilassati e bendisposti d’animo e più di uno avrebbe giurato di aver tratto beneficio da malanni vari e doloretti reumatici che lo perseguitavano.

L’editto di Giorgio III tecnicamente resta ancora valido a tutt’oggi non essendo mai stato abrogato ma sin dalla sua promulgazione era stato aggirato: dato che citava “nude terga”, alla padrona bastava tenere indosso un capo intimo qualsiasi. Ancora oggi non è raro, forse per abitudine, che le mistress non pratichino il facesitting a sedere nudo ma indossino della biancheria, se non, addirittura, jeans o pantaloni.

Oggi è riconosciuto che regolari sedute di facciasedendo, insieme a uno stile di vita salubre, una corretta alimentazione e una sana attività sportiva, migliorino la salute generale della persona.

Test clinici dimostrano che la pressione di un paio di glutei sul volto favorisca il rilassamento dei tessuti muscolari e, tramite le microtture dei capillari superficiali, una macro ossigenazione della pelle.

Io ho 33 anni e ne dimostro 26, a esser precisi 26 e un po’. Coincidenza?

La mia prima esperienza in assoluto di facesitting fu del tutto involontaria. Ero in seconda media, in classe ci si stava simpaticamente spintonando, mimando risse tra compagni maschi come si fa a quell’età per cementare il proprio spirito di gruppo e sudare pezzandosi l’ascella per spargere i propri afrori prepuberali.

d43a30c703c9b696c6c83d2fcc015eceNon so se fu una spinta di troppo o una mia scivolata avventata, fatto sta che in caduta falciai in tackle una mia compagna di classe, come neanche il buon Fabio Cannavaro di quei tempi. La poveretta volò all’indietro piombando col sedere proprio sul mio viso e facendomi dare una sonora craniata al suolo. Testimoni dicono che la mia testa sul pavimento produsse il suono di un campanaccio da vacca.

All’epoca non sapevo che una testata simile potesse uccidere né che un culo in faccia, soprattutto quello della mia compagna che indossava una tuta di acetato 100% antitraspirazione, potesse indurre il soffocamento e quindi mi salvai non riportando dannx cerebrbali a lung034f9id02304ew0e45dlsl’scl”e’4”02303ì’ììì

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Pregevole stampa illegale d’epoca (XIX sec.) che mostra una coppia durante una seduta terapeutica

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Stampa didattica giapponese che invita le mogli a praticare facesitting ai mariti e consiglia alle figlie di osservare per apprendere i segreti della tecnica

Non è che devi dire alla gente di scansarsi prima di lanciare un prodotto sul mercato

Il marketing è tra le cose che mi affascinano di più.

La genialità sta nell’andare sempre incontro ai bisogni della gente, di prevederli o anche, come sosteneva Stefano Lavoro, di crearli laddove non ce ne sono.

Così, quando qualcuno ha iniziato a diventare oliodipalmafobico, sono iniziati a comparire prodotti senza tal ingrediente.

Quando ha preso piede la follia collettiva del mangiare senza glutine pur non essendo celiaci, i supermercati hanno raddoppiato gli scaffali di prodotti gluten free.


Almeno questo è un bene per i veri celiaci, ovviamente: 15 anni fa ricordo che una mia compagna di classe, celiaca, doveva andare a comprare il cibo a 20 km di distanza. Su ordinazione.


Il cibo gourmet. Passi quello preparato da uno chef stellato, ma che il pub di Giggino il zozzoso serva un panino 5 piani hamburger, bacon fritto, anelli nuziali di cipolla, cheddar esausto (il famoso cheddar una volta…) funghi tribolati (hanno subìto maltrattamenti) con soppalco (abusivo ma poi condonato) di parmigiana di melanzane con totale di 1500 calorie – contorno di patate fritte nell’Agip Sint 2000 escluse – e me lo faccia pagare 13 euro perché “è gourmet” mi sembra un po’ una truffa.

La guerra dichiarata da alcuni anni alle taglie 40 e ai modelli di fisico troppo distanti dalla realtà ha indotto molte case di moda a utilizzare modelle di taglie superiori e/o non ritoccate con Photoshop.

Anche in questo caso, può essere visto come un bene e un piccolo passo di civiltà. Io non posso fare a meno di vederlo come un semplice tentativo di crearsi e/o esplorare altre fette di mercato, con buona pace della civiltà.

Non voglio comunque entrare nel merito di ciò, anche perché c’è già tanta gente che dibatte su quale utilizzo fare del corpo femminile. E quelli che dibattono, tipo me, non hanno neanche un corpo femminile. Alcuni non hanno neanche un corpo ma solo una testa di cazzo.

Tutti gli esempi che ho fatto sono soltanto propedeutici alle mie riflessioni su come entrare nel mondo del marketing, in quanto prima o poi debbo decidere cosa fare da grande.

Ho pensato quindi a delle idee che, forse, in futuro potrebbero ispirare nuove linee di prodotti appositi dopo una adeguata campagna di sensibilizzazione sociale.

Il gluteo-free: secondo uno studio dell’Università di Baden-Baden, nel Baden-Württemberg (Baden-Germania, Baden-Europa Centrale) la costrizione continua dei muscoli delle natiche ad opera dei capi di abbigliamento (in particolare i jeans) sarebbe collegata all’insorgenza di patologie. A prescindere da quali esse siano, se c’è una patologia e si indossano dei pantaloni, il collegamento è immediato anche se i grandi marchi di abbigliamento tendono a negare.

Sarebbe quindi consigliabile indossare capi che lasciano le natiche scoperte. Tra le star questo stile di vita è già noto e tra le prime a proporre il vestiario salutista fu, in tempi non sospetti, Christina Aguilera, qui in una diapositiva durante una convention gluteo-free:

Il gluteo-free è una filosofia perfettamente compatibile con la propria vita, come dimostra questo distinto signore che si reca al lavoro in scooter:

– Un altro studio, comparso sulla rivista di divulgazione scientifica Confidenze (che confida nel fatto che tu non lo dica ai Poteri Forti), ha invece illustrato i vantaggi della dieta Vegana.

Il corpo umano, infatti, seppur celebrato come macchina perfetta, si presenta alquanto debole e fragile.

Ne sa qualcosa Actarus, che per difendere i Terrestri dai forti nemici guidati dal Re Vega, deve ricorrere a un’astronave-robot. Che cosa mangiavano mai i Vegani per essere così grossi e temibili?

Vegani soddisfatti dei loro fisici possenti frutto di una corretta alimentazione.

D’altro canto, Goldrake sconfiggeva i Vegani mangiando libri di cibernetica e insalate di matematica, quindi secondo alcuni dissidenti il segreto di longevità sarebbe una dieta contro-Vegana!

– Il Professor Vlad dell’Università Carpatica della Transilvania, infine, ha illustrato il suo punto di vista sulla dieta del gruppo sanguigno.

Secondo il Professore, una dieta ben bilanciata deve contenere la giusta alternanza tra A, B, AB e 0.

Non d’accordo con lui il Professor Van Helsing, ma quest’ultimo è pagato dalla lobby dei venditori di aglio.


Questo post non intende offendere o deridere coloro che, per scelta o obbligo di salute, seguono un regime alimentare particolare. Ha invece l’intento di offendere e deridere coloro che si auto-prescrivono regimi alimentari secondo gli orientamenti del webbe.


Se non sono riuscito nell’intento di offendere e deridere coloro che si auto-prescrivono ecc. mi emendo.


Non è che se la paura fa novanta tu debba farle gli auguri di compleanno

Ascolto discorsi di persone che si confessano le proprie paure.

Si stanno in realtà a vicenda identificando in un qualcosa di comune. Hanno paura dei treni, hanno paura delle bombe, hanno paura di questo e di quello. Le chiamerei paure generali, perché ne parlano tutti e perché sono contagiose, a differenza di quelle personali che se le hai alla fine son cacchi tuoi.

Delle volte la paura instrada su ragionamenti irrazionali. Come il tizio che ti manda da un’altra parte quando chiedi indicazioni.

Ricordo una volta, di ritorno dalla gita al liceo, lungo l’autostrada il pullman perse un pezzo di battistrada. Ci fu uno scossone e un po’ di apprensione. Durante la sosta in autogrill, mentre l’autista controllava il tutto, una compagna di classe esclamò

– Questa gita non si doveva fare, era stato annullata, infatti.


Nel 2003 causa lo scoppio della II Guerra del Golfo i viaggi scolastici all’estero furono annullati e sostituiti con viaggi nazionali.


Loro sono voluti andare contro il destino – proseguì – e il destino ora ci punisce.

La guardai desiderando di cospargerla di pece e piume e farla rotolare lungo il pendio dell’area di sosta dell’autogrill perché a me i discorsi “1000 e non più 1000!” danno fastidio.

Non che la paura non sia utile. Probabilmente è quella che ci ha fatto sopravvivere ed evolvere.

Sarà andata così: una mattina, milioni di anni fa, un homo si svegliò. Probabilmente era un Abilis, anche se alcuni ritrovamenti lasciano ipotizzare che già Australopithecus afarensis avesse dimestichezza con gli arnesi. Senza impelagarci in dispute scientifiche, restiamo sul fatto che un homo si svegliò un mattino. Forse un po’ erectus perché al risveglio succede sempre così.

Un giorno se ne doveva andare in giro, ma aveva paura di fare brutti incontri. Allora portò un bastone con sé perché non si può mai sapere, infonde sicurezza e può venir buono per mazzolar qualcuno. Un altro homo lo vide e pensò: E che son scemo io? Prenderò un bastone più bello. E di bastone in bastone, di perfezionamento in perfezionamento, l’homo è arrivato a questo:

Anche io ho paura, come tutti.

Ma le mie paure non riesco a confessarle, perché non sono generali. Dietro la collina.

Una delle mie paure è quella di rimanere solo. Può sembrare paradossale, considerato che da solo mi trovo bene. Ma posso dire di trovarmici bene finché sono certo di non essere realmente solo.

E ho paura che gli altri se ne accorgano e di ritrovarmi con il non avere niente da offrire perché Ehi, sono qui solo per accompagnare la paura, poi me la vengo a riprendere dopo. E la gente penserà Ti presenti a mani vuote con la paura di star solo mentre qui si bussa coi gomiti.

E dovrei far vedere che i gomiti me li son mangiati, a forza di ri-morsi.

Non è che il rocker appenda il cappello al “chiodo”

Da bambino collezionavo berretti da baseball non originali. Dato che quelli griffati costavano troppo mi era concesso comprare solo pseudo imitazioni con nomi improbabili ma americaneggianti, del tipo “Green Skins”, “American University” e via dicendo.

Avevo poi un cappellino Rebook abbastanza misero ma che era il mio preferito, fino a che un giorno in prima media una compagna di classe cui pare io piacessi non se lo strusciò sotto il sedere durante l’ora di educazione fisica.


A me basta un occhio solo per parare, capito?

La cosa andò così: scendemmo in cortile, maschi a tirare calci al pallone, femmine a giocare a pallavolo. Da buon portiere, come era di moda negli anni ’90 e come faceva Benji Price, indossavo il cappello. Non vedevo un cazzo ogni volta che il pallone si alzava, ovviamente, perché la visiera era più grossa della mia testa.

Una compagna – non quella cui piacevo – mi chiese di prestarle il cappello, per il sole. Io glielo cedetti, per fare il galante. Ero un gattomorto già da piccolo.

Dopo un po’, mentre mi godevo la solitudine del numero uno (il calcio da ragazzini funziona così: tutti dietro la palla, tranne il portiere, ovviamente), arriva un gruppetto di compagne agitando il mio berretto e gridandomi
Gintokiiiii…N. si è presa il tuo cappello, si è seduta sopra e si è anche strusciata!

Strani metodi per attirare l’attenzione.


Tale compagna dedita a tali strane pratiche di corteggiamento, tra l’altro, era l’unica a 11 anni ad avere già una terza. Non capisco io a cosa pensassi e perché mai io la ignorassi!


Probabilmente la visiera mi impediva di avere una visione corretta degli eventi.


Portavo il cappello ovunque, anche dentro casa. Altrui.

Idem dicasi per la chiesa, dove poi ovviamente me lo facevano togliere e io accettavo di buon grado. Ero fervente cattolico da piccolo, prima di scoprire la pornografia.

Una cosa non l’ho mai capita: perché togliersi il cappello in chiesa?

Una delle prime cose che insegnano è che dio è ovunque.
Quindi avrebbe dovuto essere presente anche sotto il mio cappello.

Forse lì sotto fa troppo caldo quindi bisogna togliersi il cappello per farlo uscire a respirare? Perché allora non vale per le donne? A dio piacciono i capelli delle donne anche se un po’ sudaticci? Anche a me, purché non oltre un giorno dopo lo shampoo e non certo dopo una maratona o una giornata di saldi.

Può sembrare una stupidata (no, tranquillo, non sembra: lo è), ma quando ho provato a fare delle ricerche su internet riguardo questo argomento ho scoperto che molta gente nei forum cattolici si interroga sulla questione “cappello in chiesa”. C’è chi si accapiglia a colpi di Nuovo Testamento vs Concilio Vaticano II. E non sto scherzando.

La tesi su cui concordano costoro è che l’uomo si tolga il cappello per rispetto, la donna lo tiene per coprirsi, come segno di morigeratezza (?)

In loro soccorso a tal proposito giunge Paolo nella prima lettera ai Corinzi, versetti 13 – 15:

13 Giudicate voi stessi: è conveniente che una donna faccia preghiera a Dio col capo scoperto?
14 Non è forse la natura stessa a insegnarci che è indecoroso per l’uomo lasciarsi crescere i capelli,
15 mentre è una gloria per la donna lasciarseli crescere? La chioma le è stata data a guisa di velo.

Ma se oggigiorno in chiesa è accettato un uomo con i capelli lunghi o una donna a capo scoperto, perché non è ancora accettato un uomo col cappello?
Mi risponde ancora Paolo che evidentemente già sapeva di me e del mio essere rompicoglioni:

16 Se poi qualcuno ha il gusto della contestazione, noi non abbiamo questa consuetudine e neanche le Chiese di Dio.

Gli chiedo scusa.

Però vorrei dire: si polemizza sempre sulla Chiesa, che dovrebbe modernizzarsi e aprirsi e quant’altro ma avessi sentito uno, dico soltanto uno, porre la questione del cappello. Io non lo trovo giusto: i diritti dei portatori di cappello che fine fanno se non hanno voce in capitolo?

Ero quindi carico di questi dubbi mentre rimiravo il copricapo che utilizzo qui a Budapest per difendermi dai rigori e dai calci di punizione dell’inverno.

Tranquillizzo tutti i vegani, il pelo non è di origine animale ma di casalinghe di Orzinuovi.

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Con un paio di occhialoni potrei sembrare Jet McQuack

Non è che i complimenti costino molto perché sono degli “apprezzamenti”

La mia CR, oltre che fonte di racconti sulla sua vita privata (ovviamente in questi giorni ci sono stati aggiornamenti), ispira anche delle riflessioni.

Oggi si parlava di complimenti.
Ho confessato di non essere molto avvezzo a elargirli e lei, scherzando, mi ha detto “Ah, sei un po’ orso eh”.

Il che è vero, anche se non capisco perché si debba usare un orso come metafora. Insomma, anche una scolopendra non credo sia tanto affabile eppure nessuno dice “Sei proprio una scolopendra!”.

La mia scarsa abitudine agli elogi divenne proverbiale al liceo.
Ricordo che, una volta, espressi un commento positivo sulla nuova tinta di capelli di una compagna di classe e lei a quel punto esclamò “Ooh! Fermi tutti! Gintoki ha fatto un complimento!”.

Va bene il mio essere una scolopendra, ma mi parve eccessiva la reazione. Oltretutto, non era neanche una gran tinta: sembrava che si fosse lavata nel concentrato di pomodoro.
O forse sto solo denigrando reagendo a posteriori al suo scherno (tra l’altro doveva essere uno scherno LCD, perché lo trovai alquanto piatto e freddo).

Il mio problema con i complimenti è che sembra che realmente mi costino molto perché non so come formularli. Quando mi cimento in un apprezzamento sono sempre sconnesso, impacciato e alla fine contorto, col risultato che ciò che doveva essere un complimento lascia interdetto il destinatario.

Il fatto è che odio le frasi banali, che sanno di retorico o di tantoper.

Mi chiedo sempre, inoltre, con riferimento alle donne, la credibilità che possa assumere un commento nei loro confronti, disinteressato, su materie su cui sono del tutto ignorante.

Il vestiario, ad esempio. Per me un jeans è bello o brutto e basta. E spesso confondo i due aggettivi perché non me ne intendo di abbigliamento. Indosso camicie a quadri, quindi di cosa stiamo parlando?

Insomma, va come va per i colori: laddove per un uomo esiste il rosso, il blu e il giallo, per una donna dall’occhio esperto esisterà il rosso cremisi, il rosso carminio, il rosso pompeiano e via dicendo.


DIDASCALIA STORICO-CROMATICA
Tra parentesi, il rosso pompeiano nemmeno esiste. È stato il Vesuvio a creare una simile variante cromatica.


DIDASCALIA FELINO-CROMATICA
È come la storia della pantera nera: non esiste e basta.
Chiariamo: Pantera è il sostantivo che identifica tutto il genere di grandi felini. La specie è quella che poi varia: Pantera Leo (leone), Pantera tigris (tigre), Pantera Pardus (leopardo) e così via. Non esiste la singola specie “Pantera Nera”: è soltanto un leopardo o un giaguaro nato nero. È come la tigre bianca: nessuno dirà “Pantera bianca”, è una tigre e basta con una variante cromatica. Quindi la definizione più corretta sarebbe quella di “Leopardo/Giaguaro melanico”.

Ecco, con i complimenti sull’abbigliamento funziona allo stesso modo: sono uno che dice “Che bella pantera nera”, confondendo quindi stili, tagli e dress codes.


Per la cronaca, io sono invece di genere Felis. Sono cugino dei Panteri, veniamo dalla stessa famiglia, ma non parlo molto coi parenti e quindi a Natale sto per i gatti miei.


Delle volte ho timore che il complimento sia fraintendibile.

Ad esempio “Mi piaci con questi jeans” potrebbe essere inteso come “Toglitelo un attimo che vorrei guardarlo da vicino…sì ecco proprio così, uh interessante la tua biancheria, fammi vedere da vicino pure quella…sì ecco scusa stenditi un attimo che vorrei parlarti…no no tranquilla i tuoi vestiti stanno lì da parte, non vorrei che capi così belli si sporcassero, anzi facciamo così, ci metto pure i miei così i tuoi non si sentono soli, che ne dici?…Uh che freddo all’improvviso, fammi stendere un po’ di fianco a te…No forse sopra si sta più caldi, che dici?


In certi casi in realtà avviene così.


Che il pensiero sia quello, intendo. Che poi ci si tolga i jeans è un altro discorso.


Che poi nel momento in cui si tolgono ci si rende conto che alla fine non era quindi vero che “Mi piaci con questi jeans”, perché sennò glieli avresti fatti tenere. Ma a quel punto saresti giusto un attimo feticista. Quindi se ti piace di più senza, sei stato invece uno sporco bugiardo con quel complimento. E torniamo al punto di partenza.


In realtà il modo migliore di fare un complimento è essere spontanei: nel momento in cui ci si riflette su è come se l’apprezzamento perdesse fragranza. Come dei biscotti la cui scatola non è stata richiusa bene.

Se invece è immediato, anche un semplice “mi piace” non è banale.
Con o senza jeans.

Non è che puoi obbligare una foca monaca a essere laica

Ogni volta che il Natale si avvicina io lo guardo con diffidenza, chiedendomi quest’anno cosa voglia da me.

Ricordo sempre le parole che mi rivolse una mia compagna di classe, una simpatica st…upidina.

Era periodo di festività, si stava quindi discutendo degli ultimi giorni di scuola prima della meritata (si sa che i liceali si ammazzano di fatica! Quelli di oggi ancor di più, studenti indefessi, molto fessi e poco inde) quando lei si rivolse a me, facendo:
– Gintò ma tu non credi, che membrovirile festeggi a fare allora?
Io risposi, con un accenno di ditino sentenzioso, che il Natale può assumere anche altri valori.
Lei ribatté, con la boria e l’indifferenza di chi ha il cerume nelle orecchie e non sente gli altri: Sì sì, ti mangi il panettone, ià abbiamo capito.

Son cambiati i modi e le modalità, ma simili, sterili, obiezioni le ho sentite altre volte nei successivi 15 anni, tanto da farmi pensare a volte di vivere come un appestato.

Non ho mai compreso l’ostilità altrui su certi argomenti. E il perché di essere costretti a porsi il problema di rivelare o meno di non essere credenti o tenerselo per sé come se fosse una pratica sconcia.
– Ehi, sai, quando sono da solo mi trastullo con dei dildo da uomo!
– Bleah, vergognati! Tienitelo per te, fai proprio schifo.

Ecco, più o meno è questo l’atteggiamento di molte persone.


Altri, online – si sa che varcati i Gates del virtuale le tastiere trasformano anche le anime più pavide in invincibili guerrieri senza Mac e senza paura – mi hanno invitato gentilmente a trasferirmi in Iran e a farmi impiccare.
Perché mai? Se proprio debbo andarmene via in quanto non gradito, mi si conceda la scelta del Paese! Sono indeciso tra un atollo del Pacifico, con tutti i rischi dell’innalzamento dei mari, o il Giappone, con tutti i rischi dell’insanità mentale che quella società può creare. Comunque vada potrei finir male insieme alla mia blasfemia, che ne si gioisca, allora!


In secondo luogo, non capisco perché una persona dovrebbe porsi il problema di come sia o non sia l’altrui Natale.

Premettiamo che il 90% delle abitudini e usanze di questo periodo, le luci, lo shopping, Una poltrona per due, i pranzi, la neve, la neve assente ma desiderata, la neve presente e scassacazzo, le mutande di pizzo rosse, il parente insopportabile che devi invitare perché sennò succede un ’48, non ha nulla a che fare col cristianesimo. Sono degli artefatti.

Anche la data e l’anno di nascita di Gesù Cristo (che neanche si chiamava Gesù Cristo, per inciso) sono fittizie, ma questa è una considerazione strumentale. Non approvo chi ne fa un vessillo di contestazione religiosa, perché la datazione va considerata per ciò che è: un simbolo. Mi si perdonerà l’esempio profano, ma è come, poniamo, stabilire una giornata mondiale per i suonatori di cornamusa colti da enfisema fulminante, scegliendo una data che corrisponde al giorno in cui il primo suonatore di cornamusa colto da enfisema fulminante sarebbe spirato. Fa niente che magari morì di indigestione e che magari non è neanche esistito: è un simbolo. Persino un nichilista come me riconosce che le persone hanno bisogno di stringersi attorno a Esso. E anche all’Agip o alla Q8.


Il problema sorge nel momento in cui si comincia a pensare che il proprio simbolo sia l’unico dotato di legittimità e/o che sia più forte dei simboli altrui.


Quindi, ammesso e non concesso che non si tratti del 25 dicembre dell’anno zero, chi se ne frega?

Chi crede, commemora la nascita del Cristo. Va in chiesa, prega, ricorda, eccetera. Tutte cose che io non faccio, perché sarebbe ipocrita e falso da parte mia. Se lo facessi, a quel punto potrei sì essere oggetto di critiche.

Ma se mi piacciono le luci o stare seduto a tavola con la famiglia, non vedo cosa io stia facendo di ipocrita o immorale. E, in ogni caso, un credente si sente infastidito o minacciato da ciò? E perché mai: il mio pranzo a tavola sta togliendo qualcosa al suo pranzo Natale? Non ho mai rubato pranzi altrui, si sappia.

Capisco che la festività santa sia stata svilita da una serie di pratiche consumistiche, ma non sono stato certo io o quelli come me a crearle – e ho premesso che la maggior parte delle cose che la gente fa a Natale, credenti compresi, ha ben poco di religioso, a mio avviso – né cerco di alimentarle in maniera compulsiva.

L’unica cosa che magari rubo o di cui magari godo sono le ferie natalizie, ne son conscio. Se un Cristo c’è spero che chiuda un occhio per aver approfittato del suo compleanno per starmene a casa.
Altrimenti chiuderò io un occhio al prossimo suo fedele che mi investirà di disprezzo.

Ma lo farò con tanto amore, perché, in fondo, a Natale siamo tutti più buoni.

Per chiudere, visto che non voglio che mi si dica che sono cinico e negativo, voglio condividere qualcosa di gioioso e carino.

Notate la grazia e la beltà di questo Babbo Natale strabico, senza mani, con le gambe ingessate e con anche probabilmente una orchite in stadio avanzato, che accoglie i clienti all’ingresso di uno SPAR, che sarebbe il nostro DESPAR ma non capisco perché da noi abbia un nome diverso, un po’ come il Mediaworld che in tutto il mondo è in realtà Media Markt.

2015-11-30 14.32.29

Oh oh…ohio.

In Africa mi salverei in calcio d’Angola

Ovvero di come fui raggirato da svedesi e giapponesi e rapito da un angolano.

L’altro giorno ho ritrovato il mio tesserino di quando lavorai per il World Urban Forum VI* nel 2012.
*È una conferenza itinerante sullo sviluppo urbano sostenibile (3 anni fa fu a Napoli) organizzata da un’agenzia dell’ONU (UN-Habitat).

Furono 10 giorni (l’evento + i preparativi) molto interessanti.

Innanzitutto capimmo ben presto che noi volontari dell’ufficio stampa non servivamo a molto: scrivere comunicati si rivelò non essere compito nostro (il WUF aveva già un proprio canale ufficiale), la rassegna stampa era del tutto inutile perché non la guardava nessuno, l’assistenza ai giornalisti accreditati era un evento abbastanza raro (nessun giornale o canale tv inviò stabilmente i propri inviati, al massimo si recavano lì, scrivevano il ‘pezzo’ e andavano via). Cercammo comunque di renderci utili per non usurpare il gettone giornaliero che ci veniva corrisposto.

Un giorno ad esempio feci lo steward che accompagnava giornalisti e personalità, chiamate a partecipare ai dibattiti, per i 20 metri che separavano il cancello dei controlli dalla sala accrediti. Perché non si sa mai cosa può succedere in un tragitto così lungo e pericoloso: sequestri, attentati, arrivo delle ruspe di Salvini (che all’epoca si allenava con le macchinine, forse) e così via.

La nostra sede ufficiale era la sala stampa, vuota di giornalisti per i motivi già descritti, il che la rendeva semplicemente una sala wi-fi free. Noi volontari che stazionavamo lì venivamo scambiati per tecnici informatici. In realtà esisteva uno staff di volontari informatici, la cui sede era purtroppo 200 metri più avanti, in un altro padiglione. Una volta, dopo essere andato avanti e indietro per cercare di prenderne uno in prestito, fui rapito da uno spazientito inviato dell’Angola che mi prese sotto braccio e, indicando una sedia, mi fece capire “mettiti qui e risolvi questa cosa”.
Il problema in questione era che il suo notebook non si connetteva a internet pur inserendo correttamente la password. Mi salvai artigliando il mio responsabile e piazzandolo subdolamente al posto mio per salvarmi in corner.
Io ho un problema coi computer, ma non con tutti. Solo quelli degli altri. Ai miei apparecchi riesco a far fare tutto ciò che voglio, a costo di smadonnamenti e ricerche di tutorial online. Per il semplice motivo che se sbaglio qualcosa sono io il padrone dello strumento. L’ansia di causare un danno a una proprietà altrui mi porta a dire sempre “non ho idea di come si faccia. Hai provato a (soluzione banale, del tipo premi F5)…Ah già fatto? Allora non so”.

La zona più bella era il padiglione con gli stand degli Stati. Da quello dell’Angola ricevetti come gadget una maglietta, un cappellino e una penna. E pensare che non risolsi neanche il problema wi-fi del loro inviato.

Lo stand della Palestina distribuiva sciarpe con la bandiera palestinese e lasciava assaggiare pane con origano e olio di quella terra. La sciarpa fu da me indossata alla cerimonia di chiusura del WUF. Quando ebbi di fronte il capoccione di UN-Habitat che presiedeva l’evento e che strinse la mano a tutti noi volontari, notai in lui un’espressione di malcelato imbarazzo quando mi osservò.
Come quella volta nel 2003 che alla festa di 18 anni di una compagna di classe io e un mio amico ci presentammo conciati come due barboni: io felpa, pantaloni hip hop e catene, lui in piena fase Drugo Lebowski, mentre la festeggiata era abbigliata come alla comunione. Ma lei al telefono aveva detto “venite a prendere una fetta di torta, una cosa tranquilla”. Ho capito anni dopo che prendere una fetta di torta non vuol dire semplicemente presentarsi e prendere una fetta di torta.

Presso lo stand del Giappone era possibile far scrivere il proprio nome in katakana. Un’attività simpatica ma pressoché inutile, in quanto non esistendo in Giappone un corrispettivo dei nomi occidentali, la traduzione è una mera trascrizione fonetica. Essendo il giapponese una lingua sillabica, un nome come, ad esempio, Alessandro, diverrebbe Alesusanduro.
Io mi recai tre volte lì e da tre persone diverse ottenni 3 scritte diverse che variavano in base a come loro capivano l’accento sulla parola.

Lo stand della Svezia un giorno offrì un buffet. Ma non di prodotti tipici svedesi, ma di cose italiane. Peccato fosse tutto congelato: la pasta al forno era un blocco di ghiaccio, le mozzarelline erano dei ghiaccioli da sciogliere in bocca. Persino le olive erano surgelate. Ancora mi chiedo se fosse un richiamo al clima scandinavo o un errore culinario. O magari una burla.

Un gadget che ci autoregalammo fu una pennetta usb 32gb col logo dell’Onu, che non era riservata a noi ma ai partecipanti dell’evento. Dato che erano arrivate in sovrannumero, ritenemmo opportuno considerarle di nostra iniziativa un ricordino della manifestazione per noi volontari.

La mia la ebbi per poco, però. La cedetti a una anziana signora francese che batteva sulla tastiera soltanto con i pollici, avendole l’artrite compromesso le dita. Venne nella sala stampa per aggiornare il suo blog e inviare un ‘pezzo’ a non so chi. Doveva poi salvare l’articolo su pennetta, ma la sua smise di funzionare e quindi le diedi il mio gadget preso clandestinamente.

A un ricordino è meglio un ricordo.

La mia credenza non è popolare perché la presi al Mercatone Uno

Ricordo quando mi dissero “È per colpa di quelli come te che esiste il male nel mondo” e io ci rimasi un po’ così. In quel periodo c’era la guerra in Iraq (la chiamo guerra perché geopoliticamente parlando sono rimasto indietro di decenni e non mi sono aggiornato), tra le tante cose che affliggevano il mondo. E io sarei voluto andare lì e dire Ragazzi, vi prego smettetela, state facendo un casino solo per colpa mia. Purtroppo voli diretti Napoli – Baghdad non ce ne erano e così alla fine non ho risolto niente.

Una compagna di classe, invece, si infervorò proprio tanto e alzò la voce dicendo “Ma allora che cazzo ci stai a fare al mondo, perché non ti uccidi allora” e in effetti me lo chiesi anche io, non proprio al mondo ma mi chiesi Sì, cosa cazzo sto a fare qui di fronte a te, che a parte sei sempre stata una stronza, ora ti inalberi e attacchi in modo gratuito. Mi ha sempre infastidito la predicazione di amore e il contrabbando di odio che alcune persone mettono in atto.

Uno sconosciuto su un forum fece un’osservazione: “Ma scusa, se tu vedi uno che si sta gettando da un ponte, non corri a fermarlo?” E io pensai che non faceva una piega, come disse lo stiratore mettendo l’appretto. Se non fosse per un particolare: una persona che sta per suicidarsi è una realtà sensibile e oggettiva, mentre tu parli di una cosa che vedi tu. Insomma, provate a immaginare la scena: siete lì che camminate per strada placidi e tranquilli, con le mani dietro la schiena, canticchiando urca urca tirulero

All’improvviso vi si avventa contro una persona che vi abbranca e vi grida Non lo fare! Pensaci! Fermati finché sei in tempo!

Assurdo, no?
Eppure avevo pensato di provare a farlo. Solo che la gente che cammina per strada non credo abbia tutta questa voglia di giocare e poi non si sa mai chi incontri, si possono rischiare le botte. A meno di non avere la prontezza di riflessi di dire Sorrida alla telecamera! Stiamo girando, guardi lì in fondo, vede?

Perché, in fondo, la televisione ci rende tutti più buoni.

Una collega universitaria invece provò a convincermi che in realtà io credessi nel niente e quindi tecnicamente io professassi un credo. Quindi alla fine non si scappa perché uno può pure dir di no ma alla fine crede sempre ed è come se quello che ti dice questa cosa avesse vinto perché ha dimostrato la tua ipocrisia.

Io vorrei dire, al di là del ragionamento capzioso, Ma va là, che scoperta.
Io credo in tante cose. Credo che, avendolo visto per 29 anni, 10 mesi e un giorno, domani il Sole sorga di nuovo, a meno di cataclismi imprevedibili e immediati. Credo che se mangio i peperoni o una qualsiasi cosa che contenga un aroma al peperone, poi mi sento dell’acidità salire dal fondo della gola. Mi hanno detto che bisogna mettere un po’ di zucchero nei peperoni per ammazzarne l’acido, ma finché non provo non ci credo. Credo che non bisognerebbe perdere mai la capacità di emozionarsi di fronte alle piccole cose, perché se poi ci pensi anche questo ti fa sentire vivo. Credo non ci sia bisogno a volte di tante parole, perché le persone spesso vogliono semplicemente essere ascoltate e l’ascolto attivo è un esercizio difficile ma produttivo di benessere per te e per il prossimo. Credo che gli esseri umani siano esseri umani e gli animali siano animali e non si debbano confondere le cose, ma credo anche che possiamo pure mettere camicie a quadri ma al di sotto di esse restiamo dei mammiferi e facciamo tutte le cose che fa un mammifero e questo non andrebbe dimenticato.

Credo nei batteri.
È inquietante sapere che abbiano all’interno del nostro corpo miliardi di microrganismi che influenzano la nostra vita più di un Concilio Vaticano. Magari le nostre scelte, il nostro carattere, le nostre azioni, sono decise dal nostro microbiota. Ti sei svegliato con una voglia di kebab alla cipolla? Magari non sei tu realmente a volerlo, ma è un bifidobatterio microscopico dentro il tuo tubo digerente.

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E ho pensato a tutte queste cose mentre oggi rassettavo un po’ casa, approfittando della giornata che sembra primaverile. E ho concluso poi la mattinata operativa dando una bella spazzolata all’anziana gatta. Era da tempo non lo facevo. Vederla che si beava al sole delle mie attenzioni mi ha riempito di gioia. E forse questo non è dovuto a un batterio e mi ha fatto sorridere.

Cogito, ergo meow.

E credo infine che questo qui fosse un bel film, anche se poi per un lungo periodo ho odiato l’eterna adolescenzialità di Accorsi tanto da non sopportare l’idea di vedere un film con lui presente.

“Scrivo lettere d’amore”

Lungo il vialone frequentato dalle operatrici del sesso che percorro ogni giorno in auto c’è una baracca di un pittore, o aspirante tale. Spero sia realmente l’area di lavoro di un pittore e non una copertura per lo spaccio. Il fatto è che mi chiedo sempre se riesca a vendere i propri quadri.

All’esterno della baracca sono esposte le sue opere. Non sono un critico d’arte, ma le trovo abbastanza bruttine. Magari proverò a segnalarlo ad Andrea Diprè.

Passandovi davanti stamattina, ho buttato un occhio all’esposizione: ho notato, in mezzo alle tele, un cartello: SCRIVO LETTERE D’AMORE

l-673È tutto il giorno che ci ripenso. È come se avessi letto una cosa così anacronistica, fuori dall’ordinario. Come se qualcuno mi avesse detto “riparo monocoli”. Attenzione, non sto denigrando lo scrivere lettere d’amore (e neanche i monocoli, che trovo molto fighi ma il mondo oggi non può capirlo), lungi da me: è solo che mi ha dato da pensare.

C’è qualcuno che scrive lettere d’amore, oggigiorno? Questa è la domanda che mi pongo. E chi la riceve, che impressione ne ha?

L’ultima volta che ne avrò scritta una sarà stato alle medie. Era indirizzata a una compagna di classe: com’era consuetudine, per la consegna mi affidai a un complice. Mi raccomandai che gliela consegnasse dopo la scuola. Lui disse che non aveva problemi, dato che l’avrebbe incontrata al centro culturale dove andavano entrambi il pomeriggio.

Se non che, il complice prese un’iniziativa personale. Poco dopo avergli affidato la lettera, lui andò in bagno, dove incrociò Lei nel corridoio. Le diede la lettera, dicendole che io avrei voluto mettermi con lei.

Stop
Pausa dal flashback.

Quanto è brutta l’espressione “vorrei mettermi con te”? L’ho sempre odiata da ragazzino. È quel verbo “mettere” che mi suona proprio male. È grezzo, spartano, inappropriato. Senti, metti a posto la tua stanza. E metti i piatti lavati nel ripiano superiore. Ah, già che ci sei, prendi te stessa e mettiti con me.

Play

Il complice tornò in classe comunicandomi l’avvenuta consegna. L’avrei picchiato. Non ci si può proprio fidare dei sottoposti. Portò con sé anche una domanda. Io ero preparato a due eventualità: che lei rispondesse “Neanche per sogno!” o che facesse i salti di gioia. Rimasi spiazzato quando invece sentii la domanda che pose a lui: “E perché vuol mettersi con me?”

Ma che domanda era? – pensai – Perché mi piace, risposi. Il complice andò a riferire alla pulzella e poi tornò a sedersi. Io, dall’altro lato della classe, la osservai poi aprire la lettera e leggerla. Fu un minuto che durò quanto un minuto di recupero quando stai vincendo con un solo gol di scarto, stai giocando con un uomo in meno e con un altro che zoppica in campo e la squadra avversaria sta attaccando. Chi ha visto anche solo di sfuggita una partita di calcio del genere capirà la sensazione.

Poi lei accartocciò la lettera e andò a gettarla nel cestino, meritandosi una menzione nella mia biografia.