Non è che ci sia cura per la rabbia

I balconi si stanno tingendo di azzurro anche qui in provincia, più lontano dal centro storico. Confesso che, pur essendo tifoso, lo trovo anche io un po’ eccessivo. Quantomeno aspetterei che fosse ufficiale, dovrebbe essere questione di un mese.

Però, d’altronde, se male non arreca a nessuno, quale è il problema?

Una volta sentii qualcuno (in realtà più di qualcuno) dire: con tutti i problemi che ci sono, che c’è da festeggiare?

In realtà io credo che proprio perché ci sono tutti questi problemi forse forse trovare qualcosa per cui entusiasmarsi non sia un male.

Sono questioni molto complesse. L’intrattenimento non può e non deve diventare un oppiaceo o peggio un bel fettone di prosciutto sugli occhi. Anche però l’esser negativi non può e non deve diventare una pillola da assume giornalmente con la quale avvelenarci il fegato per dover espiare una qualche forma di colpa che ci portiamo addosso, per non sentirci in difetto se per un giorno ce ne dimentichiamo.

Le persone stanno male. Ne sono sempre più convinto. E me ne accorgo, più che dai rimedi palliativi con cui si drogano, dalla rabbia che hanno e che esternano.

Oh, io non sono un monaco zen e non faccio eccezione. Vorrei poter sparare onde energetiche dalle mani. Però, ecco, c’è rabbia e rabbia. Pur dando per scontato che sia sempre sbagliata e che un corretto esercizio della forza non deve implicare per l’appunto l’azione rabbiosa, stabiliamo che esistono frangenti in cui sia non dico giustificata ma quantomeno comprensibile.

Ti bloccano il cancello con una sosta selvaggia mentre devi correre al pronto soccorso? Hai perfettamente ragione ad arrabbiarti.

È la rabbia indistinta, quella generalizzata, quella contro dei nemici astratti, che non trovo invece comprensibile.

È la rabbia per frustrazione, perché, pur vivendo in una società che ci permette di avere tante cose, facciamo spesso una vita di merda. Un lavoro di merda. Subiamo spese di merda.

Tutto ciò, però, mi dispiace ma non è colpa di chi festeggia uno scudetto in anticipo o dell’autorizzazione alla farina di insetti o della Sirenetta afroamericana. Certo, ognuno ha le proprie priorità e preoccupazioni: la mia sarebbe avere la certezza di godere tra 30-40 anni (visto che penso di essere giovane e di avere una discreta aspettativa di vita) ancora di acqua potabile. La paura di qualcun altro (che magari tra 30 anni manco ci sarà), oggi, è che magari “visto l’andazzo” (quale andazzo?), si troverà un giorno circondato da perbenismo senza poter essere più libero di dire ne*ro di merda. Sono scelte. Dovrebbe vincere l’acqua tutta la vita rispetto al razzismo, ma son scelte.

Non mi sento di arrabbiarmi con questa persona. Per lo meno non sempre, ci sono dei giorni in cui vorrei invece l’onda energetica di cui sopra. Mi sento però il più delle volte semplicemente di dire Mi dispiace.

Mi dispiace perché quelli come me, presunti progressisti, che si ammantano di un’aura di intellettualità dall’alto di un pene, sono in realtà individui sostanzialmente incapaci di esprimersi in modo assertivo. Colpevoli di aver lasciato che tante persone si arrabbiassero, magari perché qualcun altro – che assertivo manco è ma non gliene frega niente, punta sulla forza dell’urlato – gli aveva detto di farlo.

Cosa si può fare, ora? Non ne ho idea. Facciamo che per oggi vado a prendere dal fondo del cassetto la mia sciarpa azzurra e domani vedo.

Non è che non sai dire il plurale di ‘belga’ e allora dici che hai un amico belga anzi due

Anni fa avevo una sorta di mito del Nord Europa.

Città con larghi viali alberati, spazi verdi, ciclabili ovunque, trasporti efficienti, bar con caffè biologici imbevibili e dentro un tizio col cappellino di lana anche a luglio e le cuffie JBL con lo sguardo concentrato su un IMac che finge di stare inventando la prossima applicazione di successo mentre beve un matcha latte biodinamico.

Ho visto diverse città, sempre da turista. L’opinione di un turista penso come inutilità sia seconda solo a quella di chi passa davanti un ristorante e, trovandolo chiuso, mette una cattiva recensione su Tripadvisor.

Adesso sarà che sento di invecchiare ma credo che non baratterei il Mediterraneo, con il suo stile di vita, le persone, le abitudini alimentari, con nient’altro. Ricordo una volta a Reykjavík una estemporanea conversazione alla fermata dell’autobus con un ragazzo originario dell’Albania e che lavorava nella città islandese. Mi disse, rassegnato: “Sì, qui lavoro, pagano bene – ma costa tutto caro – ma non si vive come da noi al Sud”.

Poi magari avrò incontrato l’unica persona insoddisfatta dell’isola.

Sinceramente non ho mai amato i confronti: stabilire dove e cosa sia meglio è soprattutto questione di carattere ed aspirazioni, a mio avviso. Parlo sempre però di luoghi al di sopra di un certo standard in grado di garantire il soddisfacimento di necessità primarie: poi, come dicevo, dipende da come è fatta una persona e cosa va cercando.

Succede poi alla fine che ognuno guarda al proprio giardinetto (che può coincidere come estensione a qualsiasi cosa: a un giardino, a un paesello, a una città, a una metropoli e così via) e poi lo confronti con i giardinetti altrui, con il loro bel carico di storture e luoghi comuni.


Ho detto giardinetti e non cespuglietti (che andavano più di moda negli anni ottanta).


Tutte queste riflessioni mi sono venute in una birreria a Bruxelles, mentre per accompagnare il litro e mezzo di trappista che avrei bevuto (e il mal di testa conseguente) avevo chiesto un salamino a fette.

Me l’hanno portato. Cosparso di origano.

Chi è che mette dell’origano su un insaccato? Questi nordici sono proprio dei barbari!

La foto è puramente decorativa: l’episodio increscioso non è avvenuto da Moeder Lambic (sempre una garanzia in fatto di birre)

Non è che i Fantastici 4 non fossero artefici del proprio Destino

Conservo ancora da qualche parte, forse lasciato in casa dei miei, un taccuino in cui annotavo frasi estrapolate da libri che avevo letto (ma non solo: anche film visti o dichiarazioni di qualche intellettuale) e che mi avevano colpito.

Evitavo quelle citazioni note e che son sulla bocca di tutti, a volte anche attribuite in modo errato o utilizzate a sproposito (ad esempio Voltaire non ha mai detto che avrebbe gradito morire per una cazzata detta dal suo prossimo).

Ripensavo in questi giorni a una di queste citazioni arcinote e da me non inserite nel taccuino: «Sventurata la terra che ha bisogno di eroi», Galileo per bocca di Brecht (o Brecht per bocca di Galileo).

Ci riflettevo notando come nella stretta quotidianità siamo in qualche modo invasi da presunti eroi della vita normale: collaboratori scolastici che fanno 1000km al giorno, laureati in anticipo col massimo dei voti e con già con un percorso lavorativo avviato grazie alla privazione di sonno, giovani contenti di lavori sottopagati in nome del mito della gavetta.


Non mi soffermo sulla veridicità di tali, commoventi, storie.


Tali realtà di coraggio ed eroismo hanno tutte un denominatore comune: il mondo del lavoro.

Il lavoro, da fondamento dello Stato e diritto del cittadino viene trasformato in un’impresa, un ardimento, un cimento che premia l’individuo disposto al sacrificio, alla fatica, alla rinuncia di qualsiasi altro aspetto della propria vita in nome del nobile sudore della fronte.

Come viene premiato l’individuo? Che domande! Ma con il lavoro in sé! Qual riconoscimento migliore del sudore per il sudore?

La retorica della performance si unisce a un altro incitamento morale per l’individuo funzionale anche questo al mondo del lavoro: il dover essere a tutti i costi positivi e felici.

Beninteso, siamo d’accordo che un certo livello di ottimismo e buonumore eviti di spappolarsi il fegato – ben lo sa chi come me somatizza tutto (o sodomizza sé stesso con le proprie paturnie mentali) soffrendo gastriti e coliti – ma vivere nell’epoca della dittatura del pensare positivo non credo comunque apporti benefici alla salute.

A parte che negarsi il diritto ad avere i maglioni girati non è altro che reprimersi, trovo che stia venendo fuori una società di persone frustrate, insoddisfatte e ansiose, preda del lato oscuro del “Essere artefici del proprio destino” il cui sottinteso è “Se le cose ti vanno male è colpa tua perché non ti impegni, non produci abbastanza, non sorridi nonostante tutto quando le cose vanno male”.

Ecco allora che, per riequilibrare l’universo, vorrei che invece di martellarci con le storie degli eroi positivi ci raccontassero storie di altre persone, antieroi – per gli standard attuali – da premiare perché:

– Hanno chiesto a un colloquio quale fosse la retribuzione perché si ritengono in diritto di venire a conoscenza delle condizioni del lavoro che gli si sta proponendo, invece di aderire alla retorica del “Non pensate allo stipendio”.


Beato quel paese che non ha bisogno di pensare allo stipendio, avrebbe detto Brecht (o Galileo).


– Hanno mandato a quel paese una persona che gli diceva “Sorridi e la vita ti sorriderà”.


Beato quel paese che non ha bisogno di sorridere a tutti i costi, avrebbe detto Brecht (o Galileo).


– Hanno compreso che prendersi un’ora per una tisana e Netflix sul divano di sabato pomeriggio non vuol dire affatto prendersi cura di sé stessi se poi il resto della settimana pensano solo a correre a destra e a manca ed esaurirsi per soddisfare qualcosa/qualcuno perché ti fanno credere che rallentare vuol dire non performare.


Beato quel paese che non ha bisogno di performare, avrebbe detto Brecht (o Galileo).


– Hanno chiesto del pistacchio ma non di Bronte.


Beato quel paese che non ha bisogno dei pistacchi di Bronte, avrebbe detto Brecht (o Galileo).


 

Non è che ti serva una cassaforte per i gioielli di famiglia

Mi sono iscritto in palestra.
A dirla tutta io e M. cercavamo un posto poter tirare qualche pugno e qualche calcio a un sacco: lei voleva riprendere kick-boxing, a me piaceva l’idea di provare qualcos’altro rispetto alla piscina, senza abbandonarla.

E poi un abbonamento può risultare più economico che farsi la doccia nel proprio bagno, di questi tempi.

La palestra vicino casa è di quelle aperte dalle 7 alle 23 e ha le formule entra quando vuoi e fa’ quel che vuoi. Sembra un ambiente tranquillo. Non ci siamo rivolti a una palestra di pugilato e/o arti marziali specifica perché cercavamo qualcosa di soft. In genere sono piuttosto cattivi e incazzati gli istruttori di pugilato e/o arti marziali.

La prima settimana un giorno abbiamo sbagliato corso: pensavamo si tirassero pugni ai sacchi e invece ci siamo ritrovati con uno su un palco che, a ritmo di musica, ti incita a mosse di pugilato, taekwondo, muay thai colpendo l’aria come fosse air guitar. Le famose air marziali. Qualche dubbio sull’impostazione del corso l’ho avuto quando, presentandoci prima all’istruttore, lui ha parlato del rilascio della sua prossima release di brani. E io mi chiedevo se fossimo a fare sport o a un Dj set.

Non è stato proprio quel che fa per me, per due motivi:

1) Ascoltare uno che, sempre sorridente per tre quarti d’ora perché deve per contratto trasmettere entusiasmo, grida E…salto! E…calcio! Siete dei guerrieri! Questa è la vostra sfida! mi crea molto fastidio.
2) Va bene che il fine è solo bruciare calorie ma usare delle mosse molto tecniche senza preoccuparsi di far curare l’impostazione non mi sembra molto indicato. E ci si può anche far male se non eseguite correttamente.

Frequentando invece la sala attrezzi ho fatto poi un paio di considerazioni.

La prima è che tanti adolescenti, ragazze e ragazzi, oggi si pompano. Ai tempi in cui andavo al liceo chi faceva sport praticava o nuoto o pallavolo. Qualcuno calcetto, qualcuna danza, ma non c’era molto altro.

Oggi ci sono 15enni con gli addominali di Cristiano Ronaldo. Cristiano Ronaldo di oggi, perché non credo a 15 anni fosse così strutturato.

La seconda considerazione riguarda gli spogliatoi maschili. Più che altro sulla questioni dei pendagli.

In piscina ho notato c’è molta discrezione sui pendagli: ci si cambia sia prima che dopo con l’accappatoio addosso. A me non frega niente e faccio senza anche perché lo trovo scomodo.

In palestra invece si gira tranquillamente per gli spogliatoi con il proprio pendaglio all’aria, avanti e indietro tra docce e armadietti. C’è anche chi si siede sulle panche senza niente addosso e a me non piacerebbe tanto pensare di sedermi con le chiappe nude e sudate dove poco prima magari ci sono state altre chiappe nude e sudate. Senza contare la questione gioielli del pendaglio: se sei nudo, devi fare attenzione a sederti senza schiacciarli.

Comunque mi son chiesto: la palestra incita all’esibizione del pendaglio mentre la piscina no? Come mai, visto che, comunque, in piscina si sta più svestiti rispetto alla palestra? Forse è paura che l’acqua della piscina abbia un effetto vasocostrittore e che, quindi, il pendaglio possa uscirne ridimensionato?

Interrogativi che restano pendenti.

Non è che ti servano le istruzioni per montare una polemica

Il corpo umano sarà pure una macchina fantastica come si dice ma è una macchina che se la tieni ferma un po’ si rammollisce.

Mi sono fatto l’ultimo concerto in piedi penso nel 2019. Poi non ci sono più stati eventi, come sappiamo, in seguito sono tornati ma solo da seduti. E io mi ero abituato molto bene ai concerti seduto: sì, è vero, non è una cosa che fa molto rrruoocck ma è una cosa che fa molto comodo alle tue chiappe.


Ad esempio andare a vedere Iosonouncane nel Teatro Bellini dal balconcino dove ti puoi anche appoggiare è stata un’esperienza che si situa molto in alto nel mio comodometro.


Sono stato al Sonar – festival di musica elettronica – a Barcelona lo scorso fine settimana. E passare da qualche concerto seduto a un festival in piedi per ore devo dire mi ha fatto rendere conto che la mia macchina fosse proprio fuori allenamento per questo tipo di attività.

Dei festival avevo dimenticato anche un’altra cosa: sono un’economia chiusa in regime monopolistico. I prezzi di cibo e bevande sono degni di un locale di *nuovo imprenditore delle pizze*


Difatti, tra le varie proposte alimentari, ho visto un chiosco dove c’erano pizze a 12€.


Sì, proprio quello lì che si sta facendo un sacco di pubblicità in questi giorni con una polemica montata ad arte.

Uno dei problemi che affrontiamo nella realtà di oggi è ritenere rilevante qualsiasi opinione pubblica e degna di essere riproposta affinché se ne discuta a forza.

«Dei vaccini non mi fido, ci sono dentro cormorani sbeffeggiati e frullati»
Ce lo dice Valchirio Fannulloni, partecipante Isola dei Famosi

«La teoria del gender nuoce allo sviluppo»
La polemica su TikTok lanciata da Asfodelia Crudelini, suonatrice di rutti

«Sulla guerra so io la verità, ci stanno mentendo»
Afferma Misogino Andropatico, ex componente del Bagaglino

Beninteso, Valchirio e Asfodelia e Misogino possono avere delle opinioni personali, ma in quanto personali sono soggettive e fallibili e, comunque, non degne – quantomeno non dovrebbero esserlo – di competenza.

Invece bisogna replicare per giorni e giorni a quelle che sono delle stronzate, e a volte mi viene il dubbio che, così come nel sistema di un festival sei in un regime economico monopolistico e ti magni e ti bevi quello che dicono gli organizzatori ai prezzi che dicono gli organizzatori (sto pensando per le prossime volte, prima che agli ingressi introducano le perquisizioni come in carcere, di infilarmi una bottiglia nel sedere prima di accedere, sarà meno doloroso di pagare poi un bicchiere d’acqua a 3€), siamo anche nella realtà di tutti i giorni in un monopolio. Quello della stronzata.

Non è che chiami la Piaggio per un problema con una vespa

La primavera porta con sé tante cose.

Ad esempio, calabroni grossi come elicotteri.


Nostrani, non quelli asiatici di cui si sente ogni tanto parlare. Ma, comunque, ipertrofici come usciti da una Virgin con un cocktail di steroidi.


Ne ho trovato uno ieri sul vetro, lato interno, della finestra della camera da letto. La finestra era chiusa e anche la porta della stanza. Un giallo perfetto per Arthur Conan Doyle. Un giallo-nero, anzi.

Ho pensato: lo schiaccio. Ma si ponevano due problemi. Il primo era dover ripulire il delitto e, considerando le dimensioni dell’imenottero, ci sarebbe stato tanto da pulire.

Il secondo intoppo era il rischio che il bersaglio avrebbe potuto evitare il colpo e irritarsi un po’ per il tentativo. Insomma, non fa piacere ricevere una ciabattata, lo capisco.

Così ho preso un contenitore e ho intrappolato il vespide contro il vetro. Poi, con il metodo del foglio fatto passare al di sotto, ho aperto la finestra e l’ho posato sul balcone.

Qui subentrava comunque il problema del da farsi: come eliminare il calabrone? Sollevare il contenitore avrebbe comunque potuto portare l’essere a rivolgersi contro la mia persona.

L’ho quindi lasciato intrappolato aspettando morisse per carenza d’aria.

Com’è come non è, stamattina era ancora vivo, seppur abbattuto. A quel punto mi è sembrato veramente di compiere crudeltà (sarebbe stata meglio una morte veloce) e il karma avrebbe potuto punirmi, quindi, approfittando dell’intontimento dell’insetto, ho spinto il contenitore verso il bordo del balcone, aspettando se ne andasse via verso l’apertura creatasi.

Così ora ho rimesso in libertà un pericoloso essere che magari pungerà qualcuno.

Il karma tornerà a punirmi lo stesso.

Non è che vai dal barista per avere un parere espresso

Non scrivo da un po’ in questo spazio.

Il motivo è che sono stato un po’ preso. Lavoro, studio – a proposito, settimana scorsa un altro esame in meno. Ne mancano 3 più la tesi – vita privata, non mi consentono di ritagliare un momento in cui mi dico, come facevo di solito, adesso mi isolo (mentalmente) e metto giù qualcosa.

In realtà il tempo, volendo, lo si trova. Diffido sempre delle affermazioni “Vorrei…ma non trovo il tempo”. Se una persona analizzasse il modo in cui spende il tempo durante una giornata sono certo che, nella maggior parte dei casi, troverebbe spazi in cui avrebbe potuto dedicarsi a quel che dice di voler fare.

È una questione di volontà.

È un po’ quella che mi manca ultimamente.
La colpa è del mio rapporto con internet.

O nostro Signore della Rete, dacci oggi la polemica quotidiana per aver di cui parlare.
Mi sono reso conto che tutto ciò che mi viene in mente da scrivere è legato a qualcosa che ho letto o di cui mi hanno raccontato (e che hanno letto su internet) o sulla quale hanno un parere e che è legata a vicende che non si svolgono nella mia vita quotidiana né hanno attinenza con essa né in/con quella della persona che eventualmente me l’ha raccontato.

Considerato che, allora, cerco di orientare la mia vita secondo 3 regole:
1) Non sei obbligato ad avere un’opinione su tutto;
2) Puoi provare ad avere un’opinione su tutto, ma non sei obbligato a rendere partecipi gli altri a tutti i costi;
3) Puoi provare ad avere un’opinione su tutto e rendere partecipi gli altri: assumiti la responsabilità delle stronzate che dirai;
cerco di disintossicarmi dall’invasione non richiesta di informazione ed evitare di applicarmici troppo.
Viva la desistenza.

Per rinfrescarmi le idee ho messo i piedi a mollo perché ragiono con i medesimi.


Comunque la cosa sembra aver funzionato e mi sento pronto a scrivere più regolarmente.


 

Non è che ti serva la colla per applicarti

In quanto figlio degli anni ’80 ho vissuto un’infanzia in cui supereroi e videogiochi erano qualcosa da sfigati. Raccontare di considerarli come propri hobby equivaleva a un’ammissione di scarsa vita sociale. Se dicevi di preferire startene a casa ti guardavano in modo strano. Oggi a vedere i film Marvel ci va chiunque e un qualsiasi ragazzino ti considererà uno sfigato se non sai cosa siano Fortnite, Minecraft o CoD.

Qualche settimana fa parlavo con un amico che organizza da quasi vent’anni una rassegna di cinema d’autore. Affermava che secondo lui il cinema sta andando verso la morte. Ha sempre la tendenza a parlare con toni apocalittici di qualunque cosa e credo l’ultima volta che abbia guardato alla vita con ottimismo sarà stato all’ultimo scudetto del Napoli.

Però questa volta mi sa che ragione ne ha. La pandemia ha accelerato un declino. Le sale non si riempiono più. Leggevo un commento, a caso, sotto un articolo sulla crisi dei cinema, di un tizio che diceva “Preferisco stare a casa sul divano”.

Ecco. Vent’anni fa “preferisco stare a casa sul divano”, come accennavo, era un atto coraggioso che andava incontro al giudizio altrui. Oggi, invece, è la normalità.

Certo, a casa ti puoi alzare quando vuoi, ti stendi, parli.

Due delle azioni che ho elencato sono a mio avviso sindromi di un deficit di attenzione. Non è più concepibile nell’homo applicans (cioè l’essere umano che si dedica a fare un sacco di cose, tutte male) l’idea di stare fermi e dedicarsi a una singola attività per un tempo prolungato. Magari anche in silenzio. Mi vengono in mente quelli che dicono «Non riesco a leggere». Apri il libro e mettitelo davanti agli occhi: è un buon inizio.

Anche io, già distratto di mio di natura, vivo saltando da una cosa all’altra. Con tutte le conseguenze del caso: per dire, ormai sono oltre l’entrare in una stanza e dimenticarmi il perché di averlo fatto. Mi dimentico proprio di entrare nella stanza.

Voglio provare a fermarmi. A tornare a ragionare di più sulle singole azioni. A fare esercizio di consapevolezza. E se magari il cinema non muore, pure sarei contento.

Non è che il presentatore televisivo sia uno che faccia telelavoro

L’Università eroga anche per questo semestre i corsi in modalità mista: online e in presenza. Riesco quindi ancora a essere un frequentante. Ho notato alcuni docenti non sono però contenti di tenere i corsi su Teams e non vedono l’ora che si smetta; sarà una coincidenza, ma sono gli stessi docenti che hanno delle evidenti difficoltà con la tecnologia: registrare la riunione, cambiare l’audio da altoparlanti del pc a casse esterne, far visualizzare un Powerpoint; situazioni che li rendono nervosi e insofferenti.

Forse, l’anno scorso, potevano cogliere l’occasione per imparare qualche rudimento di informatica, cosa che credo sia necessaria per tutti ma soprattutto per chi insegna, divulga, fa formazione.

Ma, si sa, del senno di poi son piene le fosse.

Io sono più che contento per i miei colleghi di corso, più giovani di me di 10 anni e più, che hanno potuto tornare in aula. L’università non è – o non dovrebbe essere – un esamificio, dove paghi e ti laurei. È un luogo da frequentare e vivere nel quotidiano. Per questo io mai la vorrei vedere trasformata in una università telematica.

Detto questo, la didattica online permette a studenti lavoratori e lavoratori studenti – come me – e studenti fuori sede di poter frequentare e partecipare. Sono conscio di parlare da persona che ha un interesse e quindi una visione parziale, ma credo che comunque il poter allargare la platea dei frequentanti sia un valore aggiunto per l’università.

Non tutti la pensano così e io credo che prima o poi si tornerà esclusivamente alla modalità di frequenza classica: la tecnologia resta ancora un pericoloso demonio, per alcuni.

Al lavoro, invece, è da Novembre che non abbiamo più a disposizione telelavoro illimitato e si è tornati a due giorni al massimo fruibili in questa modalità. In realtà da Gennaio la Spurghi&Clisteri dove lavoro aveva introdotto la possibilità di un terzo giorno di telelavoro settimanale fruibile fino a fine marzo. La Dirigente del nostro Dipartimento però si è dimostrata ostile a questa eventualità. Sua frase ormai entrata già nel mito: «Non è che se una cosa è disponibile uno allora se la prende solo perché c’è». Giusto. Sottoscrivo. L’ossigeno che lei respira, cara Dirigente, non è che dovrebbe prenderselo solo perché c’è aria a disposizione: ci giustifichi il fatto di consumarlo dando aria alla bocca.

Chiariamo: non baratterei mai una vita fatta di contatti e interazioni vis-à-vis con una vita in cui ognuno sta a casa propria e vede gli altri solo attraverso uno schermo.

Però, avere la possibilità di scegliere quando e come vivere online e offline, su quello forse bisognerebbe rifletterci.

Si diceva che «Non torneremo alla normalità perché la normalità era il problema». Temo invece stiamo proprio tornando a quella problematica normalità. Altrimenti non mi spiego perché, pur avendo bisogno per il mio lavoro solo di un pc e una connessione, sia necessario che la mattina io perda un’ora sulla tangenziale in una scatola di latta per andare in ufficio, a fare cose che fisicamente non sono comunque presenti e svolte né nel mio posto di lavoro, né nella città del mio posto di lavoro e nemmeno nella mia Regione. Tradotto, io mi reco in ufficio per svolgere, comunque, un lavoro a distanza.

Sono tante le persone nella mia situazione: gli stessi di cui vedo le facce afflitte e nervose in altre scatole di latta in tangenziale.

Mi rendo conto ci siano tanti interessi che si scontrano: perché il lavoratore che si sposta non crea danni all’ambiente e basta ma genera anche dei ritorni positivi; penso a tutti i bar e ristoranti che vivono intorno gli uffici, per dire. Il battito d’ali di una farfalla che vuol starsene a casa genera un uragano nel portafogli del povero ristoratore.

Non so quindi quale sia la cosa giusta da fare, se razionalizzare il lavoro a discapito di tutto un indotto che vive grazie a esso oppure lasciare tutto come sta, intasando le strade, l’aria, le arterie del lavoratore che non fa altro che stressarsi ancor di più.


C’è un convitato di pietra che non nomino in questo discorso: il trasporto pubblico. Quando inventeranno il teletrasporto, allora potremo parlarne, per il resto, non credo che, al di là delle deficienze del trasporto pubblico di molti territori italiani, sia possibile pensare che la nostra realtà, fatta di tanta provincia meccanica con i propri Comuni autonomi, sia paragonabile al territorio metropolitano delle megalopoli, dove anche chi vive a 30km dal centro è in realtà parte della stessa città e gli basta prendere una metropolitana per muoversi.


Continuo a essere convinto che lo stile di vita che conduciamo non sia sostenibile e abbia dei risvolti illogici; forse bisognava solo pensarci molto prima.

Come quella volta che, quando ancora c’era a livello generale lo smart working diffuso, un sindaco di una grande città italiana richiamava alla necessità di far tornare tutti al lavoro in presenza, al grido di «Mi viene tristezza a vedere le torri in centro vuote».

Forse ci si poteva pensare prima di riempire di vetro e cemento una città e ingrassare i costruttori. Ma, come dicevo, del senno di poi son piene le fosse.

E del senno di Poe (Edgar Allan), son pieni i gialli?

Non è che il sacerdote abbia preso i voti delle recensioni

Ordino un paio di pizze tramite un’applicazione di consegne a domicilio. Scopro che ha implementato un sistema di valutazione del corriere. O forse già c’era ed è stato reso più visibile.

Ho dimenticato quale sia l’ultima cosa che NON mi hanno chiesto di valutare. Addirittura per prenotare un esame all’università dove sono iscritto è necessario prima completare il questionario di valutazione del corso. Altrimenti non è possibile procedere avanti.

Beninteso, non sono contro il votare o recensire esperienze, prodotti, attività. E, a parte il mio caso dell’università, non si è  quasi mai obbligati a farlo. Né temo che finiremo come in un episodio di Black Mirror (terza stagione, Caduta libera) dove in un ipotetico futuro l’intera società si basava sul dare un punteggio alle persone. E, in base a quel punteggio, era possibile accedere o meno a servizi e benefici.

Sono però un filo stanco di vedere tutto così parametrizzato, dimensionato, da stelline, palline, numeretti. Sono stanco di chi recensisce. Per quanto mi sia utile: prima di andare in un ristorante nuovo io ne controllo le recensioni.

Una sera ho passato un’intera cena con uno che attualmente (dico attualmente perché a quanto ho capito ha delle fissazioni periodiche) ha la fissa di fare delle storie su Instagram mentre mangia. Non si limita a fare una foto o un video al piatto, ma si registra mentre osserva il cibo e poi lo mastica, commenta poi il boccone: Mmmh divino ragazzi, spettacolare.

Sostiene di farlo un po’ per divertimento un po’ per parodia del mondo degli influenzatori. Intanto però in quell’occasione ha trascorso l’intera serata al telefono rivolgendosi a un ipotetico pubblico e alla fine ha difeso l’utilità del suo hobby, in quanto, sostiene, la sua valutazione può essere utile ad altri.

Io vorrei invece rivalutare il valore del non giudizio. Il disimpegno. La dichiarazione di non competenza: «Salve, sono un cazzaro. Qualunque opinione, giudizio, voto che darò in questo frangente, non va preso sul serio».

Nell’epoca in cui tutti sono impegnati a dire la loro su qualunque cosa, la desistenza potrebbe essere un atto rivoluzionario. E non è, attenzione, un atto di ignavia. Non si tratta di non schierarsi per viltà o di essere passivi rispetto a tutto. È la scelta consapevole di dire: «Ho mangiato, bevuto, guardato, esplorato, vissuto e non sento l’esigenza di far sapere agli altri cosa ne penso al riguardo».

Non è che ET andasse in palestra per fare alienamento

L’altro giorno, nel mio girovagare su internet cercando delle notizie di astronomia, mi è ricapitata davanti l’immagine della placca d’oro dei Pioneer, le sonde lanciate nello spazio nel 1972 e nel 1973. A bordo di entrambe, fu posizionata una placca con un messaggio per eventuali esseri extraterrestri:

A parte tutti i significati dei simboli incisi (posizione della Terra nel sistema solare; posizione del Sole rispetto a 14 Pulsar; transizione iperfine dell’atomo di idrogeno), l’attenzione viene catturata dall’immagine di un uomo e una donna, inseriti qui per dire agli alieni “Siamo fatti così”.

Un particolare che mi è sempre stato davanti agli occhi tutte le volte che ho visto questa immagine ma al quale non avevo mai prestato attenzione, è che questa raffigurazione degli esseri umani ha qualcosa che non va.

Tralasciando che, mentre l’uomo è rappresentato nell’atto di porgere un amichevole saluto come fosse il capo mentre la donna sembra abbastanza passiva (era pur sempre 50 anni fa) e che l’uomo sembra un bianco occidentale (era sempre 50 anni fa), c’è una cosa davvero evidente.

Il disegno dell’uomo è anatomicamente fedele. La donna, direi non tanto.

Non ha la vulva. È una Barbie, dalla vita in giù.

Ho cercato qualche informazione in più al riguardo. Si dice che chi preparò il disegno – l’astronomo Carl Sagan, mentre l’artista Linda Salzman, sua moglie, realizzò la bozza da inviare all’incisione – preferì non evidenziare i genitali della donna (che poi era giusto una lineetta verticale) per evitare un rifiuto da parte della NASA. Sempre Sagan poi disse che la donna venne disegnata così perché nell’arte classica, nelle sculture greche, le donne erano sempre così: lisce.

Io me lo sto immaginando un alieno che trova la sonda con la placca d’oro, la guarda, vede la donna ed esclama «Ah! Sì! Proprio come nelle statue greche sul mio libro di storia dell’arte terrestre!».

Oppure, ancora: immagino un alieno che vede il disegno, poi arriva sulla Terra, conosce una donna, la vede nuda e scappa sconvolto perché trova qualcosa che non si aspettava di trovare.

Curioso quindi di capire meglio, ho chiesto direttamente ad un alieno. Ne conosco uno, infatti, della cui identità non posso dir nulla perché mi ha chiesto di preservare l’anonimato. Mi ha proprio detto «Non ho proprio voglia che vengano a ficcar NASA dalle mie parti».

Premessa: mi rivolgerò al maschile con l’alieno, anche se, a quanto ho capito, il concetto di sesso è estraneo alla sua gente: sono neutri tendenti all’Achille Lauro e si riproducono per tassazione spontanea.


In pratica la civiltà aliena ha sviluppato il concerto di aliquota volontaria: il momento dell’accoppiamento è frutto di un movimento di scaglioni, il corteggiamento parte esibendo il CUD davanti all’interessato che, se propenso, prosegue facendo registrare la propria entrata. Termina in breve tempo con una liquidazione.


D: Buongiorno Alieno.
R: Chiamami Al.
D: Al, quindi, vengo subito al punto: hai mai visto una donna terrestre nuda, dal vivo?
R: Ne ho viste più di te, fidati.
D: Sii serio. Cos’hai pensato? Tu avevi visto il disegno sulla placca della Pioneer, vero?
R: Sì. Quel pezzo di latta mi si era incastrato tra le ruote del disco volante. Lo so, qualche lettore tuo penserà Ma cosa ci fa un disco nello spazio con le ruote? Servono per fare le sgommate sugli anelli di Saturno. Comunque: vedo questo disegno e tutti questi simboli che per noi non significano niente – vorrei farlo presente ai vostri scienziati – e resto incuriosito da questi due esseri. E la prima cosa che ho pensato: perché uno ha un’antenna per le comunicazioni e l’altro no?
G: Scusami se ti interrompo: che antenna?
R: Ma lì, guarda (indica tra le gambe dell’uomo): quell’appendice è sicuramente un’antenna. Solo non capivo perché non stesse sulla sommità dell’essere. Poi ho pensato che il centro operativo di questi esseri (intende il cervello) dovesse risiedere lì giù. E devo dire che alcuni terrestri che ho incontrato sembrano confermare la mia teoria.
Il secondo essere però mi incuriosiva di più. Ho pensato che il disegno stesse a significare che prima i terrestri hanno l’antenna e poi gliela rimuovono/la perdono. Guarda qui: il secondo essere sta guardando proprio lì, con rimpianto.

G: C’era un certo Freud che avrebbe discusso volentieri con te di sindrome di castrazione e invidia…
R: Non conosco questo Froid. È un’altra razza di umani? Comunque, dal disegno avevo capito che la vostra razza ruota intorno all’antenna. Dovevo capirne di più e quindi ho cercato di organizzare un incontro ravvicinato del terzo Tinder.
D: Cosa sarebbe il terzo Tinder?
R: Voi siete ancora a due versioni fa. Questa ti cerca contatti in tutta la Galassia e puoi scegliere, strisciando il dito in un verso o nell’altro, se mostrare interesse, rifiutare o far eliminare il profilo.
D: Intende farlo cancellare dall’app?
R: No no, proprio inviare dei sicari a uccidere il soggetto. Comunque incontro questa tizia, ci scambiamo dei messaggi, poi mi manda un video dove mi mostra la cosa.
D: Per “cosa”, intendi…
R: Sì sì, proprio la figa. E poi mi ha detto che mi ha registrato e se non le mandavo dei soldi avrebbe fatto vedere il mio video a tutto l’Universo.
D: E tu cos’hai fatto?
R: Mi sono rifiutato di pagare. Il video è stato diffuso e io ora sono famoso, perché ho rivelato l’esistenza della figa.
D: Beh noi qua già la conoscevamo.
R: E chi se ne frega! Quando il mio collega esploratore, quello lì, Kol-Omb, scoprì la vostra “America” qualcuno si è posto il problema che i suoi abitanti la conoscessero già e non c’era nessuna scoperta? Ringraziateci anzi che non vi sterminiamo! Oramai comunque, per la figa, siete morti!
D: No, senti: morti di figa lo eravamo già da tempo e non serve che arrivi qualcuno a insegnarcelo…
R: Contenti voi…Comunque, toglimi una curiosità: ma che problema avete con la figa? Cioè, io sono un po’ confuso:
– Siete pieni di pornografia sulla figa e ne abusate ma poi la nascondete e la censurate;
– Parlarne per fare educazione sessuale è una cosa per voi sconcia e inopportuna, ma poi per fare pubblicità, vendere, è tutto pieno di riferimenti alla figa;
– Parlate appunto sempre di figa ma poi a volte non sapete usarla o non la conoscete bene.
Cioè insomma, siete una razza ben strana!
D: Senti guarda, ti è scaduto il disco orario volante…forse dovresti partire…

Insomma, come avete sentito anche gli alieni sono confusi.

Non è che Talebano tale figlio

Viviamo abituati agli orrori e alle cattive notizie. Esistono, purtroppo, e parlarne è doveroso. Esiste anche però da parte di chi fa il mestiere dell’informazione una sorta di spettacolarizzazione del male, degradato a fiction cui tutti assistiamo, senza eccezioni, puntata per puntata.

Parlar di cose belle o di bellezza, a meno che non sia La grande (della quale fregiarsi in nome di una superiorità dell’ingegno italico rispetto a tutto il resto del Mondo che può solo guardare e rosicare), sembra fuori luogo. Quasi sconveniente.

Ecco perché, in un contesto grigio di malessere, accolgo qualsiasi evento positivo come boccate di aria pura.

C’è una storia che si è conclusa da poco, durata settimane e settimane, della quale non posso rivelar tutti i dettagli ma giusto una trama generale.

Una famiglia in fuga dai Talebani è riuscita ad approdare qui. Ci è arrivata con tutti i mezzi e i canali ufficiali garantiti dal Ministero degli Esteri e da quello degli Interni. Ma se la macchina amministrativa si è attivata è solo grazie a un mio amico. Che non lavora per i ministeri, né per enti umanitari, né per altre istituzioni. È un commerciante. È venuto a conoscenza della situazione di questa famiglia tramite uno scrittore afgano e ha fatto l’unica cosa che poteva fare: rompere il cazzo.

E lo dico con accezione positiva. In certe situazioni, quando non hai poteri decisionali né esecutivi, l’unica cosa in tuo potere per far smuovere le acque e le terre è rompere. A qualsiasi livello.

Ha cominciato tampinando un assessore della città. Il quale aveva dichiarato di prendere a cuore la vicenda, salvo poi svanire come un partner di appuntamento che non vuole più vederti né sentirti. Allora ha parlato col Sindaco. Il Sindaco l’ha messo in contatto col Ministero. Nel Ministero ha iniziato a tempestare di email e chiamate degli esponenti politici locali che ci lavorano. Nel frattempo faceva da tramite con la famiglia afgana. Insomma, deve aver tanto rotto che alla fine la macchina burocratica si è messa in moto per aprire un canale legale per farli approdare.

Finito di rompere a Peppone (lo Stato), ha iniziato con Don Camillo (il maggior prete di città): la chiesa alla fine ha messo a disposizione un alloggio.

Una raccolta fondi aperta e chiusa in 24 ore ha poi permesso di farli arrivare qui.


Infatti il Ministero aveva garantito il canale legale. Ma sul farli arrivare qui, avere garanzie che avrebbero avuto un alloggio il cui proprietario garantiva fosse loro dimora, trovare un tirocinio in una rivista per il capofamiglia (è un giornalista), il Ministero ha detto, sintetizzo romanzando, «Vedetevela voi».


Questa è la storia molto in breve: in realtà fino all’ultimo ci sono stati imprevisti, contrattempi, problemi, sui quali non mi soffermo.

Il Don Camillo della situazione ora scalpita che vuol intestarsi l’iniziativa: in realtà sta cercando di farlo già da un mese, aveva pronti i comunicati stampa e sperava per la festa patronale di aver già qui la famiglia, forse da esibire come miracolo.
Io, sincero, lo lascerei fare. Soprattutto in certi contesti, le persone non si mettono a criticare quel che fa la Chiesa.

Al contrario, qualunque altra persona che volesse rendere partecipi della vicenda quante più persone possibili – ho dimenticato di dire che tutto ciò che è avvenuto, per motivi di sicurezza come da indicazioni della Farnesina, non ha visto pubblicità se non tra la cerchia di noi amici e i riferimenti istituzionali interpellati – prima o poi se li vedrebbe arrivare.

Succede. Problemi complessi finiscono per l’esser trattati in modo semplice o superficiale.

E quindi alla fine arrivano.

Chi?

Come chi. Quelli de «Ma come, aiutate degli sconosciuti afgani e per gli erinaceidi che qui soffrono non fate niente?».

Ho smesso, e non ne vado fiero del mio atteggiamento, di cercar qualsiasi dialogo complesso laddove, come dicevo sopra, la complessità non viene analizzata.

Io in genere rispondo solo con una domanda: «Ma tu, invece, cosa fai?».


Oh, non ho mai ricevuto una risposta soddisfacente.