Non è che i piccoli delle pulci siano i pulcini

Ricordo una volta attirò la mia attenzione un annuncio in cui una ragazza cercava lavoro come baby sitter. Alla voce Esperienza aveva scritto «Ci so fare con i bambini, ho due figli».

Indubbiamente è un’esperienza non discutibile.
Mi chiedevo: può bastare? Mi rendo conto che mettere in dubbio le capacità di gestione dei bambini di un genitore sia un campo minatissimo (e l’unico posto che non è minato in questo campo è dove fabbricano le mine, cit), soprattutto se chi commenta genitore non è.

Ma ripropongo la domanda: avere figli vuol dire essere in grado di gestirli, educarli?

Mi sono fatto la stessa domanda qualche giorno fa mentre attraversavo il parco pubblico cittadino. Lo stagno al centro è abitato da un folto gruppo di oche e anatre. Un’oca avrà figliato, c’erano 3 pulcini.

Mentre mi allontano dallo stagno sento un gran starnazzare. Qualcuno sta dirigendo un’automobilina radiocomandata verso i pulcini a riposo. La madre di questi sbatte le ali e gonfia il petto verso il mezzo radiocomandato come a volerlo impressionare, ma la macchinina ovviamente continua la propria corsa. Gli animali quindi scappano via terrorizzati. I pulcini inciampano e rotolano.

Mi volto a vedere chi sia il cagacazzo che rompe le scatole agli anatidi. Un bambino. Con accanto i genitori che assistono divertiti alla scena, esaltati anche magari dalle prodezze del loro campione.

Ora, magari costoro sono degli ottimi genitori in tutto e per tutto, non posso saperlo. Di sicuro son meno ottimi quando il figlio decide che deve disturbare gli animali. Ecco, quindi, il fatto di avere un figlio e di portarlo al parco non li rende edotti in materia di gestione bambini all’interno dei parchi pubblici, posso legittimamente dedurre.

E, in linea di massima, se in giro vediamo che ci sono bambini/ragazzini coglioncelli, non credo di andar lontano nell’identificare la causa in adulti coglioncelli.

Eppure, come dicevo in apertura, credo che uno dei più grossi tabù della società sia il mettere in dubbio le capacità genitoriali. Mai che insegnante, allenatore o un altro adulto a caso discutano del metodo educativo utilizzato da un genitore verso un figlio. È un reato morale che scatena l’indignazione e la rabbia. Una reazione di difesa, come l’oca che sbatte le ali a cercare di difendere la prole. Ci sta, per carità anche se sarebbero da discuterne gli eccessi.

Ad esempio se ti dicono che a scuola tuo figlio rompe, non puoi lamentarti che ti hanno detto questa cosa: o sei tonto da non accorgerti che è uno che rompe, o sei conscio che rompe e non te ne frega niente. E alla fine quel che fai in entrambi i casi è negare la realtà e offenderti perché si sta sfidando il tabù della messa in discussione.

Certo però che pesantezza gestire questi adulti.

Non è che ti serva un gastroenterologo per un reflusso di coscienza

Ho sempre pensato che essere adulti significasse senso di responsabilità, razionalità, saper fare la cosa giusta.

Gli adulti in realtà sbagliano, commettono grosse cazzate, sono irresponsabili come e più dei ragazzini.

Ho sempre pensato che agendo con rigore scientifico, dividendo con un’affettatrice da macellaio giusto e sbagliato, si potesse essere adulti consapevoli e coscienziosi.


Il rigore di un macellaio – quello di fiducia, ovviamente – nel selezionare i tagli non esito a definirlo scientifico.


Mi piacerebbe dire che ho sempre fatto la cosa giusta ma non sono così falso da dire una falsità del genere.

Quando ho fatto la cosa sbagliata l’ho scelta in modo consapevole, deciso a proseguire.

Ma cosa avviene quando le tue scelte investono altre persone?

Io ho scelto di andare a vedere la tana del Bianconiglio, ho varcato un limite facendo una cosa che non avevo mai fatto.

Ora ho l’ansia che mi stringe il collo. O forse mi è solo tornato il reflusso gastroesofageo. O forse è l’ansia ad avermi causato il reflusso.

Quindi ora non so se:

  1. Curare l’ansia
  2. Curare il reflusso
  3. Curare gli sbagli

Non è che ti serva il biglietto per fare un viaggio nel tempo

Ho posto un quesito a un’amica psicologa. Le ho chiesto come si affrontano gli attacchi di nostalgismo, il vivere con la consapevolezza che un determinato momento con determinate persone non ci si verificherà mai più.

Ha attaccato un pippone sul fatto che la mia è paura di non riuscire più a emozionarmi come un bambino davanti alle cose e alle situazioni, e questo in realtà – ha detto – è molto bello e importante, perché porsi il problema di tenere vivo il fanciullo interiore è un passo per riconoscere come si è e non cercare di sopprimere l’emozione infantile come fanno molti adulti oggigiorno.


Tronco qui perché andava ancora avanti, ho sintetizzato alla bell’e meglio.


Ho pensato fosse molto bello questo momento di poetica Pascoliana, ma non è la questione che avevo posto, legata invece più al fatto concreto che “qui ed ora” non è “lì e allora” perché “qui e allora” ormai è andato -puff- in quanto la nostra vita è una sequenza di attimi ognuno irripetibile ed è guardando indietro e osservando qualcuno di quegli attimi che penso Cazzo è passato.


Ora se ci fosse qui La citazione di Albert Einstein a cazzo*, direbbe che passato, presente e futuro sono solo un’illusione.


*La citazione di Albert Einstein a cazzo è una entità vivente a sé stante che trascende la persona Albert Einstein, anzi, con essa non ha nulla a che fare. È – ad esempio – la frase buttata lì tipo “Dio non gioca a dadi” che ormai gode di vita propria decontestualizzata e il 99% delle persone non sa manco a cosa è riferita.


Esiste poi La citazione di Gandhi a cazzo, La citazione di Jim Morrison a cazzo, La citazione di Pertini a cazzo, ecc.**, vivono tutte insieme su un’isola ben collegata col nostro mondo da un sistema di traghetti e piste ciclabili.


**Come non citare, poi (citazione ricorsiva di citazione), La citazione a cazzo di Pasolini riguardo il suo sostegno ai poliziotti. Vive sull’isola delle teste spaccate e manganelli.


E forse ho sprecato attimi irripetibili ponendo la domanda alla persona sbagliata, magari potevo rivolgermi a qualcuno che si intende di fisica per chiedergli se esisterà mai la macchina del tempo, lui mi avrebbe detto di no e pazienza, mi sarei chetato fino al prossimo attacco di nostalgismo.

Non è devi per forza essere un banchiere per dare credito alle persone

Fidarsi è sempre una questione complessa. Immagino la gestione della fiducia nel prossimo come un mixer con tanti cursori legati a diverse situazioni e individui. Tenere i livelli tutti al massimo non va bene, così come tenerli tutti abbassati neanche. Nel mezzo, ognuno di noi equalizza il proprio orientamento all’altro concedendo più volume a qualcuno e meno a qualcun altro.

Io ad esempio ho delle categorie di persone di cui a pelle sento di diffidare o di dar poco credito.

  • Quelle che si chiamano Valentina e che su fb si registrano come Va Lentina. Non fa ridere più neanche alle scuole elementari.
  • I coach motivazionali.
  • Gli esperti di Risorse Umane che scrivono strategie in 5/10/20 mosse per trovare di sicuro lavoro.
  • I fan dei Dream Theater.
  • Quelli che non ti conoscono e a un tuo problema non esitano a proporti e/o suggerirti rimedi tratti dall’oroscopo, da una dieta olistico-natural-organic, dall’interpretazione del fegato di pecora.
  • Quelli che in ogni frase devono mettere qualche termine inglese, you know?.
  • Quelli che si fanno una foto con gli occhiali da sole al volante.
  • I fan dei Dream Theater.
  • Quelli che non vedono l’ora di cooptare gli altri nella loro associazione/comunità/movimento.
  • Quelli che ti stringono la mano e ti lasciano l’impronta del profumo o del dopobarba nel palmo che poi ti resta per tutto il giorno.
  • Quelli che lasciano il cornicione della pizza. A meno che l’impasto e la cottura non siano fatti così male che a quel punto mangiarlo è difficile.
  • Questo non riguarda persone, ma se una merce da uno scaffale del supermercato viene riposta da qualcuno e a me serve quel prodotto, evito di prendere quella stessa confezione che ho visto posare. Magari è perfettamente integra, magari il cibo non è scaduto, magari non ha nulla che non va ed è semplicemente stata riposta perché il tizio è stato appena chiamato dalla moglie che gli ha detto «Lascia perdere il pacco di cetriolini, mi ha chiamato il mio psico-naturopata olistico e ha detto che devo evitare cibi dalla forma fallica», ma io non mi fido perché se fosse stata posata per qualche motivo grave di cui non mi accorgo?
  • E i fan dei Dream Theater.

Beninteso, alla fine tutto questo elenco è un insieme di generalizzazioni dentro le quali può ricadere chiunque; poi è invece bello vincere i propri meccanismi automatici – ognuno di noi ogni giorno si orienta e compie scelte basate su giudizi e impressioni – e scoprire che si riesce sempre a fare quel passo in più. C’è un’interessante attività scolastica per parlare coi ragazzi di stereotipi e pregiudizi e che consiste nel mostrare loro delle foto e chiedere di immaginare chi siano le persone ritratte, che cosa fanno nella vita, cosa pensano del loro aspetto. Poi se ne parla, rivelando anche la storia delle persone raffigurate (e magari si scopre di scambiare per un clochard un Premio Nobel) un esercizio che tornerebbe utile anche agli adulti, di cui si pensa invece che siano già “educati”.


Non è che per ottimizzare la concentrazione serva un chimico

Oggi sono stato in una scuola dove le maestre lamentavano che i bambini avessero deficit di attenzione. E anche una certa “lentezza” nell’afferrare i concetti. “Non sono abituati a pensare”, dicevano. In effetti debbo dire che ho trovato più ricettivi i bambini di prima elementare della scuola delle suore (vedasi post) di un paesino dimenticato dall’igiene orale che quelli di V di oggi di un’altra scuola di un’altra città. Forse è l’educazione delle suore: la presa di coscienza imposta a 6 anni di meritarsi una vita di sofferenze e sacrifici (parole loro: mi ricordo la mia insegnante di religione che a 8 anni ci disse che Gesù era già arrabbiato con noi per tutte le cose che avremmo fatto nel resto della nostra vita) forse apre la mente. O forse sono le punizioni corporali. Saranno degli attentissimi serial killer, da adulti. Scherzo.

Io li capisco i bambini distratti. Io stesso quando uno mi parla vago con la mente. Però col tempo mi sono abituato. Riesco ad ascoltare il mio interlocutore e contemporaneamente a seguire un altro discorso nella mia testa. È solo questione di allenamento: io la chiamo attenzione simultanea in parallelo.

Ho iniziato a dare una definizione a tutti quelli che sono atteggiamenti o azioni che si potrebbero considerare da correggere o censurare per ridurne la percezione negativa.

Quand’ero più giovane “un mio amico” modificava le proprie console per giocare con materiale pirata. Ma quella non era pirateria. Era ingegneria software per nuove fruibilità nell’intrattenimento videoludico.

A proposito di fruizione: vi è mai capitato, a tavola durante una cena fuori, che ordiniate delle patatine fritte e che nessun altro le volesse, salvo poi, a porzione arrivata, vedervele portar via da mani golose? Bene, quella improvvida sottrazione è in realtà un atto di prevenzione dei rischi del colesterolo attuato nei vostri confronti. Ringraziate.

Imprecare quanto qualcosa gira male o quando urtate il famoso mignolo sul famoso spigolo o il famoso gomito sul famoso schienale della sedia ecc (tutte quelle cose che fa la vostra casa per picchiarvi) per sentirsi meglio è una catarsi interiore attraverso la forza delle parole.

Adesso vado a incrementare il mio apporto giornaliero di cereali. Cioè a bere una birra.

Non è ascolti barzellette durante il prelievo perché il riso fa buon sangue

Negli ultimi giorni mi sono fatto delle analisi perché sospettavano avessi un’appendicite (SPOILER: non ce l’ho). È un po’ inusuale e buffo farsela venire da adulti ma è la conferma di quanto io sia giovane dentro. Il giorno che esteriormente mi vedrò vecchio mi rivolterò il dentro in fuori come con una vecchia giacca.

Durante il prelievo per l’emocromo sono svenuto. Mai successo in vita mia. Né ai prelievi, né quando da ragazzino mi ruppi il braccio e l’ortopedico mi rimise in sede l’osso. C’è sempre una prima volta.

L’infermiere infila l’ago, apre la farfalla, il sangue scorre nel tubicino ma non entra nella provetta. Toglie l’ago, lo rimette, scuote il tubicino. Niente, la provetta resta vuota. Muove. Idem come sopra.

«Fa’ niente, facciamo coi vecchi metodi» e tira fuori la siringa tradizionale.

Infila nell’altro braccio la siringa, comincia a tirare, il sangue fluisce e…e poi mi sveglio a terra con l’infermiere che sta tentando di rubarmi le scarpe. Lo guardo malissimo.

«Non si ricorda…» esclama.

Poi realizzo di esser svenuto e che mi stava tirando su le gambe.

In effetti non ricordo cosa sia successo. Mentre ero privo di sensi, però, ricordo di aver sognato. O forse erano delle visioni, non so. Fatto sta che ho visto delle cose.

Ho guardato un telegiornale del 2030. I titoli erano questi:

– Il Presidente della Repubblica Casaleggio Jr ha firmato il decreto che istituisce la pranoterapia di occupazione: inoccupati e disoccupati troveranno lavoro grazie alla semplice imposizione delle mani nei Centri per l’Impiego Mago Otelma. La leader di Bomberismo e Libertà, Diletta Leotta, critica verso il provvedimento, annuncia per domani uno sciopero Instagram dalle 17 alle 17:10.
– Berlusconi pronto a una nuova discesa in campo a 94 anni «Per il bene del Paese», ha dichiarato dopo una barzelletta spinta. L’ISIS rivendica.
– Dramma della gelosia nel Quadriveneto Indipendente: uomo uccide a pugni e calci la propria amante straniera e la moglie tenta il suicidio per la disperazione. «Una volta picchiava sempre me per prima», ha detto in lacrime prima di gettarsi da un marciapiede. Dura condanna dal Ministro per la Famiglia Jerry Calà. Matteo Salvini ha mostrato la diretta del suo intervento di bendaggio gastrico commentando con «Prima le italiane» e poi ha ingerito il suo ultimo Mac Burger.
– Scoperto un nuovo vaccino contro l’Alzheimer. Sconcerto nel Consiglio Superiore di Sanità: «Pensavamo di aver debellato la piaga dei vaccini». L’ISIS ha rivendicato.
– Arriva dal Giappone la nuova pericolosa tendenza virale che non piace ai genitori: adolescenti si filmano in streaming mentre si amputano il pene. Commenteremo con un esperto dell’ISIS in studio.
– Vasco Rossi annuncia un nuovo tour e prepara delle novità: proverà a utilizzare altre vocali. L’ISIS ha rivendicato.
– In arrivo nei cinema Rocky X-Funerale di un vecchio campione. I critici commentano «Un finale imprevedibile». Non ci sono al momento dichiarazioni dell’ISIS.
– Sport: la Juventus festeggia con 5 mesi di anticipo il 46° scudetto, il 19° consecutivo. L’ISIS giura di non averci a che fare.

Poi non ricordo altro. Non so se il mio fosse solo un delirio onirico, la percezione che ho avuto è che questa visione fosse esterna a me, come se qualcuno volesse comunicarmi qualcosa. Ma non voglio autoconvincermi, quindi lascio ai lettori ogni giudizio.

Non è che serva un compositore per una sigla sindacale

Ho un cuscino all’aloe.

Ho un cuscino all’aloe e non lo sapevo. Me ne serviva soltanto uno che mi facesse dormire più comodo.

Ho sempre pensato che a forza di infilare aloe e ginseng ovunque come panacee di qualsiasi problema, della gastrite all’alluce valgo, alla fine ce li saremmo ritrovati anche nel letto. Ecco fatto.

Viviamo in tempi orribili. Ero a Milano e ho visto una paninoteca che serviva sandwich all’avocado e mango. Va contro ogni logica mettere frutta in panino. Ma io sono un conservatore.

Eppure quando parlo con i nostalgici dei tempi andati (che per inciso, questi bei tempi andati non sono altro che gli anni ’80-’90) penso alla fine che oggi tutto sommato non ce la passiamo mica tanto male.

Se siete tra quelli che pensano invece che questi anni per la cultura la musica il disegno tecnico siano il peggio e che tutto fosse meglio una volta, penso che ve la stiate vivendo male.


Detto da uno che i concerti che di recente ha visto sono di gruppi nati negli anni ’90 o ’80.


È ora di finirla con questo nostalgismo drammatico alimentato da vecchie sigle dei cartoni animati e mandato giù con il succo di frutta Mangiaebevi; la maggior parte delle cose che si rimpiangono erano come una cascata di prosciutto su un buffet al matrimonio del cugino Sampirisio: volgarmente kitsch e da vergognarsi di esserci.

26168996_1678378582223227_3004515198527457667_n

L’altra sera parlavo con degli amici e ricordavamo i tempi in cui avevamo un Walkman. Un altro orrore di quegli anni: la stanghetta di ferro delle cuffie ti faceva un male cane, senza contare i capelli che vi si impigliavano dentro e che ti strappava via ogni volta che la rimuovevi. Quell’affare inoltre pesava un accidente ed era scomodissimo da portare in giro: in tasca non entrava, se lo appendevi alla cintura o ti faceva cascare i pantaloni o cascava lui perché il fermaglio era una merda. Ah poi quando riavvolgevi il nastro con la BIC…Eh, che gran divertimento!

Parlando di penne, un altro incubo erano quelle a inchiostro cancellabile con la gommina presente sul tappo. Peccato che cancellassi prima tu il tutto con la mano: la cosa strana era che l’inchiostro veniva via dalla carta ma non dalla pelle, così trascorrevi l’anno scolastico di una bella tonalità blu Puffo perenne sul taglio della mano.

Gli Uniposca. Li odiavo perché non ne ho mai avuto uno, visto che costavano un botto di soldi e per quello che dovevi farci – gli scarabocchi sul banco – per i miei genitori bastava un anonimo pennarello comprato in saldo in stock da 50 all’hard discount.

Una volta, ero alle medie, la ragazzina che mi piaceva mi chiese un pennarello:
– Ma è Uniposca?
– È un pennarello…

Mi guardò perplessa. Deve avermi giudicato un pària.

I cartoni animati sono stati la più grande fonte di rincoglionimento di massa dai tempi dell’invenzione del celibato ecclesiastico. La violenza emotiva della mia generazione passò attraverso:

– Tragedie familiari (Candy Candy)
– Tragedie storiche (Lady Oscar)
– Incubi post atomici (Ken il Guerriero)
– Violenza così de botto senza senso (L’uomo Tigre)

Perché gli anime, in Giappone, sono divisi per il target di riferimento: bambini, adolescenti, adulti, maschi, femmine. Le nostre reti invece buttavano tutto insieme nel pastone pomeridiano/preserale, salvo rimaneggiare le opere con doppiaggi improponibili e censure inopportune per render il tutto fruibile agli under 14.

Non parliamo della tortura musicale delle sigle di Cristina D’Avena: testi scritti da chi il cartone ovviamente non l’aveva mai visto e con una base degna della peggio eurodance italiana riarrangiata in chiave bottiglia di minerale sfiatata perché va bene i traumi emotivi ma che almeno gli spettatori non comincino a impasticcarsi prima del liceo.

FINE PRIMA PARTE

(Il che non vuol dire che ce ne sarà per forza una seconda)

Non è che il produttore di guanti sia un tipo alla mano

L’estate sarebbe bella se solo sapessi dove mettere le mani.

Negli altri mesi le tengo nelle tasche di cappotti e giubbotti. Cammino con questa postura e parlo in genere con le persone sempre tenendole ben riposte. Le estraggo in caso di necessità, per sottolineare un concetto, per far loro prendere aria.

Nella stagione calda, indossando nella parte superiore solo una maglietta o una camicia, non ho dove riporre le mani. Le tasche dei pantaloni sono troppo distanti: tenere le mani lì ti dà una posa troppo ingessata. Quando cammini così sembri un bulletto di quartiere. Quando parli con qualcuno sembra invece tu stia rigido perché a disagio e ciò mette a disagio l’interlocutore.

Ho anche provato a camminare a braccia conserte, come un Cosacco del Don.

Non so che farmene a volte delle mani. E dire che sono uno che le usa tanto, gesticolo, tocco, faccio cadere spesso le cose perché sono maldestro. A volte però vorrei solo un posto dove riporle e tenerle a riposo.

Quando ho una ragazza sempre approfitto per allungarle le mani.

Mi è uscita male. Mi spiego meglio: voglio dire che cerco spesso il contatto. Una spalla, una coscia, un fianco. Anche una tasca. Pensano io sia un tenerone e abbia questo bisogno di contatto affettuoso. In realtà, in modo subdolo, cerco solo di riporre le mani da qualche parte.

Dico sempre: Tienimi la mano. Intendo, tienimela tu per un po’, adesso non mi serve e non so dove metterla. Fammi questo favore.

Succede sempre invece che le donne non capiscano e pensino io voglia andare in giro come una coppietta di adolescenti.

Che in realtà non c’è nulla di male. Gli adolescenti secondo me sanno un sacco di cose rispetto agli adulti.

Io però per ora ho deciso che le mani me le tengo dietro la schiena come un anziano che guarda un cantiere.

share_temporary-3.jpg

Una foto di mani scattata senza mani. (Impilare tazze può esser un buon metodo per scattare una foto alle mani)

Non è che il tennista lavori in un pub per fare il servizio

Non ho più memoria della prima volta che ho messo piede in quel che da anni è il posto di ritrovo post serale solito nella mia città.

Si è così consolidato in una piccola piega del tessuto urbano-sociale da avere assunto connotati da cliché. Basterebbe guardare il contenitore portadolci accanto la cassa per rendersene conto: pasticcini impastati dalle mani della moglie del proprietario, che stazionano lì per anni come semplici oggetti ornamentali, stile Luisona di Benni.

12715791_556390591190289_3594606569399796647_n

Lo spezzatino avanzato dal ragù della domenica può essere infilato in un panino. Foglia di alloro compresa. Uno dei tanti esempi culinari del ritrovo tipico.

Ricordi inoltre non ho di quando abbiamo cominciato ad avere un rapporto complicato con le cameriere. Complicato forse è un po’ troppo, diciamo che ci sentiamo sempre guardati un po’ male quando osiamo alzare il dito per chiedere, accolti con un grugno che sembra dire Se cercate guai li avete trovati.

La vita da cameriera in un pub è un inferno. Avanti e indietro, ordini che arrivano, ordini che non arrivano, clienti da tenere a bada.

Capisco che spesso ci sia poco da esser gioviali.

D’altro canto – e non lo dico perché sono la parte in causa – credo di appartenere alla schiera di clienti meno complicati del mondo. Sono anni che io e il mio compare ci accomodiamo chiedendo la stessa identica cosa: due Bass Scotch medie. Al massimo, un posacenere di contorno. Non sporchiamo, non strepitiamo, non chiediamo variazioni strane dei menù come panini alla segale cornuta ma senza la cornuta e senza il panino.

Non pretendiamo il posto a sedere: se non c’è beviamo in piedi fuori.

Ci scansiamo come Neo quando le vediamo passare cariche di piatti di trigliceridi esausti.

12799431_563306530498695_2203305827925117465_n

Se è porno, cavoli vostri.

Il problema forse risiede proprio nella nostra discrezione e invisibilità: non abbiamo mai creato un rapporto umano con loro. Siamo forse gli avventori anomali, rispetto ad altri che ho visto scambiar qualche battuta con le cameriere e, addirittura, averle fatte sorridere.

Non che io non ci abbia provato a porre le basi di un minimo di contatto civile. Ammetto però tutta la mia incapacità per riuscire a portar a casa un successo.

Ricordo un’estate di due anni fa, in cui – in maniera improvvisa e inspiegabile – il pub divenne fino alle 22-23 di sera meta preferita di famigliole con bambini al seguito che correvano tra i tavoli, si lanciavano cibo, correvano tra il cibo e si lanciavano tavoli.

Sconcertato da tutto ciò, mentre la cameriera puliva il nostro tavolo decorato dai bambini da spruzzi di maionese e ketchup che ricreavano motivi di Pollock, per esser simpatico esclamai

– Certo però che questo una volta era un posto per adulti
– Eh.

Fine della nostra conversazione.

Lo riconosco, la socialità non è arte mia. Un piccolo aiuto dall’altra parte però sarebbe richiesto.

Ieri sera, evento eccezionale, una cameriera mentre riordinava i tavoli fuori in vista della chiusura ci ha rivolto la parola.

Poverina, è nuova: non ha capito o forse non le hanno spiegato che siamo dei paria.

Ci ha chiesto aiuto su come dovesse fare per bloccare scheda e cellulare, visto che nel pomeriggio aveva subito una rapina.

È simpatica. Sarà ancor più doloroso il momento in cui comincerà a lanciarci occhiate di rancoroso disprezzo come le altre sue colleghe.

Non è che serva un piromane per fare partenze brucianti

Una volta García Lorca scrisse: “Gli amori bruciano ma le frizioni ancor di più”.

Io mi ci rivedo molto in questa frase.

Ieri mattina, dopo due settimane di dis-onorato servizio, la macchina aziendale ha un buco nella gomma ha bruciato la frizione. Tenderei a escludere mie responsabilità, visto che qui giù ci inviano macchine sottratte all’eutanasia.

Ammetto sì di essere un tipo molto free alla guida, ma ho guidato anni e anni la mia auto personale su salite impervie, anche in retromarcia, senza bruciare nulla a parte i semafori.


Non fatelo a casa anche perché non so in che casa abitiate per avere dei semafori all’interno. Comunque è risaputo che il Giallo voglia dire “Accelera prima che scatti il rosso”.


La frizione aveva un vago odore di grigliata di costolette. Mi chiedo io che costolette abbia mangiato.

Dove scopro di aver sempre chiamato la frizione nel modo sbagliato e che in realtà è la frEzione.

Dato che ero in missione per conto di dio, che ho nominato spesso lungo la strada, ho proseguito con mezzi alternativi tra cui il baratto di prestazioni sessuali in cambio di un passaggio.

I centri commerciali sembrano posti orribili.

Le persone che lo frequentano sono nervose e stressate. Lo stolto si chiede (e io me lo sono chiesto): se devono stressarsi e innervosirsi in questa maniera, perché vi si recano? La risposta è che forse il non andarci li renderebbe ancor più stressati e nervosi. I centri commerciali sono il fusibile del sistema sociale. Proteggono dal sovraccarico di stress e nervosismo che il non andare al centro commerciale causerebbe alle persone.

Il centro commerciale esiste affinché il centro commerciale esista.

Dato che la popolazione mondiale aumenta a causa degli extraterrestri che sbarcano sul nostro Pianeta, c’è sempre bisogno di costruire nuovi e più grandi centri commerciali.

Hanno detto:

“L’unico modo per liberarsi di una tentazione è andare al centro commerciale” (Oscar Wilde)

La vita è troppo breve per non andare al centro commerciale” (Andy Warhol)

“+++ Si vede la patonza +++” (Libero online)

C’è un’umanità disparata e disperata all’interno dei negozi. Bambini, ragazzini, adulti, donne, uomini, uomini col borsello (alcuni in finto bue altri di vero budello) che adocchiano presunte – in quanto il loro stesso borsello li fa presumere che le donne siano interessate al loro borsello – ammiratrici dei loro borselli, famiglie con cani, donne con cani freudiani.

Il cane freudiano, molto banalmente, è il cosiddetto succedaneo fallico. La donna col cane esibisce con fierezza il proprio pseudo-pene laddove la donna col gatto non può.

La donna col gatto in realtà non ha bisogno di un pene. All’occorrenza infatti se lo procura.

La donna col gatto ha bisogno della figura dietro al pene e per questo prende un gatto. Affettuoso e coccolante ma anche scoglionato e indolente e distributore di peli ad libitum. Col vantaggio inoltre di non sgocciolare.


A meno di non avere un gatto come il mio che ha inventato la pisciata acrobatica ponendosi di volta in volta in equilibrio con le zampe sul bordo della lettiera. Ho posto una tavoletta di plastica contro il muro e delle volte disegna dei ghirigori ipnotici. Sto pensando di sostituirla con delle tele e venderle come “Piscio d’artista”.


Queste considerazioni peniene nascono da un pensiero che prendeva forma nella mia mente e rimbalzava tra l’osso frontale e quello occipitale del mio cranio.

“Ma io, qui, cosa cazzo ci faccio?”.

Essendo tipo molto free sono giunto a una conclusione produttiva: devo prendermi un cane come sostituto del mio di pene, da inviare poi in giro a lavorare al posto mio. A cazzo di cane.

Non è che il cinefilo ami la Domopak perché produce buone pellicole

Non vado molto al cinema, inteso come multisala. Soprattutto da quando ho maturato la convinzione che molte cose in circolazione non valgano il denaro speso.


Fatta eccezione per i nuovi film di Star Wars.


Che, detto per inciso, sono una mossa per cavar denaro.


Preferisco le piccole sale e le proiezioni riservate a pochi appassionati.

Ho così dimenticato, fino a ieri, come sia trovarsi al cinema in una grande sala piena di ragazzini. Che siano tanti o pochi inoltre fa poca differenza: 3 ragazzini o 50 producono la medesima quantità di rumore e lo stesso livello di fastidio negli altri spettatori.

Mi sono reso conto che l’irritazione in questi frangenti è una cosa abbastanza comune e che quella dei ragazzini al cinema sia una vera e propria piaga sociale sottovalutata dai media e dalla politica. Anzi, i poteri forti ci raccontano una realtà distorta: parlano da anni di bassa natalità nel nostro Paese, allora com’è che dovunque mi giri io trovi ragazzini?

Ho pensato quindi a una lista di soluzioni per ovviare al problema del fastidio prodotti dai ragazzini al cinema.

1) Dedicarsi a generi alternativi che – inspiegabilmente – non incontrano il favore del pubblico dei giovanissimi e quindi azzerano il rischio di aver a che fare con loro. Ad esempio, andare a vedere solo produzioni di nicchia di registi uzbeki che con un piano sequenza di 3 ore raccontano la malinconia delle notti nel deserto del Kyzyl Kum mentre un passero giace stecchito sotto l’ombra che una roccia proietta alla luce lunare e il protagonista un umile coltivatore di capre e allevatore di cavoli si suicida per non assistere più al dolore della figlia con le adenoidi.

2) Creare nei cinema sale apposite per under 18 dove poterli confinare coi loro simili.

3) Istituire la “Tessera dello spettatore”: chi viene sorpreso a dar fastidio verrà squalificato e gli verrà proibito di andare al cinema per un determinato periodo di tempo.

4) Aggiungere sedativi alla bibite servite ai ragazzini al bar del cinema. Potenti sedativi.

5) Distribuire occhialini 3D che oscurano la visuale quando chi li indossa disturba.

6) Installare poltrone intelligenti che al primo segnale di intemperanza infilino un calzino sudato – di quelli di spugna che si impregnano bene e fanno da terreno di coltura di batteri – nella bocca del disturbatore.

Nella prossima occasione parlerò dei rimedi contro quelli che, siano giovani o adulti, tirano fuori il cellulare durante la proiezione. +++SPOILER: un cecchino appostato in sala che fredda il telefono appena si illumina! Quello che succede è incredibile!+++

Il Vocaboletano – #21 – La Janara

Siamo arrivati al ventunesimo episodio del Vocaboletano curato da me e crisalide77.

Oggi in via un po’ alternativa voglio introdurre un termine legato al folklore e all’occulto locale seppur non proprio natìo dell’area napoletana.

Janara: nella credenza popolare con questa parola si suole indicare una strega originaria delle zone rurali del Sannio. Essa si aggira di notte per le stalle e ruba cavalli per cavalcarli lungo le campagne fino allo sfinimento, abbandonandoli poi con le criniere intrecciate (è per questo che Umberto Balsamo poi doveva andare in giro a scioglierle!).

È molto pericolosa soprattutto per i bambini: li rapisce o li fa ammalare di notte per gelosia in quanto alla Janara è negata la possibilità di concepire.

Anche gli adulti devono stare in guardia da costei: sembra che ami sdraiarsi su di essi mentre dormono, per appesantirne il respiro o immobilizzarli durante il sonno.


È il comune fenomeno della paralisi del sonno che, in tempi antichi di superstizione e credenze veniva imputato alla presenza di esseri maligni per la casa.


La Janara non è soltanto dedita ad atti malvagi: per il suo legame profondo con la terra, conosce le piante, i segreti delle erbe e i modi per preparare medicamenti di erboristeria. In origine la figura non era associata col demonio ma era più assimilabile a una entità pagana: soltanto in epoche successive la Janara fu accostata al Diavolo e fiorirono leggende su riunioni infernali tra Janare tenute sotto un grande albero di noce lungo il Sabato, il fiume che bagna il Sannio.


All’albero di noce sono stati attribuiti tanti significati. Per la forma dei suoi frutti, simili a testicoli, è considerato carico di simbologia fallica. Il gheriglio interno ricorda un cervello. Inoltre il noce ha natura ambivalente: le sostanze che produce possono essere utili per rimedi medicamentosi, ma possono anche essere tossiche se mal manipolate.


Con la loro maestria nella preparazione di pozioni, le Janare sarebbero in grado di volare grazie a un unguento da spalmare sul corpo. Come la Margherita di Bulgakov (Il Maestro e Margherita) che volava dopo essersi cosparsa di una crema donatale dal demone Azazello.

Per difendersi dalla Janara un metodo molto efficace era quello di lasciare fuori l’uscio durante la notte una scopa di miglio capovolta. La strega si distrarrebbe per contarne i rametti fino al mattino, quando alle prime luci dell’alba è costretta a ritirarsi.

Un altro rimedio sarebbe quello di appendere fuori la finestra un sacchettino pieno di sale: anche in questo caso la megera si intallierebbe (ricordate che significa?) a contare i granelli evitando così di insidiare casa.

Per poterla catturare, invece, bisogna afferrarla per i capelli e rispondere alla sua domanda “Che cos’hai in mano?”.

Al che bisogna rispondere “Ferro e acciaio” per poterla bloccare. Se si risponde “Capelli”, lei scappa via!

Ascolta l’audio

Etimologia – Il nome deriverebbe da Dianara, seguace o sacerdotessa di Diana, dea della caccia e anche di incantesimi notturni. Potrebbe anche essere legato a ianua, cioè porta, perché come detto la strega è dedita a insidiar l’uscio di casa.

L’altra Janara – Esiste una versione marina della Janara, quella di Conca dei Marini (Salerno). Le Janari locali sono donne normalissime, mogli e fidanzate di pescatori e marinai. Essendo la vita dell’uomo di mare spesso lontana dalla terraferma, queste donne, per solitudine prolungata, cadevano in uno stato di cupezza e malinconia che le portava a diventare streghe e a praticare malefici.

Alcune, come le Sirene di Ulisse, attiravano sugli scogli i marinai per giacere con loro e poi sacrificarli al mare.

A essere onesto, io di strega del beneventano conosco solo questo: