Il Vocaboletano #37 O’ Manastar’

Viaggio al termine della notte

La parola di stasera racchiude in sè molti altri vocaboli. Tenete conto del fatto che Vocaboletano non  è solo napoletano, ma dialetto campano e quindi sicuramente alcuni di voi, anche partenopei, troveranno delle lievi o marcate differenze nelle parole che vi elencherò stasera,  delle differenze da quelle che magari pronunciate voi abitualmente, ma come ho già detto all’inizio di questa rubrica, il nostro dialetto è dinamico, vivo, vibrante e cambia da paesino a città, e da città a città. Torniamo al nostro vocabolo: è o’ manastar’ ossia: il minestraio, colui che vende gli ingredienti per fare una minestra: il fruttivendolo.  Questo post vi aiuterà a muovervi agilmente nel reparto delle verdure e della frutta del supermecato, tra i banchi coloratissimi di qualsiasi mercato di frutta. Adesso armatevi di taccuino e prendete nota, perchè sto per elencarvi alcuni dei prodotti che comunemente cercate da un fruttivendolo, ma vi nominerò solo quelli…

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Il Vocaboletano – #36 – Il guappo

Uno dei termini più noti del vocabolario napoletano, tal da essere entrato anche nel linguaggio italiano, è il guappo.

Questa parola identifica quel che ai tempi era il bravaccio, persona sbruffona, smargiassa e prepotente, che si atteggiava a padrone del quartiere come mediatore di controversie, vendicatore (ad esempio contro chi aveva oltraggiato l’onore di una donna) e riscossore di crediti non saldati.

Per questa sua inclinazione a essere la persona di fiducia della zona – eran contesti dove la giustizia dello Stato era assai poco presente – il guappo amava molto la visibilità. Si mostrava sempre ben vestito, pettinato, conciato come un damerino a volte fuori contesto rispetto alla povertà della sua zona. Ma il guappo essendo molto pieno di sé non se ne curava, anzi.

Per tal sua presenza fisica alcuni ne rintracciano l’etimologia nella parola spagnola guapo (bello).

Altri ancora lo fanno risalire al latino vappa, che indica il vino andato a male e, in senso figurato, la persona degenerata.

Tal ipotesi a giudizio di chi scrive è più vicina alla realtà, essendo il guappo figura totalmente negativa: parliamo infatti di un bullo di quartiere, uno pseudo boss. E non a caso, dal Secondo Dopoguerra, tale personaggio andò a mischiarsi con la criminalità organizzata fino a scomparire come entità a sé stante e divenire un semplice criminale dedito a usura, controllo della prostituzione, estorsione.

Ancora oggi il termine sopravvive in senso dispregiativo: ci si riferisce così ai tipi sbruffoni e pieni di sé, la cui ostentata “forza” se non è suffragata da reali capacità, li rende dei semplici guappi di cartone, ovvero persone buone solo a dar aria alla bocca.

Nella nota commedia Un turco napoletano (adattamento di un’opera di Eduardo Scarpetta), Enzo Turco veste i panni di un guappo di quartiere. Poi rivelatosi appunto…un guappo di cartone.

Il Vocaboletano – #35 – ‘o turzo

Viaggio al termine della notte

Il termine di questa settimana è o’ turzo: il cui significato oscilla tra lo sciocco, lo stupido, qualcosa di completamente inutile, anzi da scartare come il torsolo di un frutto o il gambo di un ortaggio, in napoletano infatti ‘o turzo non è solo il torsolo di cavolfiore o di broccolo, ma è anche  il residuo di un fuoco d’artificio, o anche un ciocco di legno. Dalle mie parti si è soliti definire  qualcuno che è poco socievole e poco adatto a fare qualsiasi cosa, come  ‘o turzo ‘e penniello, ossia ciò che resta di un pennello da barba lungamente usato, perciò logoro ed inutile.

Pennello-1

Turzo viene dal latino tursus = stelo, gambo. Da turzo deriva un verbo a me molto caro, che è ‘nturzà. Ossia colpire con violenza; spingere dentro con forza, quindi picchiare.Se  ti hanno ‘nturzato di mazzate, vuol dire che ti hanno picchiato pesantemente.  Lo stesso verbo si usa…

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Il Vocaboletano – 34 – L’uosemo

Ricordo che una sera, dopo una cena a base di pesce quando ormai la tavola era stata già ripulita, si affacciò in cucina la gatta. Miagolava con tono insistito e disperato, quello che utilizza di solito quando vuol qualcosa: si era svegliata tardi e aveva mancato il pesce, anche se ne restava nell’aria l’odore.

Madre esclamò “Ten l’uosemo”.
La guadai stranito. Ma che cacchio voleva dire?

In pratica, l’uosemo è la capacità di percepire qualcosa che non è tangibile, che si avverte nell’aria anche se non si vede. Un esempio concreto è il fiuto del cane, che segue piste invisibili all’occhio umano. Difatti uosemo vuol proprio dire fiuto.

Si tratta di un arcaismo derivato direttamente dal greco antico: ὀσμή (osmé), che vuol dire appunto odore, fiuto. Dal termine greco deriva anche l’italiano usmare, parola desueta che ha lo stesso significato: odorare.


Da cui deriva anche un gioco di parole lombardo con il nome del Comune di Usmate e cioè Usmate Milano.


Il vocabolo non ha connotazioni esclusivamente canine: sentire l’uosemo, infatti, riferito a una persona, vuol dire subodorare qualche inganno celato, avere una cattiva sensazione: “questa faccenda puzza” sarebbe in italiano.

In senso esteso, l’uosemo è l’intuito guida: È gghiuto a (è andato a) uosemo vuol dire che è andato a naso, per intuizione.

Adesso scappo che fiuto odor di croccantini.

Il Vocaboletano #33 La vrenzola

Viaggio al termine della notte

Chiedo scusa innanzitutto per aver saltato il nostro appuntamento col corso di vocaboletano la scorsa settimana, ma son quì per rimediare.

Questa settimana ho ricevuto un grande regalo per realizzare questo post, ossia la collaborazione di Tiz, che ci tengo a ringraziare infinitamente per aver dato voce, forma e colore alla parola che ho scelto per voi, la  vrenzola!

Con il termine vrenzola, si puo’ indicare  un brandello di stoffa, un cencio (qualcosa ridotto male, non in buone condizioni) con tutto il riferimento alla simbolica poverta’ che rappresenta,  e può originariamente riferirsi a persona ridotta in pessimo stato, ad un povero,  uno straccione, che indossa quindi un brandello, ossia una vrenzola. Si puo’ altresi’ indicare con tale vocabolo, un genere di donna che Tiz ha saputo spiegare benissimo delineando in maniera esemplare il vrenzola style. 

Per quanto riguarda l’etimologia del termine, non ci sono dati certi, ma potrebbe derivare…

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Il Vocaboletano – #32 – Il rattuso

L’estate sta finendo ma il caldo perdura e bisogna star più leggeri possibile col vestiario. Ma fate attenzione a non incontrare gli sguardi di un rattuso!

Riconoscerlo è facile. È colui che osserva con fare malizioso e libidinoso e non si fa scappare nessuna ragazza che entra nel suo campo visivo. Non è un semplice voyeur: pur potendo anche tramutarsi in un guardone, il rattuso non è interessato a spiare le attività sessuali altrui. A lui basta anche una apertura tra due bottoni di una camicetta per lanciare il suo sguardo telescopico da camaleonte e “godere della vista”.

Molto spesso al termine rattuso viene accostato l’aggettivo vecchio, perché molto spesso i rattusi sono uomini dai 50 in su che gettano un occhio sulle ragazze giovani. Non è inusitato però dare del rattuso anche a chi frequenta una ragazza più giovane, ad esempio un 30enne con una 18enne, sottolineando la differenza di età e gli intenti dell’interessato come fossero quelli di un vecchio maniaco.

Un comune vecchio rattuso colto nella sua occhiata da rattuso

Il rattuso è anche colui purtroppo che nell’autobus con il pretesto del poco spazio tocca dove non dovrebbe ed è stato ben descritto da Tony Tammaro (sulle note di Edoardo Vianello):

noi siamo quelli che nel votta votta
vuttammo’e mmane pè coppa e pè sotta

trad.
Noi siamo quelli che nella calca
infiliamo le mani dappertutto

Etimologia – Secondo una ipotesi etimologica, rattuso sarebbe una fusione tra rattare e uso, dove rattare in napoletano vuol dire grattare ma anche toccare, quindi il rattuso sarebbe colui dedito a toccare.

Se ne incontrate uno, rendetelo dedito a ricevere schiaffoni.

Vocaboletano #31 ‘ntussecà

Agosto sta finendo ma…non vi intossicate per questo!

Viaggio al termine della notte

Eccoci ritrovati al consueto appuntamento con il corso intensivo di napoletano. La parola che è scelto per voi questa settimana è un verbo ‘NTUSSECA’,  che vuol dire letteralmente avvelenare, amareggiare, arrabbiare,  ma che essendo riflessivo diventa ‘ntussecarsi, ossia avvelenarsi,  quindi amareggiarsi, arrabbiarsi. Colui che che si avvelena è o’ ‘ntussecato, ma il risultato essendo un avvelenamento è o’ ‘ntussecamiento. Poi c’è un’ulteriore sfumatura che è:  o’ ‘ntussecuso : letteralmente è chi è facilmente irascibile, aspro nei modi e nelle maniere, sdegnoso, quando non velenoso. L’etimologia di ‘ntussecà può essere trovata nel latino in-toxicare che è formato da un in illativo + il sostantivo toxicum, di cui troviamo l’ evoluzione della x in ss; il basso latino toxicum(forgiato su un greco toxikòn)= veleno, ma pure rabbia, sdegno che è divenuto in napoletano tuosseco, ossia veleno. Una frase della cultura popolare del luogo in cui vivo è: ‘o…

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Il Vocaboletano – #30 – Fittiare

Test clinici dimostrano che d’estate è cosa comune far nuove conoscenze sentimentali e dedicarsi ad approcci anche invadenti quando le altre persone magari vorrebbero soltanto rilassarsi in pace.

In termini di invadenza, il napoletano, in tempi passati quando il corteggiamento si svolgeva soprattutto (o soltanto) a distanza come in un romanzo di Jane Austen, ha sviluppato una forma di approccio interessato molto particolare: il fittiare.

Fittiare vuol dire guardar da lontano, in modo continuato e con intenso desiderio. Lo scopo è quello di rendere palese il proprio interesse all’altra persona e attendere che, una volta inviato il messaggio telepatico, si riesca a combinare qualcosa (magari finire con l’ammoccarsi ->vedasi).

La fittiata in genere andava avanti finché la donna, infastidita, si alzava e se ne andava oppure quando accorreva qualche giovane a lei legato da parentela o relazione per far capire, senza tanti giri di parole (->paliatone), che si stava fitteando la donna sbagliata .


Un tipico sguardo intenso e conturbante proprio di chi sta fitteando.


In quei rari casi in cui la persona fittiata ricambia gli sguardi di chi fittea, si può dire che quelle due persone si fitteano/si stanno fitteando.

L’espressione può anche riferirsi a un oggetto inteso come obiettivo da raggiungere: si può fittiare ad esempio un telefono visto in un negozio. Vuol dire che lo si è puntato e si aspetta di poterlo prendere alla prima occasione (quando si avrà disponibilità o quando scenderanno i prezzi).

Etimologia – È opinione comune che sia ricollegabile al latino figere, “colpire da lontano”. Proprio come chi sta fitteando, che spera di far colpo a distanza.

O, al contrario, potrebbe riceverlo lui un colpo (in fronte) dalla distanza per l’attenzione troppo molesta.

Vocaboletano #29 a’ Pipita

Una nuova puntata del Vocaboletano e appuntamento al prossimo mercoledì: io vado in vacanza ma il dizionario di napoletano pratico non lo farà!

Viaggio al termine della notte

Buonasera a tutti! Mentre la maggior parte di voi in questo momento è in vacanza, io e Gintoki abbiamo deciso di non abbandonarvi, ma di continuare con il Vocaboletano e di non farlo andare in vacanza, anche perchè è proprio  durante un viaggio o mentre siete rilassati in qualche località esotica che potrete sfoggiare la vostra conoscenza del nuovo idioma. La parola di stasera è come avete letto dal titolo: a’ pipita. La pronuncia è esattamente identica a come si scrive. E cosa vuol dire? Innanzitutto toglietevi dalla testa che abbia a che fare col nomignolo dato ad Higuaìn. Questa è tutta un’altra storia.

pipita s. f. [lat. *pipīta, alteraz. pop. di pituīta «muco, catarro; ascesso» (v. pituita)]. – Malattia degli uccelli (nota spec. nei polli): consiste in una formazione abnorme, simile a una pseudomembrana, costituita da un ispessimento dell’epitelio corneo che riveste il dorso…

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Il Vocaboletano – #28 – Abbabbiare

Vi hanno detto che il Vocaboletano ad Agosto si sarebbe fermato e voi ci avete creduto? Beh fatevelo dire, vi siete fatti proprio abbabbiare!

Il termine sembra ricordare la parola babbeo e, in effetti, il senso del verbo è proprio quello: rendere qualcuno uno stupido, abbindolandolo con false promesse o giri di parole allettanti facendolo cascare in un tranello.

Avete presente Totò che vende la fontana di Trevi? Lui stava proprio abbabbiando il malcapitato turista!

Chi finisce col farsi prendere in giro è stato, si suol dire, abbabbiato. Riferito al maschile può anche star a indicare qualcuno che si è fatto irretire dal fascino di una donna.

Abbabbiare può anche essere inteso come ingraziare, portar dalla propria parte: esiste infatti in Irpinia un proverbio che rende molto bene l’idea:

Chi volu fa’ l’amore cu la figlia adda abbabbià prima a la mamma
(Chi vuole fidanzarsi con la figlia deve prima farsi piacere dalla madre)

Insomma, comunque vada, il mondo è questione di abbabbiamenti.

Il Vocaboletano – 27# – o’ scuorno

Viaggio al termine della notte

Quante volte vi è capitato di provare vergogna in una determinata situazione? Eccovi servita la parola di stasera: o’scuorno! Ossia la vergogna!
Ma da dove deriva questo termine? L’etimologia affonderebbe le sue radici nel greco. La parola “scuorno” infatti deriverebbe dal vocabolo ellenico αισχύνομαι che vuole dire appunto “vergognarsi”.
Altre ipotesi invece, come quella di un linguista, fanno derivare questa parola dal verbo scornare, che a sua volta deriva dal vocabolo “corno”, con L’aggiunta di una “s” iniziale che ha un valore privativo ed indica la perdita di qualcosa, nello specifico la perdita della durezza del corno, il cui quindi significato è
“senza corno o corna” cioè “scornato”. Per comprendere meglio il legame tra l’avere “scuorno” e l’essere scornati possiamo pensare ai cervi, a quando lottano per conquistare il cuore di un esemplare femmina e si scontrano utilizzando le proprie corna. Il cervo che per primo viene privato di…

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Il Vocaboletano – #26 – Cofecchie

Una delle attività preferite dalle persone è quella di parlare e fare commenti alle spalle degli altri.

Questa pratica del far capannello e scambiarsi pettegolezzi sotto voce a Napoli è detta “Fa’ ‘e cufecchie”, fare le cofecchie. A volte più semplicemente si usa direttamente il verbo – derivato – cofecchiare come sinonimo di spettegolare, fare inciuci.

“Senti, sarà pure bravo a carte ma mi hanno detto che ce l’ha moscio”

Sembra un termine un po’ desueto e probabilmente lo è. Oggigiorno è più facile sentirlo utilizzato più nel centro di Napoli che in provincia.

La prima volta che lo sentii fu una decina di anni or sono. Una mia amica, indicando due nostri amici che avevano allungato il passo e parlottavano, disse “Stanno cofecchiando”.

Io annuii intuendo che si riferisse a qualcosa limitato a loro due, ma non conoscevo tale espressione. Pensavo fosse uno slang da bimbominchia.

Quando feci qualche ricerca e scoprii la mia ignoranza, mi emendai. Ma questa è un’altra storia.

Etimologia – Le origini sono incerte, ma sembrerebbero ricollegabili al greco antico κόβαλος, aggettivo che indicava il bugiardo, l’imbroglione, colui dedito a intrighi alle spalle degli altri.

A tal proposito, cofecchia vien talvolta ancora utilizzato per indicare una furbata, un inganno: non è inusitato sentir parlare di qualche manovra politica poco pulita riferendosi a essa come una “cofecchia”.

E, ancora, con riferimento all’agire all’insaputa del prossimo, fare le cofecchie ha anche un altro significato: è un’altra maniera per riferirsi al tradimento amoroso.

Alla prossima settimana e…non cofecchiate, con qualunque significato lo intendiate!