Il tipo dell’atelier mi fa scegliere le scarpe da abbinare. Le prendo, poi chiedo, con sospetto, se potessero far male dietro la caviglia, altezza tendine.
Lui mi rassicura: Con queste non sentirai nulla.
Aveva ragione. Allego foto di me che, in effetti, non sentivo più i piedi:
Il tipo dell’atelier mi aveva anche spiegato una mossa per mostrare i gemelli della camicia: bisogna piegare il braccio non ad angolo retto ma stenderlo con un movimento fluido, accompagnato leggermente dalla spalla.
Non mi è chiaro perché io dovessi sentire l’esigenza di mostrarli, seppur io li avessi scelti per il loro stile:
Ovviamente nell’atto di indossarli poco prima di apparire in pubblico uno mi è caduto e non l’ho più ritrovato. Inghiottito dal pavimento o fuggito sulle proprie zampe. Me ne sono fatto prestare uno (non li ho sostituiti entrambi: mi piaceva portare il gatto) e così avevo i Gemelli Diversi alla festa.
Dicono che i festeggiati non riescano a mangiare come si deve, perché tirati di qua e di là, fotografie, complimenti, invitati ubriachi: insomma, mai 10 minuti di tregua.
Non abbiamo voluto un fotografo ufficiale e i convitati erano tutti molto rispettosi e non invadenti.
L’adrenalina in circolo però ha chiuso lo stomaco. Ho dovuto dir no a una Sacher, per dire. Una Sacher che avevamo rigorosamente preteso come conclusione finale!
Di solito inizio giugno è caldo ma non ci si aspetta certo 35 gradi. Ci sono stati, invece. Strizzavo il fazzoletto che utilizzavo per tamponarmi per ricavarne acqua da bere e non morire disidratato.
I musicisti della banda jazz quando facevano delle pause andavano sul retro a fumarsi un cannone. Beh, in fondo, gli avevamo detto come unica richiesta “Divertitevi e improvvisate”.
Quando avevo ritirato i fiori il fioraio me li aveva sbattuti sotto il naso al grido di: Sient che odore sient!.
Vorrei descrivere quanto sia stato tutto bellissimo ma non riesco a trovare le parole. Per rendere l’idea, è stato tutto così bello che mi dispiace sia passato quel giorno: vorrei tornare indietro e rifarlo, uguale uguale. E poi rifarlo ancora. E ancora e ancora. Sempre con lei.
Non ci si aspetta mai che certe cose capitino a sé stessi. Eppure, poi, quando accadono, ci si rende conto che, veramente, nessuno ne è immune.
Sono qui oggi a denunciare un caso di sessismo subìto.
Diciamo che io e M. stiamo mettendo in essere un’organizzazione di una cosa da organizzare. Un paio di mesi fa, abbiamo parlato con una persona che si occupa di organizzare per chi appunto vuole organizzare.
Sì, tutto ciò è successo due mesi fa. So già che qualcuno polemizzerà dicendo Ah e perché denunci solo ora?.
A quanto pare quella di costei è una presenza necessaria: a noi bastavano un tavolo e delle sedie, ma sembra esistano annessi e connessi vari e c’è una persona che si occupa di ciò.
La cosa non mi crea problemi, se non nella misura in cui la suddetta organizzatrice ho notato parlava rivolgendosi solo a M:
«Tu cosa avevi pensato? Tu cosa volevi? A te come piacerebbe?».
In pratica, alla sua presenza, io ero un semplice cartonato.
Un po’ deluso dal primo incontro, ho sperato che, magari, il secondo sarebbe andato meglio.
Invece si è ripetuto lo stesso copione. Al che, a un certo punto, non ne ho potuto più e ho chiesto:
– Mi scusi, ma perché parla rivolgendosi solo a lei?
L’organizzatrice, un po’ in imbarazzo, si è schermita:
– Ah no mi scusi, è che non sono molti gli uomini che si interessano…
Gli uomini. Quindi io vengo messo in disparte per il mio sesso. Io non esisto, non sono una vera persona. Sono una coppia di cromosomi XY col pene e null’altro.
A parte poi vorrei sapere chi gliel’ha detto a costei che io sia uomo? E se fossi io una donna e M. l’uomo? E se fossimo entrambe donne? E se fossimo entrambi uomini? È incredibile la superficialità con la quale si affrontano le cose.
Rimettete sempre al suo posto chi vi giudica solo per il vostro pene!
Qualche anno fa, dal momento in cui ho iniziato a vivere fuori e a gestire la mia vita in modo indipendente, ho cominciato a considerarmi come un individuo entrato nell’età adulta.
In realtà, poi, perdurando uno stadio di precarietà e semi-schiavismo lavorativo, l’indipendenza diventava un fenomeno relativo, quando si rendeva necessario chiedere un supporto a Padre e Madre.
Badare a sé stessi comunque è un bel traguardo, facendosi venire qualche dubbio perché la vita di un ansioso è un pendolo che oscilla tra Come sono felice e Oddio questa fugace felicità svanirà quando mi accorgerò di non star facendo la cosa giusta. Niente di eroico, per carità, nel vivere affrontando i propri timori: c’è qualche persona che magari a 20 anni è andata in Congo ad aiutare le procavie arboricole ad attraversare i fiumi e tu invece hai come massima preoccupazione certe volte di scoprire che hai confuso un panetto di lievito con del burro – succede se vivi in Ungheria e ti dimentichi come chiamino il burro lì e prendi una cosa che sembra somigliarvi ma non lo è dal banco frigo.
A quell’epoca poi non riuscivo a immaginarmi come fosse andare a convivere con una persona. Intendo una persona come compagna di vita, non il semplice dividere una casa con unə coinquilinə.
Si può pensare che l’uso della schwa sia un qualcosa di recente che si vuole introdurre di forza nella scrittura, in realtà io ho le prove che il suo suono fosse già in uso nel linguaggio quotidiano in certe zone Campane: Cliccare per ascoltare un esempio. (preso dall’internet)
Non è che immaginavo una vita come nelle favole o negli spot del Mulino Bianco. Semplicemente, mancando l’esperienza pratica di una convivenza, non avevo alcuna idea di cosa fosse il vivere quotidiano non da soli. E per uno solitario come me, dedito al soliloquio interiore anche in mezzo agli altri, era ancor più difficile da concepire.
Va anche detto che ho vissuto molte relazioni a distanza: quindi mi sentivo ancor più indietro nel concepire un vivere di coppia quotidiano, dato che la mia dimensione relazionale era fatta di momenti condensati e programmati in pochi giorni, mentre il resto del mio tempo era trascorso da Me, Me stesso e Io.
Da quando dal 1° gennaio di quest’anno – molto utile iniziare dal primo giorno dell’anno per poter avere una scansione precisa del tempo – io ed M. dividiamo lo stesso tetto, ho iniziato a capire molte più cose della vita.
Ho capito che la vita in generale è uno schifo, spesso. Ma che puoi chiuderla fuori dalla porta mettendo un cartellino “Do not disturb” sulla maniglia e goderti un’oasi di serenità.
Ho capito che non si può risolvere tutto da soli. Magari poi a volte qualcosa neanche in due si risolve: però almeno ti sfoghi, ti diverti, non ti riduci a far testa contro muro o a parlarti allo specchio.
Che poi è un’immagine molto cliché. Io mi parlo ma mai allo specchio. Preferisco non guardarmi in faccia.
Ho capito che mi piace cucinare per me ma trovo molta più soddisfazione e piacere nel farlo per qualcuno. Anche perché quando vivevo da solo, pur essendo dedito ad evitare cibi precotti e porcherie e cercare di prepararmi cose molto più elaborate di un paio di fettine panate, erano molte le volte in cui mi prendeva la pigrizia e cenavo con bruschette al pomodoro e birra.
Ho capito quale è il vero senso pregnante di un “esserci”: nella tristezza, nella malinconia, nei momenti di rabbia.
Ho capito cose che forse sono una scoperta dell’acqua calda per il resto del mondo. Ma essendoci rimasto senza acqua calda (no non è una metafora, intendo proprio doversi fare il bidet con l’acqua gelata), dico che è sempre una bella scoperta.
Sono tornato dall’osteopata/fisioterapista dopo due mesi di stop dopo l’intervento. Con le piscine ancora chiuse e la noia che mi prende nel fare esercizio da solo a casa, sentivo il bisogno di una supervisione di un esperto per praticare un po’ di attività a corpo libero.
Anche perché il motivo per cui sono andato dal fisioterapista la prima volta è che durante il lockdown generale nel fare esercizio da solo mi sono incriccato il trapezio.
Mi ha rimproverato di essere risalito in bici dopo soli 40 giorni dall’operazione. Secondo lui è troppo presto e le sollecitazioni sulla zona interessata non sono indicate in questa fase.
Riconosco il suo parere di esperto anche se, confesso, non ho intenzione di seguirlo, seguitando a salire in bici.
L’osteopata/fisioterapista è un professionista che lavora bene, ma il suo approccio olistico non mi si confà in pieno. Per dire, alla prima visita posturale mi esaminò anche i tatuaggi perché a suo dire minano l’equilibrio corporeo. Magari è pure vero, eh.
Avrei voluto commentare che ci sono state anche altri tipi di sollecitazioni nella zona interessata e avrei voluto chiedere che tipo di implicazioni avrebbero, ma sono sempre molto riservato e timido sull’argomento sessuale con gli estranei – pur se professionisti – e i non estranei e gli estranei non binary (che sono quelli che non riconosco né come estranei né come non estranei).
Ricordo quando parlai la prima volta con il chirurgo che mi avrebbe poi operato. C’era anche M. con me. Io gli stavo facendo alcune domande generiche sui tempi di recupero e il ritorno alla normalità.
Poi M. tagliò corto chiedendo: «Sì, per quanto riguarda la riprese di attività ludico-sessuali?».
Che è una domanda più che legittima e tecnicamente medica, ma così all’improvviso non me l’aspettavo.
Così come sono più restìo a parlare del mio privato in pubblico, sono molto pubblico qui su questo spazio privato, giacché qui posso vestire i panni dell’esperto.
Salve, mi presento, Dott. Gintoki, Piacerologo. Mi sono dottorato con una tesi dal titolo Piacer figlio d’affanno? Siamo sicuri non sia un figlio illegittimo?.
All’epoca ancora non avevo esaminato tutte le potenzialità di una persona come M..
Mi piacerebbe tanto ora millantare mie grandi capacità amatorie tal da consentire le manifestazioni fisiche che descrivo di seguito, ma credo semplicemente che sia lei, così poliedrica e frizzante, a offrire di sua sponte vario materiale di osservazione e studio in merito.
Detto in soldoni: il soggetto di studio – giacché questa è una ricerca scientifica per il mio prossimo libro, dal titolo Perché rompere il cazzo agli altri invece di utilizzarlo (il cazzo)? – conosce il soddisfacimento sotto aspetti diversi, che esterna senza tabù.
Ad esempio, una volta all’apice aveva assunto un’espressione, con un occhio girato all’insù e uno socchiuso, che mi ricordava qualcosa. Appurato che non fosse un principio di emorragia cerebrale, ho ripensato ai miei ricordi cinematografici e mi è venuta in mente Brigitte Helm in Metropolis:
Un’altra volta invece, al culmine, ha avuto uno sfogo così rabbioso che pensai stesse per impersonare Tony Montana.
E un’altra volta ancora si ritrovò in stile Esorcista a fare il ponte all’indietro. Non so se dovrei etichettarlo sotto i “cinematografici” o sotto quelli “possessione demoniaca”.
Sono invidioso e ammirato, invero. E anche curioso.
Sto pensando a quali altri riferimenti cinematografici ci si potrebbe ispirare:
– Psycho: un urlo alla Janet Leigh sotto la doccia. Occorrerà poi prepararsi all’arrivo della polizia che qualcuno sicuramente chiamerà.
– Il Signore degli Anelli: un bel sibilante Tesssssoro!.
– L’avvocato del Diavolo: incoraggiare al grido di «Si! Dacci sotto, vai figliolo! Coraggio, molto bene, tienila stretta questa furia, vai!»
La scena in cui Keanu Revees/Kevin Lomax spara inutilmente ad Al Pacino/Satana.
– Full Metal Jacket: nel caso il partner rischi di “anticiparsi”, sottolineare la cosa, con disappunto, con la battuta «Ma Cristo di un Dio, ma cosa fai, stai venendo?».
Riferita alla scena dell’addestramento massacrante cui viene sottoposto il soldato Palla di Lardo.
– Il Padrino: «Che ti fici mai per meritare questa mancanza di rispetto?» Questa la utilizzerei in caso di orgasmo mancato.
Il nuovo editor di WordPress mi fa schifo alquanto. Per un po’ lo avevo aggirato accedendo dalla bacheca amministratore e selezionando l’editor classico, ora sembra non sia più possibile.
Non capisco la logica della struttura di scrittura a blocchi. Un richiamo al blocco dello scrittore?
Mi toglie un po’ di entusiasmo nel fare post.
Parlando sempre di entusiasmo, ammiro e venero quello di M.. La sua vitalità e frizzantezza sono un tocco di luce nella casa.
Mi ricorda una scena de La finestra sul cortile, quando James Stewart, nell’ombra, chiede a Grace Kelly “Ma chi sei?” e lei scandisce il proprio nome per intero accendendo in sequenza le abat-jour, come a dire “Ti porto la luce nell’oscurità in cui ti sei rintanato”.
Detto ciò, mi rendo a volte poi conto di dover stare accorto a non fomentare troppo il suo entusiasmo e prestare attenzione a ciò che dico per non dare il LA al suo istinto compulsivo per gli acquisti.
Se penso ad alta voce che manca un bicchiere particolare per un tipo di birra, il giorno dopo lei arriva con un set completo di bicchieri, più altre cose che ha raccattato per strada e di cui non c’era l’esigenza ma che improvvisamente diventano utilissime.
L’altro giorno era in un vivaio. Ci servivano 3 (e sottolineo 3) vasetti per delle cactacee. Mi invia una foto degli scaffali dei vasetti, di vario tipo, forma e colore. Io con Paint faccio una stellina su un range di scelta di 7-8 vasetti.
Li ha comprati tutti e 8.
E poi ha comprato altre piante perché, avendo dei vasetti in più, vanno riempiti. (Giustamente).
E poi ha comprato anche un vaso che non avevo segnato.
Con altre piante da metterci dentro.
A volte me la prendo con me stesso per il mio eccessivo pragmatismo realistico, che, davanti a quella che ormai è una dépendance del vivaio e che sarebbe casa nostra, mi porta a esclamare «Ah. Hai preso altre piante.». Insomma, non vorrei che il suo entusiasmo e la sua allegria si ridimensionassero o spegnessero per causa mia.
Anche perché le piante son belle e ravvivano la casa. Meglio che si concentri su quelle e non cominci a trovare entusiasmo per ammenicoli vari e cose kitsch, il rischio poi è quello di finire a sfogare la compulsività con altro!
Organizzarsi per cambiare casa può essere una cosa impegnativa.
Sì, mi trasferisco. A 500 metri in linea d’aria da dove vivo ora, ma comunque mi trasferisco.
Per semplificarsi la vita – e risparmiare un bel po’ di cocuzze – uno prende un appartamento già arredato.
Semplificare. Illuso! Anche se già arredata ci sono comunque tutta una serie di annessi e connessi da considerare che non avevi considerato!
Va detto che io ho una mentalità, forse tipica di noi del cromosoma XY, un po’ limitata: degli oggetti mi limito a considerarne la funzionalità. Citando il film di Woody Allen, Basta che funzioni. Un tavolo deve fungere da tavolo. Una lampada deve fungere da lampada. Nei negozi di design c’è una mia foto con scritto IO NON POSSO ENTRARE.
Per le donne è diverso: loro hanno una visione a 360° gradi che riesce a cogliere tutti gli aspetti che tu non avevi preso in considerazione e di cui non te ne fregava niente.
Torniamo al trasloco: ad esempio la cucina c’è. Ma le presine? Come puoi vivere senza? Vorrai mica arrangiarti con lo straccio per toccare le pentole calde o tirar fuori la roba dal forno? Sei un cavernicolo, per caso?
Allora si comprano le presine.
Quali? Facile a dirsi.
Vuoi il guanto?
La normale presina quadrata?
La presina quadrata ma dentro la quale ci puoi infilare le dita e farci pure il ventriloquo simulando una bocca?
Di stoffa?
Di gomma?
Una simile valanga di opzioni – da moltiplicare per qualsiasi accessorio che serve in una casa, dal tagliere al portaombrelli – finisce per mandare il cervello del maschio in caricamento perpetuo come un video con la connessione scarsa.
E stiamo solo parlando degli accessori indispensabili, come dicevo.
Perché poi vuoi non prendere un vattelapesca componibile da ripiano che fa un po’ di arredo? È così carino e costa soltanto due spiccioli e 99 centesimi €.
Stranamente, quindi, ti ritrovi un carrello pieno di “accessori indispensabili” per solo diverse centinaia di euro.
E la teglia dal forno continuerai a prenderla con uno straccio. Lo stesso straccio che usi per pulire la bicicletta e per il bidet, magari.
Iniziando a uscire di nuovo di casa per qualche occasione di cazzeggio dopo le zone rosse, a pois e a losanghe, si è palesato un aspetto che non avevo considerato: sarà un anno e più che non compro un capo di abbigliamento.
E anche adesso che mi trovo a essere in giro più spesso non ho alcuna intenzione di entrare in un centro commerciale. Già avevo problemi a relazionarmici prima della pandemia, figuriamoci ora.
Essenzialmente quello che provo girando in un centro commerciale, anche in assenza di virus, è che vedo la gente intorno a me e vorrei avere dei respingenti come nel flipper per farla schizzare via. In particolare quelli che coi carrelli avanzano senza guardare.
Avrei bisogno di pantaloni nuovi. Pare che infatti servano, secondo la lobby del non si può andare in giro nudi. Ne parlavo in un precedente post.
Ho trovato la soluzione. Ho iniziato a rubare quelli della mia compagna. Ho un problema con i jeans stretti da uomo, che a me piacciono molto: mi fanno male al pacco.
I suoi invece sono più morbidi ed elastici. Lei dice che è perché non sono jeans veri ma dei leggings. Io dico che che hanno l’apparenza di un jeans, il taglio di un jeans, sono quindi dei jeans.
Ho rischiato un occhio nero per tenere il punto, ma non ho mollato la mia posizione.
La realtà è che lei non considera che pur se sono nati leggings magari vogliono essere jeans.
Voglio fare un ragionamento più ampio.
Ci sono nella società correnti radicali e/o conservatrici (e anche un po’ stronze, se mi è consentito) che ritengono che le persone trans sono e restano del sesso di nascita: quindi una persona trans m to f rimarrà maschio, una persona trans f to m rimarrà femmina. Con un chi se ne frega di cosa senta e cosa provi quella persona, perché, ovviamente, bisogna sempre arrogarsi il diritto di voler imporre alle persone cosa debbano essere e cosa debbano fare col proprio corpo.
La stessa cosa accade con i pantaloni protagonisti della mia storia: sono leggings e si sentono leggings? Oppure si sentono jeans? Perché non lasciamo quindi loro essere ciò che vogliono essere?
Io quindi dico sin da ora che mi sento jeander. Un jeans gender.
Diciamo anche che non avendo fratelli e sorelle, abitando in una strada dove non c’erano famiglie con altri bambini della mia età, passavo molto tempo da solo. Giocavo sì con amici e compagni di scuola, ma non tutti i giorni. Per forza di cosa nei miei giochi lavoravo molto di immaginazione.
Col passaggio all’adolescenza e alla scoperta di ansie e seghe mentali la fantasia ha iniziato a esplorare le immense potenzialità del mandarsi in paranoia da solo col potere dell’immaginazione.
Ancora oggi, di fronte a una situazione nuova e/o una sfida (o sfiga) da affrontare, tendo a figurarmi gli eventi in una scala che va da figuraccia da imbarazzo totale – tipo uscire di casa senza pantaloni – a olocausto nucleare.
La chiamo la scala Merdalli. Fornisce la misura di quanto possa andare in merda una situazione.
Le mie fantasie non sono tutte negative o ansiogene, beninteso. Ne ho molte di positive. Troppe, forse. Tendo però a evitare di considerarle un rifugio onirico, una bella realtà alternativa in cui tuffarmi per ricavarne qualche dose di serotonina.
Sono uscito da una relazione in cui immaginare il futuro mi sembrava diventato un esercizio fine a sé stesso. Una via di fuga dal reale per confortarsi che, un giorno, “sarà diverso”.
Non ho mai cercato l’immaginazione a tutti i costi: per me si può anche vivere il qui e ora, ma, nel momento in cui si immagina, devo capire dove si sta andando. Se si sta andando.
Qua non sappiamo più quando stiamo andanto su questa Terra, qua non sappiamo più quando stiamo facento su questa Terra. (cit)
A un certo punto mi era sembrato di trovarmi in una situazione in cui era richiesto uno sforzo fideistico. Un po’ come credere al Paradiso: stai tranquillo, un giorno ci sarà. Purtroppo, da questo punto di vista mi sento molto un uomo di scienza – talvolta pure di coscienza talvolta di incoscienza – e non riesco a credere senza un qualcosa di visibile e concreto tra le mani.
Ma questo post, poi, l’avrò scritto realmente o soltanto immaginato?
Che strana parola. Sembra una patologia. Oddio ho l’orgasmo!
Oppure potrebbe essere il termine per indicare una reazione corporea tipo il vomito: Bleah, adesso sento che orgasmo.
L’orgasmo è una cosa che invidio molto nelle donne.
Questa roba ad esempio di poter continuare anche dopo non è mica giusta. La natura ha invece detto agli uomini una volta fatto vi fermate un turno ai box prima di poter riprendere. Ma perché?
L’altra cosa che trovo meravigliosa nelle donne è la varietà.
Non ho conoscenza diretta di orgasmi maschili altrui – né credo di voler approfondire – ma mi sento di dire che, grossomodo, per gli uomini sia sempre più o meno la stessa roba. Al massimo può variare l’intensità, passando da effetto “confezione dello shampoo vuota che viene spremuta e fa piiifff” alla sensazione geyser islandese.
Scatti miei – Islanda 2018
Per le donne c’è un campionario più ampio, almeno per quanto ho visto nella mia modestissima esperienza.
Sottolineo modestissima non per essere paraculo, ma è perché davvero non vorrei millantare chissà quale esperienza o prodigiose arti amatorie.
C’è l’orgasmo normale. Poco da aggiungere.
C’è l’orgasmo Trenitalia: pensavi non arrivasse più e invece.
C’è l’orgasmo con le lacrime. Lascio a sessuologi e medici le dissertazioni sul perché ci si commuova o pianga. A me piace ricordare le parole di un’amica, invece, con la quale parlavo della cosa e mi disse «Tientele strette quelle lacrime, valgono più di tante parole».
C’è l’orgasmo epilettico: convulsioni e occhi girati all’indietro che manco l’Esorcista.
C’è l’orgasmo marino: arriva a ondate e c’è sempre quell’ultima ondata che ti sorprende perché non pensavi arrivasse.
C’è l’orgasmo comizio: lungo e non sai quando finisce.
C’è l’orgasmo Muhammad Ali: stende lasciando stramazzate senza energie.
E sicuramente me ne sono persi altri ancora.
Insomma, io non posso che rimanere semplicemente affascinato da tutto ciò.
Mi sento dichiaratamente orgasmosessuale. Ne sono attratto e mi piace vederli. Al punto che, per quanto mi riguarda, il discorso che riguarda il lato mio del piacere può diventare del tutto relativo. Perché, per prima cosa, devo ammirare, vedere, conoscere, questa cosa che ogni volta mi fa un effetto che mi fa restare estasiato.
Ho sempre pensato che essere adulti significasse senso di responsabilità, razionalità, saper fare la cosa giusta.
Gli adulti in realtà sbagliano, commettono grosse cazzate, sono irresponsabili come e più dei ragazzini.
Ho sempre pensato che agendo con rigore scientifico, dividendo con un’affettatrice da macellaio giusto e sbagliato, si potesse essere adulti consapevoli e coscienziosi.
Il rigore di un macellaio – quello di fiducia, ovviamente – nel selezionare i tagli non esito a definirlo scientifico.
Mi piacerebbe dire che ho sempre fatto la cosa giusta ma non sono così falso da dire una falsità del genere.
Quando ho fatto la cosa sbagliata l’ho scelta in modo consapevole, deciso a proseguire.
Ma cosa avviene quando le tue scelte investono altre persone?
Io ho scelto di andare a vedere la tana del Bianconiglio, ho varcato un limite facendo una cosa che non avevo mai fatto.
Ora ho l’ansia che mi stringe il collo. O forse mi è solo tornato il reflusso gastroesofageo. O forse è l’ansia ad avermi causato il reflusso.
Dove lavoro io ci sono in maggioranza di donne. Divido poi l’ufficio con due colleghe. Il primo giorno che sono arrivato abbiamo fatto un giro di presentazione: c’è questa imbarazzante usanza di dover fare il giro di tutta la sede per presentarsi, creando imbarazzo nei nuovi ma anche nei “vecchi”, che si sentono obbligati a dover dire qualcosa di brillante ai nuovi arrivati. Infatti uno mi ha fatto “Ah! Condividere lo spazio con tutte queste donne sarà un bell’allenamento per una futura vita matrimoniale!”.
Anche una collega mi ha fatto “Povero te!” alludendo al mio rappresentare una minoranza. Oggi le due colleghe mi hanno detto la stessa cosa, parlando del fatto che nell’ufficio potrebbe arrivare una quarta persona, anch’essa donna.
Mi è capitato in passato, a dei colloqui, quando si passava a delle chiacchiere più o meno informali (dopo un’ora che ti tengono sulla sedia succede), parlando dell’ambiente di lavoro mi dicessero “Eh, siamo tutte donne!” con un tono misto tra “Non hai idea di cosa ti aspetterebbe” e “Qua è un casino”. Come se la cosa dovesse darmi poi da pensare, mentre invece pensavo solo che questa è una non-risposta perché non mi state dando l’informazione che cerco (beninteso, nessuno potrebbe spingersi a dire a un colloquio “Scappa da qui perché c’è un ambiente pessimo” anche se fosse così).
A me non è mai fregato nulla di dover condividere spazi lavorativi con uomini o con donne.
Mi frega e molto il non essere costretto a dividere spazi invece con gente che dà fastidio. E i fastidi possono esseri di varia natura: comportamentale, verbale, ascellare.
Credo quindi che la cosa fondamentale di cui preoccuparsi sia non rompere i testicoli o le ovaie al prossimo, sia esso dotato di testicoli o di ovaie o entrambi e indipendentemente da ciò. E purtroppo – in pochi casi per fortuna – quelli che mi hanno dato fastidio sono stati sia uomini che donne.
Quindi, sì, povero me che devo dividere spazi con gli esseri umani.
Da piccolo, quando sentivo che qualcuno si stava preparando per un concorso pensavo fosse impegnato anima e corpo nella raccolta dei bollini del Mulino Bianco o della Parmalat.
Poi crescendo ho capito che si trattasse di altro. Ho capito anche che fosse più facile vincere l’estrazione della Porsche della Melegatti che un posto messo a concorso pubblico.
Siccome a tutti capita, prima o poi nella vita, di prendere parte a un concorso, ne sto preparando uno anche io. Non si sa mai, metti che.
Tra le cose più insidiose nella preparazione c’è il riuscire ad allenare la lucidità mentale nel rispondere ai quiz. Ci sono delle volte in cui si gira e rigira intorno a un quesito che appare – errando – complesso, non riuscendo a vedere una risposta che è invece è immediata, chiara, lampante.
Questa storia mi fa venire in mente un episodio, accaduto a un mio amico. Un mio cugino. Al cugino del mio amico, che è anche un mio cugino.
Lui stava uscendo con questa ragazza. Si era agli inizi, ci si stava conoscendo. Quella sera si era creata l’atmosfera per conoscersi un po’ di più, nel senso biblico del termine.
Iniziò quindi una fase di approcci e sondaggi digitali. Dopo un po’, sempre il mio amico (o suo cugino) le chiese se le andasse di. Lei fece cenno di sì. Lui tirò su la mano e, mentre gliela passava intorno al viso, definendo con l’indice prima la appena accennata prominenza del suo zigomo destro e, poi, le vette del labbro superiore fin nella vallata dell’arco di Cupido sdraiata sotto il naso, si sistemava col corpo un po’ meglio (la comodità delle utilitarie!).
Lei in quel momento ebbe un sussulto e disse no. Poi si scostò e, risistemandosi, anche un po’ infastidita, chiese di tornare a casa. Il cugino (o il suo amico) rimase un attimo perplesso. Lei si scusò. Lui le disse che non aveva nulla di cui scusarsi. La riaccompagnò.
Prima di andare, lei si scusò ancora ma lui fermamente ribadì che non c’era nulla di cui scusarsi e che inoltre non era uscito con lei giusto solo per approfondire la conoscenza della Bibbia. Si congedarono sereni.
Sulla via solitaria del ritorno, però, il cugino di mio cugino si interrogava su cosa fosse successo. Beninteso, ci sta tutto che si possa cambiare idea o non ci si senta convinti di andar fino in fondo. La sua preoccupazione, essendo una persona molto autogiudicante, era però che avesse fatto qualcosa di sbagliato o qualche gesto inopportuno tal da impressionarla.
Mentre rifletteva e guidava, con la mano destra sulle 12 del volante, si passò la sinistra sul viso, corrucciato.
E proprio dalle dita di quella mano salì un afrore non particolarmente gradevole. Lì realizzò, facendo un rewind-stop del filmato di tutto l’accaduto, che la ragazza si era resa conto, nel momento in cui lui le aveva passato sotto il naso proprio quella mano, esploratrice digitale, di non sentirsi particolarmente a posto nella propria intimità e di aver dovuto quindi, per imbarazzo, fermarsi.
Ci sta, succede. Siamo esseri umani e capita, molte volte neanche per negligenza nostra, che non spargiamo sempre aroma di mughetto. O di mugatto, nel caso dei felini.
Questo aneddoto aiuta a comprendere che, molto spesso, la soluzione più semplice e immediata è proprio a portata di dita, sotto il nostro naso!
Visto che era citata nel titolo e, per alzare il livello del post, lascio qui la Digitale Purpurea del Pascoli
Ma cosa c'è dentro un libro? Di solito ci sono delle parole che, se fossero messe tutte in fila su una riga sola, questa riga sarebbe lunga chilometri e per leggerla bisognerebbe camminare molto. (Bruno Munari)
Come quelle coperte, formate da tante pezze colorate, cucite insieme tra loro.
Tessuti diversi, di colore e materiale eterogeneo, uniti in un unico risultato finale: la coperta.
Così il mio blog, fatto di tanti aspetti della vita quotidiana, sempre la mia.