Sono andato a farmi un prelievo di sangue. Il medico, mentre eseguiva l’operazione, mi raccontava che a San Valentino ha effettuato un sacco di prelievi a coppie (di persone unite in una relazione, quindi no parenti) che quel giorno sono venute a farsi le analisi.
Proprio così: prelievi di coppia a San Valentino.
C’è un significato dietro tutto questo? Tipo “Legati per il sangue”? Io e Te tre ml sopra le cellule? “Amore, per te butterei il sangue”? “Sei un mito-condrio per me”?
Per carità, magari ci sta che se due persone devono farsi le analisi magari preferiscano andare assieme. Oppure, che si possa trattare di analisi preventive per escludere malattie veneree (non ci vedrei nulla di strano). Ma proprio a San Valentino? Sto immaginando il laboratorio diagnostico che effettua delle promozioni: Valentine’s day; sconto di coppia Paghi 1 e Prelevi 2, e via dicendo.
Poi parlo io che sono andato lì il giorno dopo il mio compleanno: sia all’accettazione, sia nella sala prelievi, mi hanno riso in faccia per il bel modo secondo loro di festeggiare. Il dottore, ridendo, voleva anche regalarmi la campana (o si chiama camicia?) per il prelievo incrostata internamente di sangue, come ricordo.
Direi nel loro caso quindi che il sangue fa buon riso.
Ho quasi tre mesi di assenza dal blog da recuperare. Come faccio però a raccontare delle cose in sospeso se, nel frattempo, ce ne sono di nuove?
Ad esempio, questo 2023 è iniziato dando uno sguardo ad appartamenti in vendita. Non che abbiamo impellenza di acquistarne uno, è giusto per farsi un’idea di cosa c’è in giro. Il periodo storico comunque è il peggiore per un mutuo.
Inoltre, ci sono una serie di complessità e insidie di cui tener conto. Ne ho fatto un piccolo elenco spiegando cosa stanno a significare alcune definizioni negli annunci:
In costruzione
I lavori verranno bloccati perché manca qualche permesso o perché la ditta edile è in odore di rapporti poco trasparenti.
Da ristrutturare
Un rudere da abbattere e rifare da zero.
Buono stato
Da abbattere e rifare da zero.
Appena ristrutturato
C’è un soppalco non a norma e quindi nessuna banca concederà un mutuo.
Appena ristrutturato #2
Presenta soluzioni prive di senso tipo la cucina in uno sgabuzzino per ricavare spazio a una stanza in più, la quale suddetta stanza ha delle pareti che formano una zeta per riuscire a prendersi una finestra e non essere cieca.
Palazzo storico
Edificio che cade a pezzi e quindi dovrai sobbarcarti i costi quando decideranno di ristrutturarlo (cosa che avverrà non appena avrai acquistato un appartamento lì dentro).
Contesto signorile
Ci vivono anziani che odiano gli animali, i bambini, le piante e anche te.
Contesto silenzioso
Un quartiere-dormitorio dove alle cinque del pomeriggio non c’è più nessuno in strada.
Centralissimo
È in periferia.
Buona posizione
Estrema periferia.
Ben servito dai mezzi
Niente posto auto.
Trattativa riservata.
Costa un milione d’euro.
Grazioso
È grande quanto un trasportino per gatti.
Elegante e rifinito
C’hanno posato un parquet (che sia di qualità o meno poco importa, l’importante è mettercelo).
Sontuoso
Pacchiano come un vestito di Malgioglio.
Ottima esposizione
Caldo d’estate e freddo d’inverno.
Occasione
Cerchiamo il pollo giusto a cui rifilarlo.
Credo che io e M. siamo i clienti migliori per i posti dove si mangia e/o dove si beve. Non perché facciamo qualcosa di particolare. Semplicemente applichiamo le buone regole del vivere civile. Salutiamo, ringraziamo, trattiamo con rispetto e cortesia il personale. Se ci chiedono se vogliamo far servire portate diverse tutte insieme, rispondiamo sempre che preferiamo ciò che causa meno disagio in cucina. Per me è un atteggiamento normale. Soltanto che poi noto diventiamo per i camerieri delle perle rare. Li vediamo raggianti quando parlano con noi, scambiamo qualche battutina, insomma sembra che quando ce ne andiamo li lasciamo col piacere di far il mestiere che svolgono. Delle volte ce l’hanno proprio detto che siamo brave e belle persone.
Beninteso, non capita sempre di trovare personale affabile: mi ricordo una volta un cameriere che ci lanciò, tipo frisbee, il piatto sul tavolo, così, mentre era di passaggio. O quello che provò a far finta di nulla nel portare una bottiglia di prosecco calda, lasciandola sul tavolo e scappando via. Ci saranno di sicuro poi camerieri che cercano di essere molto gentili semplicemente per ingraziarsi una mancia, magari. Ma la maggior parte mi accorgo che è sinceramente molto contenta di aver a che fare con noi due; me ne rendo conto vedendo come invece deve essere difficoltoso gestire, ai tavoli di fianco, clienti che sono tutto fuorché che cortesi o quantomeno memori del fatto che di fronte hanno pur sempre un essere umano.
Cosicché, per ciò che ho avuto modo di vedere, ho messo insieme una piccola lista di clienti a mio avviso insopportabili per i quali io finirei licenziato se fossi un cameriere, aggiungendo per qual motivo anche:
IL/LA VIP Che sia da sola o in compagnia questa persona mantiene lo stesso copione: atteggiamento scocciato, infastidito, forse è l’atto proprio di dover mangiare a essere noioso, forse è il ritrovarsi insieme a dei plebei, non so. Mocassino e caviglia in vista, capello appena uscito dal parrucchiere che ogni due per tre scioglie al vento – anche se vento non ce ne è – passandosi la mano dietro l’orecchio, barbetta rada e occhiale da sole, borsetta da millemila euro, zainetto di pelle col porta tablet, questi i connotati per lui e per lei. Controlla in modo compulsivo il telefono, si fa degli autoscatti, siede magari di sbieco a gambe accavallate. Guarda dall’alto in basso il personale, a volte trattandolo proprio come un servitore, a cui rivolge dei veri e propri ordini del tipo “Sì però sbrigati”, oppure “Non mi piace, me lo rifai?”, e via così. Motivo di licenziamento: un secchio di letame rovesciato in testa, arrivando alle spalle.
LEI NON SA CHI SONO IO Arriva, magari con una comitiva degna di una squadra di calcio (più panchinari), senza avere prenotato e pretende di accomodarsi. Il cameriere magari si prodiga nel trovargli una soluzione: magari aspettare, oppure accomodarsi a un tavolo più defilato. Com’è ovvio, non solo non apprezzerà l’intenzione, ma se ne andrà via con visibile scocciatura perché è inaudito che un posto non faccia largo alla sua nobile persona. Motivo di licenziamento: porgere una ciotola di avanzi dicendo di accomodarsi fuori e farsi bastare quelli. E prenotare, la prossima volta.
IL PADRONE DI TUTTO Sovente sempre un uomo, spesso dalla classe di un cinghiale, sempre molesto e fastidioso. Entra e si siede senza chiedere se e dove può accomodarsi, tratta il personale con confidenza eccessiva, se è una cameriera a servirlo ci scappa anche qualche battuta molesta, ride e urla come se ci fosse soltanto lui nel locale e stesse a casa propria. Motivo di licenziamento: una chiamata alla Guardia di Finanza per farlo perquisire perché sicuramente uno così sovraeccitato è in possesso di una dose di bamba. E se non ce l’ha troverei il modo di fargliela trovare addosso.
LA DISCOTECA Guarda video YouTube e storie Instagram col volume dello smartphone al massimo, perché tanto di sicuro i vicini apprezzano. Motivo di licenziamento: una tromba da stadio suonata all’improvviso alle sue spalle.
LA FAMIGLIA CON PROLE La famiglia con prole vede il ristorante come un momento di pace personale: dato che i gentili pargoli, evidentemente, a casa rompono e tediano, portarli fuori vuol dire lasciarli razzolare liberamente in uno spazio delimitato mentre i genitori possono mangiare tranquilli. Certo, fa niente se corrono tra i tavoli, disturbano, tirano fuori un Super Santos che fanno volare sopra le teste altrui: son ragazzi, dai. Motivo di licenziamento: monterei una recinzione elettrificata intorno al loro tavolo.
GUSTI DIFFICILI A tutti può capitare di chiedere una variazione: metti che un ingrediente non sia gradito o non si possa mangiare ma che a quel piatto non si voglia proprio rinunciare, si chiede la cortesia di non inserirlo. La mia filosofia è: se è qualcosa che si aggiunge ma non entra nella preparazione, allora chiedo la variazione. Se invece è un ingrediente che entra a far parte del processo produttivo, desisto. Esempio: un tuorlo su una tartare si può non mettere. Ma dalla crema pasticcera di certo non puoi toglierlo né chiedere una torta alla crema senza crema! Però ci sono quelli che invece chiedono rivisitazioni così puntuali e complete che, a un certo punto, diventa un altro piatto. Come chiedere una carbonara senza uovo e senza guanciale. Praticamente la cacio e pepe, chiedi quella, no?! Motivo di licenziamento: se si tratta solo di gusti e non di allergie/intolleranze, servirei tutto ciò che ha chiesto di non mettere e obbligherei a mangiarlo.
E ci sarebbero tanti altri begli esemplari da descrivere ancora!
Ricordo una volta attirò la mia attenzione un annuncio in cui una ragazza cercava lavoro come baby sitter. Alla voce Esperienza aveva scritto «Ci so fare con i bambini, ho due figli».
Indubbiamente è un’esperienza non discutibile.
Mi chiedevo: può bastare? Mi rendo conto che mettere in dubbio le capacità di gestione dei bambini di un genitore sia un campo minatissimo (e l’unico posto che non è minato in questo campo è dove fabbricano le mine, cit), soprattutto se chi commenta genitore non è.
Ma ripropongo la domanda: avere figli vuol dire essere in grado di gestirli, educarli?
Mi sono fatto la stessa domanda qualche giorno fa mentre attraversavo il parco pubblico cittadino. Lo stagno al centro è abitato da un folto gruppo di oche e anatre. Un’oca avrà figliato, c’erano 3 pulcini.
Mentre mi allontano dallo stagno sento un gran starnazzare. Qualcuno sta dirigendo un’automobilina radiocomandata verso i pulcini a riposo. La madre di questi sbatte le ali e gonfia il petto verso il mezzo radiocomandato come a volerlo impressionare, ma la macchinina ovviamente continua la propria corsa. Gli animali quindi scappano via terrorizzati. I pulcini inciampano e rotolano.
Mi volto a vedere chi sia il cagacazzo che rompe le scatole agli anatidi. Un bambino. Con accanto i genitori che assistono divertiti alla scena, esaltati anche magari dalle prodezze del loro campione.
Ora, magari costoro sono degli ottimi genitori in tutto e per tutto, non posso saperlo. Di sicuro son meno ottimi quando il figlio decide che deve disturbare gli animali. Ecco, quindi, il fatto di avere un figlio e di portarlo al parco non li rende edotti in materia di gestione bambini all’interno dei parchi pubblici, posso legittimamente dedurre.
E, in linea di massima, se in giro vediamo che ci sono bambini/ragazzini coglioncelli, non credo di andar lontano nell’identificare la causa in adulti coglioncelli.
Eppure, come dicevo in apertura, credo che uno dei più grossi tabù della società sia il mettere in dubbio le capacità genitoriali. Mai che insegnante, allenatore o un altro adulto a caso discutano del metodo educativo utilizzato da un genitore verso un figlio. È un reato morale che scatena l’indignazione e la rabbia. Una reazione di difesa, come l’oca che sbatte le ali a cercare di difendere la prole. Ci sta, per carità anche se sarebbero da discuterne gli eccessi.
Ad esempio se ti dicono che a scuola tuo figlio rompe, non puoi lamentarti che ti hanno detto questa cosa: o sei tonto da non accorgerti che è uno che rompe, o sei conscio che rompe e non te ne frega niente. E alla fine quel che fai in entrambi i casi è negare la realtà e offenderti perché si sta sfidando il tabù della messa in discussione.
In quanto figlio degli anni ’80 ho vissuto un’infanzia in cui supereroi e videogiochi erano qualcosa da sfigati. Raccontare di considerarli come propri hobby equivaleva a un’ammissione di scarsa vita sociale. Se dicevi di preferire startene a casa ti guardavano in modo strano. Oggi a vedere i film Marvel ci va chiunque e un qualsiasi ragazzino ti considererà uno sfigato se non sai cosa siano Fortnite, Minecraft o CoD.
Qualche settimana fa parlavo con un amico che organizza da quasi vent’anni una rassegna di cinema d’autore. Affermava che secondo lui il cinema sta andando verso la morte. Ha sempre la tendenza a parlare con toni apocalittici di qualunque cosa e credo l’ultima volta che abbia guardato alla vita con ottimismo sarà stato all’ultimo scudetto del Napoli.
Però questa volta mi sa che ragione ne ha. La pandemia ha accelerato un declino. Le sale non si riempiono più. Leggevo un commento, a caso, sotto un articolo sulla crisi dei cinema, di un tizio che diceva “Preferisco stare a casa sul divano”.
Ecco. Vent’anni fa “preferisco stare a casa sul divano”, come accennavo, era un atto coraggioso che andava incontro al giudizio altrui. Oggi, invece, è la normalità.
Certo, a casa ti puoi alzare quando vuoi, ti stendi, parli.
Due delle azioni che ho elencato sono a mio avviso sindromi di un deficit di attenzione. Non è più concepibile nell’homoapplicans (cioè l’essere umano che si dedica a fare un sacco di cose, tutte male) l’idea di stare fermi e dedicarsi a una singola attività per un tempo prolungato. Magari anche in silenzio. Mi vengono in mente quelli che dicono «Non riesco a leggere». Apri il libro e mettitelo davanti agli occhi: è un buon inizio.
Anche io, già distratto di mio di natura, vivo saltando da una cosa all’altra. Con tutte le conseguenze del caso: per dire, ormai sono oltre l’entrare in una stanza e dimenticarmi il perché di averlo fatto. Mi dimentico proprio di entrare nella stanza.
Voglio provare a fermarmi. A tornare a ragionare di più sulle singole azioni. A fare esercizio di consapevolezza. E se magari il cinema non muore, pure sarei contento.
Me ne sono reso conto questo weekend quando mi sono trovato davanti a un dilemma che mai avrei pensato di affrontare: ma le mutande di carta fornite per i massaggi, in che verso vanno indossate?
Premetto che, a parte la fisioterapia, non mi ero mai sottoposto in vita mia a un massaggio. Un po’ per risollevarmi dal logorio della vita moderna, un po’ perché tra collo e spalla ho sempre qualche fastidiosa contrattura, sabato ho invece avuto l’opportunità di provare un massaggio rilassante.
Ovviamente hanno chiesto di denudarsi e indossare le mutande monouso fornite in dotazione.
Dopo averle esaminate, la mia idea era di metterle con la parte più larga dietro. Ovviamente questo poneva un problema sul davanti: poteva esserci il rischio di svelar più del dignitoso causa una ridotta copertura. D’altro canto, mettendole nell’altro verso (quindi largo davanti, stretto dietro) non mi metteva proprio a mio agio l’idea di avere un triangolo lì in mezzo.
Il triangolo no, non l’avevo considerato.
Non è per una questione di considerarlo poco virile, beninteso: anzi sono il tipo di persona che evita tali prese di posizione da esibizione di mascolinità, mi percepisco piuttosto neutrale rispetto a stereotipi di genere, se non addirittura provo fastidio nel sentir etichettare una cosa come “da uomo” o “da donna”.
Era proprio il fastidio fisico, oltre che il sentire freddo alle chiappe scoperte. Ma alla fine ho ceduto e l’ho messo come andava messo (non del tutto convinto). Stretta è la foglia, larga davanti, tutti finiamo a chiappe ai venti.
Sono stanco. È probabile che io l’abbia scritto qui altre volte. Purtroppo la mia stanchezza è un’orbita planetaria, si allontana ma poi ritorna sempre vicino. La sento ora al perigeo. Forse anche al perineo perché mi rode da quelle parti.
Mi ha scritto la padrona di casa. Per la seconda volta in 7 mesi, capita che mi contatti di lunedì mattina per chiedermi se ci sono dei disguidi o inconvenienti, perché non ha trovato il bonifico dell’affitto.
Allora.
Il bonifico deve pervenire il 7 del mese. Io lo effettuo sempre il 1° per star tranquilli. Chiaramente, il primo giorno del mese ha collocazione variabile: può capitar a inizio settimana così come alla fine. Se faccio il bonifico il venerdì, lunedì mattina non sarà arrivato.
Non serve che mi contatti chiedendomi “se c’è un disguido”. La finta gentilezza è irritante.
Ho risposto in modo cortese, gentile (finto), passivo aggressivo. Si è schermita:
«Nooo! Assolutamente!!! Mi dispiace !!! Scusami!!! Non ho considerato il sabato e domenica!!! So che persona sei e mi dispiace se ti sei risentito!!!!»
Mi dispiace. Ma anche no. Quando è stanco al Cavaliere Nero nun je devi rompere.
Mi stanco. C’è poco da fare.
Dovevo avere un aumento di livello al lavoro.
6 mesi fa.
Poi hanno detto che per procedure interne dovevano passare prima 6 mesi.
Poi una decina di giorni fa il capo, che però è un capo che non decide niente e deve chiedere a un altro capo, mi dice:
«Ciao Gintoki, la questione non è finita nell’archivio generale (?), sto lavorando per superare i passaggi burocratici posti».
Come se fosse Antani?
Non mi sono neanche arrabbiato. Ero troppo stanco.
Mi stancano le telefonate di Madre. Mi stanco sentirmi una brutta persona per questo motivo. Mi stanco sentirmi arrabbiato, dopo 30 anni in cui non mi sono sentito visto dai miei genitori.
Sono stato cresciuto amorevolmente, non mi è mancato nulla. Davvero.
Mi è mancato solo il riconoscimento delle cose che facevo, che però evidentemente non rientravano nel limes genitoriale dell’accettabile. E non parliamo di andare a 17 anni a vivere nella Comune stile Mad Max di Mutonia e vivere facendo l’artista di strada (che non ci sarebbe nulla di male, ma magari può sembrare un cambiamento un po’ estremo).
Anni di: «E che devi fare?», «Ma perché?», «No non sono d’accordo». Senza mai sentirmi chiedere «Ma come mai questa cosa ti interessa?», «Ma di cosa si tratta?». Un semplice interessamento.
Ho sopportato per anni, fino al 2021.
Quando ho detto che avevamo trovato casa e saremmo andati via da quella che era casa dei miei nonni, il giorno dopo, come se non avessi comunicato nulla, Madre dice che avrebbe sistemato la discesa del garage per far parcheggiare le nostre auto.
M. mi fa: «Ma…tu gliel’avevi detto, vero, che cambiavamo casa?».
Quando ho detto che avremmo firmato il contratto di casa mi ha fatto «Va be’» e nient’altro.
Quando ho detto che l’avevamo firmato, ha fatto «Se hai deciso così. Comunque non sono d’accordo che vai in affitto».
Neanche chiedere dove fosse questa casa, come fosse, se fosse una palafitta o un grattacielo. Così preoccupata di dover esternare la propria insoddisfazione da non provare nemmeno a fingere un minimo di interesse.
Oggi mi hanno raccontato una delle storie più divertenti e interessanti che ho ascoltato nell’ultimo anno. È un fatto vero, o almeno il tizio che me l’ha raccontata così dice: non so se sia tutto reale, mi piace comunque pensare che lo sia. Non mi sento, purtroppo, di riportarla integralmente qui perché sarebbe uno spunto interessante per scriverci un racconto e non vorrei quindi rovinare la storia all’amico, diffondendola in rete. Basti sapere, per farne capire il livello di interesse, che ci sono: una blatta (soprannominata Gregory), un cocktail con degli orsetti gommosi dedicato a un tizio che si è urinato addosso, pompieri che irrompono in casa e pensano a un sequestro, Carabinieri che irrompono in casa (chiamati per il sequestro), uno zio che sviene e tante altre cose ancora. Se non è questo materiale di qualità per un racconto, che altro, dico io: pensate che con del materiale di sterco sono riusciti a fare ben 5 stagioni della Casa di Carta!
Attenzione: questa affermazione potrebbe urtare la sensibilità dei fan della Casa di Carta.
E tutto ciò è avvenuto al tizio nell’arco di una serata/nottata.
Il mio agosto in ferie non è stato così movimentato e particolare come la storia di cui sopra: posso al massimo segnalare un cinghiale che di notte ha attraversato la strada davanti l’auto, per dire. Diciamo che l’eccezionalità dell’evento sta nell’averlo incontrato in un paesino di montagna: oggigiorno i cinghiali li trovi in spiaggia, in centro città, sembra che alla fine nei boschi non ci viva più nessuno.
Sempre in tema di animali, un cane durante le vacanze mi ha aggredito tentando di mordermi. Era uno di quei cosi grandi come un topo ma rabbiosi, ringhiosi e rancorosi come Vittorio Sgarbi. Avrei potuto calciarlo in touche in stile rugby o provare un tiraggiro come Insigne, solo che poi avrei dovuto vedermela con la padrona. Padrona che, per giustificarsi, ha detto che purtroppo il cane da quando sono entrati i ladri in casa ha paura quando vede estranei.
Ho capito, ma io cosa c’entro coi ladri?
Mi ricorda la tizia che una volta incrociai in un sentiero tra i boschi di Monfalcone: andava a spasso con dei cani, sciolti. Io stavo per fatti miei e camminavo usando un bastone come rinforzo. I cani mi vedono e mi inseguono e provano ad addentarmi i polpacci. La padrona non batte ciglio e mi fa: “Eh hanno paura del bastone”.
Ah, chiedo scusa: guardi cosa faccio, per punirmi ora me lo infilo nello sfintere, così da farlo sparire e chetare i suoi botoli.
Non ho problemi coi cani; non nascondo che non è che mi facciano impazzire – a parte i cagnoni giocosi e un po’ tontini in stile Mr Peanutbutter – e la mia attenzione per loro è la stessa che potrei avere per un Potamocero (un parente africano di maiali e cinghiali): ok, interessante, ma poi il mio interesse scema e mi guardo in giro a cercare dei gattini.
Il mio problema sono i padroni. I padroni, quelli sì, sono proprio delle belle rotture.
In vacanza sulle spiagge ho potuto ammirare anche diversi tatuaggi interessanti, da un punto di vista antropologico: credo esista una categoria – forse è un fetish – che definirei “Padri Pii brutti”.
Sempre in spiaggia ho potuto ascoltare un tizio che dispensava la sua conoscenza a un gruppo di persone; in sintesi lui affermava:
– siamo delle cavie per i vaccini;
– i vaccini ci modificano il DNA;
– e comunque ricordiamoci che se non fosse stato per Trump non saremmo riusciti ad avere i vaccini.
Mi ha lasciato parecchio confuso su quale fosse quindi il suo orientamento in merito. Poi mi sono immerso in acqua per cercare sollievo da questi discorsi calpestando dei ricci.
Poi ci sarebbe altro ancora da raccontare ma il post rischia di diventare una proiezione di diapositive delle vacanze. Quindi chiudo bruscamente mettendo un’immagine che sento mi rappresenta molto.
(Nota: trattasi di una linea abbandonata-don’t try this at your linea di metropolitana)
Parlavo con un tale. Mi ha raccontato di una situazione che gli è capitata, con un’agente di commercio. In pratica, questa agente ha avuto delle grosse difficoltà a intraprendere la professione, causa opposizione del marito e della famiglia. I motivi?
Fare l’agente di commercio, andare in giro, incontrare persone e negoziare con loro è un lavoro da uomini.
Se la moglie si cerca un lavoro, la gente può pensare che il marito non è capace da solo a provvedere ai bisogni economici familiari.
Una storia simile l’avevo già sentita altre volte. Mogli che lavorano di nascosto dei mariti al mattino, perché loro non vogliono, perché poi la gente pensa che “l’uomo non bravo a fare l’uomo di casa”.
Correnti di pensiero che non sopravvivono soltanto nel mondo maschile: io ricordo ancora una ex collega, anni fa quando ero impegnato in un altro lavoro, che diceva che non esistevano più i veri uomini e le vere donne, cioè l’uomo che provvedeva ai bisogni e la donna che curava la famiglia.
La cosa più bella della considerazione della ex collega era che poi secondo lei era per questo motivo – cioè che non ci sono veri uomini e donne che fanno gli uomini – che 2stanno uscendo in giro tanti omosessuali”; avrei voluto farle notare che gli omosessuali di oggi sono figli e nipoti dei “veri uomini” e delle “vere donne” di prima, quindi qualcosa non deve aver funzionato nella sua tesi: dai veri nascono comunque i falsi!
Forse il suo ideale di verità è legato a una verità supposta, che, per dirla à la Caparezza, in quanto supposta se la può infilare da qualche parte.
Sarò sincero e mi confesso: quando sento questi discorsi mi faccio i fatti miei. Come quando stavo parlando col mio amico libraio e si è avvicinato il proprietario di un locale di fianco che, cambiando decisamente il nostro argomento, inizia a parlare di donne e uomini e ci elargisce una grande – secondo lui – verità: che il problema di oggi è che le donne vogliono fare gli uomini.
Io me ne sono semplicemente allontanato per non ascoltarlo.
Con molta viltà lasciando l’amico libraio a tenere il discorso, è vero.
Mi stanco nel dialogare con le persone. Mi tedio delle banalità, dei preconcetti, delle verità supposte (vedasi nota sopra), e di concetti che di per sé non significano proprio niente.
Ad esempio, sempre nella mia sempiterna ingenuità, non è mi è chiaro il concetto di “voler fare l’uomo”. Forse le donne vogliono rubarci il privilegio della minzione in piedi? Questo sarebbe pretenzioso, lo riconosco.
Non so se sia corretto il mio atteggiamento di rifiuto del confronto. Credo di no. Come quando a uno che voleva convincermi dell’esistenza di vari complotti – dall’11settembre allo sbarco sulla Luna – dissi Senti non sono d’accordo e non ti ascolto. Non ritenni di dover spendere tempo a cercare di ribattere, controbattere e controargomentare le cose che mi diceva.
Ripeto, forse mi sbaglio. Probabilmente non si farà mai un passo avanti nella società se non ci si preoccupa di ricercare un confronto, un dibattito e di far riflettere le persone. Ma se l’altra persona parte da una posizione dogmatica – tipo c’è uno nella mia città convinto che il Papa sia satanista e che Trump sia a capo dell’armata dei buoni – val la pena cercare un confronto?
O è meglio girare i tacchi e andare a farsi una birra?
C’è un tizio, che si potrebbe dire non del tutto avvezzo alla conformità sociale, che da qualche tempo a questa parte gira per le strade della città con un microfono e una cassa altoparlante. Canta, finge sketch, finge di parlare alla radio, mette musica. La strada dove abito è tra le sue preferite, vuoi per il traffico, vuoi per la presenza di un paio di locali da ristorazione. Ha pubblico per i suoi show.
Sono sempre per il vivi e lascia vivere. Delle volte però è dura.
Una sera sono corso sul balcone e gli ho urlato più volte HAI ROTTO IL CAZZO. Lui si è inchinato. Poi ha proseguito a cantare.
Martedì sera, un’ora prima dell’inizio della partita dell’Italia, si è piazzato sempre nella mia strada a vendere bandierine e trombette. E fin qui nulla da dire.
Peccato che le suddette, fastidiose, trombette le suonava a ripetizione.
Mi sono scocciato e ho chiamato la Municipale. Volevo godermi la cena tranquillo.
La Municipale è arrivata, gli ha detto di silenziare le trombe. Lui si è lamentato che vengono sempre a riprenderlo. Ho sentito distintamente l’agente dirgli «Purtroppo ci hanno chiamati».
Già. «Purtroppo ci hanno chiamati».
Quindi immagino di essere io il coglione che disturba la forza pubblica per ciò.
Forse lo sono. Sento infatti, ed è da un po’ che lo notavo, che mi sto incattivendo. Troppo spesso percepisco di diventare il cittadino indignato che vuole ordine e repressione per la propria tranquillità.
Io stesso, che poi osservo con ribrezzo quelli che, ad esempio, plaudono alle violenze nelle carceri. «Sono delinquenti, se lo meritano». Come se il fatto di aver commesso un reato implichi in automatico un pestaggio, in nome di un principio educativo non dimostrato: spero che costoro non crescano i figli allo stesso modo, perché non credo affatto che mazzate e punizioni aiutino nella crescita, così come le manganellate non restituiscano alla società dei cittadini modello.
Ma io non sono un educatore, un sociologo o un antropologo, costoro pensino ciò che vogliono. Lontano da me.
L’altro giorno, per restar in tema di punizioni, poi ho ricevuto una bella lezione morale.
Nell’arco di una settimana ho portato a casa un paio di esami all’università. La mia attività parallela/hobby/impegno personale di conseguire una seconda laurea procede bene.
Per il primo dei due esami il docente, dietro consegna di un elaborato di gruppo, ha dato un voto politico a tutti.
Per il secondo esame, invece, c’era lo stesso da consegnare un saggio ma individuale e molto più articolato. Sabato notte il professore ha pubblicato giudizi e correzioni, invitando tutti a leggere tutto (giudizi e saggi).
Premettendo che ognuno guarda e pensa a sé stesso, ho comunque sbirciato i lavori altrui. Leggendo giudizi e commenti del professore, ci sono state due cose che mi hanno colpito.
La prima è la quantità di giudizi negativi sull’uso dell’italiano, per diversi elaborati. Ma che ormai non si sappia più scrivere, credo sia un fatto noto.
La seconda cosa è che due elaborati sono stati respinti perché macchiati da plagio: pezzi interi copiati e incollati. Uno dei due era un copia-incolla di una sintesi di un libro.
Tra me e me pensavo come si fa a far una cosa del genere e credere poi di sfuggire sia al software che ormai hanno tutte le università e che scova i plagi, sia anche al professore che, del libro plagiato, ne ha perfetta conoscenza.
Ritenevo che avrebbero meritato la bocciatura.
Invece, in sede di verbalizzazione, il docente ha tenuto a fare un chiarimento in merito. Innanzitutto, riteneva che il plagio fosse stato effettuato più per ingenuità che per malizia. In secondo luogo, la sua non era una bocciatura: le due persone sarebbero state convocate a esporre oralmente l’elaborato, per chiarire cosa avessero compreso riguardo la materia oggetto del lavoro.
Secondo lui, da parte loro un lavoro di ricerca c’era stato e l’aveva riconosciuto: tale ricerca era stata poi utilizzata male. Da qui il suo giudizio da non leggersi con intento punitivo ma come invito a riflettere.
Sono tornato a casa un po’ vergognandomi dei miei pensieri. Se un docente, con esperienza ultradecennale e che per conoscenza e cultura mi infila nella sua tasca senza problemi, ritiene di non assumere un atteggiamento punitivo, io chi minchia sono per avere questa posizione?
Io mentre giudico gli altri
Ogni tanto devo riascoltare questo discorso, per ricordarmi che cos’è l’acqua, ma, soprattutto, la consapevolezza di aver sempre una scelta:
Ma ho dimenticato di farmi fare la foto e quindi ora temo che non sia valido.
Il processo di vaccinazione è stato alquanto curioso.
Martedì mi arriva la convocazione per il giorno successivo, ore 19.
Mercoledì mattina, alle 9, ricevo una telefonata.
«Pronto, parlo con il Sig. Gintoki? La chiamo dal Centro Vaccinale, lei è convocato per oggi alle 19. Potrebbe venire anche stamattina?»
«A che ora?»
«Quando vuole, anche ora»
«Va bene, mi dia una mezz’ora»
E quindi vado al Centro Vaccinale. Mi avvicino al soldato dell’esercito di guardia e gli dico che sono stato convocato.
«Lei è?»
«Gintoki»
«Aspetti un attimo»
Va dentro. Ne esce in compagnia di un altro soldato:
«Lei è?»
«Gintoki»
«Eh ecco forse c’è stato un Qui Quo Qua…mi lasci vedere»
E rientrano tutti e due dentro.
Ne escono stavolta in tre.
«Lei è?»
«Sempre Gintoki»
«Sì come pensavo c’è stato un problema, non hanno avvisato il Responsabile del Centro che lei sarebbe arrivato»
«E io che devo farci? A me hanno telefonato dicendo di venire anche subito»
«Eh non posso farci niente»
«Io da qua non me ne vado»
«Aspetti un attimo»
Stavolta rientrano in due, lasciando la prima guardia fuori. Dopo 5 minuti dall’interno mi fanno cenno di entrare.
Mi mandano all’anamnesi, dove mi attende una dottoressa con una soldatessa che scrive i dati al pc.
«Lei è?»
«Gintoki, presumo»
Dopo le domande di rito su Covid, tamponi, allergie, arriviamo ai medicinali:
«Prende regolarmente medicinali?»
«Nulla, a parte degli integratori per il cuoio capelluto»
«Quelli alla mela?»
«Sì esatto»
«Anche il mio fidanzato li prende»
«Ah»
«Comunque bisogna aspettare arrivi l’età che non ci si pensa più»
«Ah»
Poi si gira verso la soldatessa, che non era per niente interessata alla conversazione
«Comunque lui è fortunato è solo stempiato, il mio invece li sta perdendo dietro, non può neanche farsi il trapianto perché non sono ancora caduti tutti, quando cadranno poi gli resterebbe il vuoto intorno»
«Ah»
Poi scrive
«Va bene, quindi…non dichiara patologie…a parte i capelli…va be’»
«Grazie, tornerò a casa carico di autostima»
E mi mandano allo step successivo, la sala d’attesa. Ci sono 20 sedie libere, 3 persone sedute vicine, senza distanziamento. Io faccio per sedermi a una sedia di distanza dagli altri, ma vengo ripreso da un’infermiera che mi invita a sedermi accanto a un signore.
Arriva da una stanza un soldato, che fa:
«Qualcuno è stato convocato stamattina?»
«Io»
«Lei è?»
«A questo punto non lo so più…Gintoki?»
E rientra nella stanza. Non è più tornato.
Vengo convocato nella stanza per l’iniezione. Me la faranno al braccio sinistro. Segnalo che ho un tatuaggio fatto da poco che, in via di guarigione, sta spellando come di norma.
«Ma è vero o è finto?» mi fa il medico.
«…È vero…»
«Quindi la pelle tatuata quando guarisce perde pellicine?»
«…Ehm sì»
Mentre mi sorgevano dei dubbi sulle sue competenze mediche, mi aveva già infilato ed estratto l’ago.
Come dicevo, non ho autoscatti o foto del momento del vaccino da pubblicare sui social e quindi non so se sia valido o meno. Però ho una foto del post tatuaggio, di cui posso quindi dire che è vero.
Venerdì ho sostenuto una prova intercorso per un esame. La didattica a distanza mi permette di poter gestire l’impegno universitario senza muovermi da casa, nelle pause lavorative.
Da questo punto di vista, le restrizioni vantaggi indubbi ne offrono.
Gli svantaggi non sto qui a descriverli, ne siamo consci tutti. Tra i disagi che più avverto, a livello epidermico – ne ho già parlato qui, so di ripetermi – c’è una maggiore insofferenza verso il prossimo e una disabitudine alla presenza umana.
Non è la paranoia degli assembramenti o dei contagi. È proprio che le persone mi provocano più fastidio del solito. So di avere la puzza sotto il naso, come se ci fosse un cassonetto dell’organico di una pescheria a fine giornata piazzato sotto le mie narici.
D’altro canto, l’asticella di ciò che è scostumato è diventata molto facilmente scavalcabile, da parte di alcuni.
Venerdì ho pensato di andar via per un weekend con M., contro il logorio della vita moderna. Isolati, tranquilli.
Quella sera tutto nella norma. Nell’intero stabile eravamo da soli, eccezion fatta al piano di sotto per la governante dei proprietari, una sbrigativa, ermetica, asciutta e segaligna signora come solo la gente di borgo in altura può essere sbrigativa, ermetica, asciutta e segaligna. Ho apprezzato molto tali caratteristiche.
Il pomeriggio dopo nell’appartamento di fianco sono arrivati 4-5 ragazzi. Le pareti sottili che ci dividevano da loro mi hanno permesso di disprezzare a pieni timpani la musica che ascoltavano a volume alto.
Credo poi avessero dei problemi nell’utilizzo dello sciacquone: non tirandolo correttamente, l’hanno lasciato inserito a caricare e scorrere per 2-3 ore. Il tubo passava proprio nel muro confinante la nostra camera da letto. Ho disprezzato fin circa mezzanotte-l’una il rumoroso scorrere incessante. Pazienza.
Domenica eravamo a pranzo fuori. Le norme sul distanziamento dei tavoli mettono forse al riparo il naso dalle goccioline di saliva altrui ma non le orecchie dai suoni molesti.
Un tale, in particolare, alla mia destra, rappresentava un classico esempio di gentiluomo mancato. Mancato da diversi colpi educativi con un nodoso randello.
Verbalmente rumoroso e sguaiato come un ippopotamo flatulente (di cui riportiamo una testimonianza), come se non ci fossero altre persone intorno, faceva del rispetto del prossimo il proprio pezzo forte. Ha richiamato l’attenzione della cameriera al grido (ed era proprio un grido, infatti) di BELLLAAA. Al cameriere che gli ha chiesto come fosse il piatto – che aveva spazzolato a dovere -, per risultar simpatico ha risposto Poteva essere meglio. Ahr Ahr Ahr!. Non essendo le posate parte della propria religione, né il chiedere di avere il piatto, si alzava dal tavolo per andare a prendere con le mani ciò che gli serviva.
Sono perplesso.
Ho chiaramente bisogno di aiuto. Sto diventando insofferente e giudicante come un bisbetico pensionato. E il colmo è che manco la vedrò mai la pensione, probabilmente!
Ma cosa c'è dentro un libro? Di solito ci sono delle parole che, se fossero messe tutte in fila su una riga sola, questa riga sarebbe lunga chilometri e per leggerla bisognerebbe camminare molto. (Bruno Munari)
Come quelle coperte, formate da tante pezze colorate, cucite insieme tra loro.
Tessuti diversi, di colore e materiale eterogeneo, uniti in un unico risultato finale: la coperta.
Così il mio blog, fatto di tanti aspetti della vita quotidiana, sempre la mia.