Non sono mai stato un tipo da spirito natalizio, nel senso più elevato e mistico. Ne ho sempre apprezzato la versione più prosaica, fatta di addobbi e luminarie. Si potrebbe aprire un dibattito sul consumismo di tutto ciò, ma ho lasciato le chiavi nell’altro cappotto quindi teniamolo chiuso. Se vogliamo, si può dire che se passiamo un anno intero a consumare a volte senza alcuna necessità contingente, quantomeno preferisco allora un qualcosa che sia in modo visivo allegro e festoso.
Il mio Natale invero non è mai stato così tanto consumista. Da bambino come regalo ho sempre ricevuto qualcosa di simbolico. Il ragionamento dei miei genitori era che se avessi ricevuto un grande e importante regalo il 25, poi per l’Epifania per forza di cose non avrei ricevuto chissà che. Ho sempre vissuto con la cultura del “giusto” e non dell’eccesso. Erano anche altri tempi, e questa è la classica frase per dire tutto e niente, per perpetuare una narrazione riconoscibile e per questo confortante. In realtà c’era benissimo chi faceva eccesso e non lo percepiva come tale; poi possiamo parlare dei bambini di oggi che in regalo ricevono un tablet mentre io ricevevo un calcio balilla junior. Venitemi però a dire che un calcio balilla sia più educativo: si finiva sempre a litigare o per un colpo non autorizzato o per aver approfittato di una distrazione o per non aver lanciato la palla in modo corretto o perché, mentre stai trasportando in giardino il biliardino, il tuo amico che lo trascinava avanti tira troppo e il campo si divide di netto lasciandoti con in mano un lato del campo con portiere e difensori che guardano attoniti i loro compagni rimasti dall’altra parte. Meglio quindi il tablet.
Dicevo, i regali importanti li ho sempre avuti il 6 gennaio.
A me questo ragionamento poco suonava giusto, in realtà. Dell’Epifania me ne è sempre importato poco. Il fatto che sancisse la fine delle vacanze lo rendeva un giorno da croce nera sul calendario. Avere un dono quel giorno non lo rendeva meno funereo: l’indomani riprendeva la scuola e quindi neanche potevi godertelo.
Poi c’era la calza, piena di dolci attacchi intestinali. I genitori che me la regalavano erano gli stessi che mi educavano a non cedere ai peccati di gola. Quindi finii col diventare schizzinoso verso le cosiddette schifezze. Non ho mai terminato una calza in vita mia. Nella credenza ci dovrebbero ancora essere delle monete di cioccolato ormai fuori corso. Le conservo come evenienza in caso di sommovimenti economico-monetari improvvisi nel nostro Paese: non si sa mai.
Insieme a psittaciforme e parasaurolofo era una delle parole che mi piaceva ripetere da bambino perché suonavano difficili.
Non ho mai incontrato un parasaurolofo ma l’altro giorno ho avuto un incontro ravvicinato con un otorinolaringoiatra.
Le mie tonsille risultano comprensibili quanto un discorso di Manlio Sgalambro: sono alquanto criptiche. Negli ultimi tempi tendono inoltre ad accumulare placche asintomatiche. Secondo l’otorinolaringoiatra si tratta soltanto di un problema estetico, senza complicanze per la salute.
– È solo una questione estetica che si può risolvere benissimo con un intervento di chirurgia non invasiva, che si svolge in anestesia locale e che consiste in bla bla bla le cripte tonsillari bla bla bla
Avevo smesso di ascoltare con attenzione perché nella mia mente mi stavo chiedendo chi mai si sottoporrebbe a un intervento estetico alle tonsille.
Certo potrebbe dar finalmente un senso all’affermazione di esser belli dentro – giacché chiunque può vantarsi di ciò senza tema di smentita essendo cosa difficile da verificare – , col vantaggio di poter anche fornire una prova: a chi non non presterebbe fede alla mia bellezza interiore, mostrerei orgoglioso l’epiglottide decorata dalle mie formose tonsille 90-60-90.
Ammetto di averci pensato poiché chiunque di noi sogna di potersi abbellire in qualche modo. Non ci garba ciò che la natura c’ha dato. Siamo umani. Sciocchi umani attaccati alle cose superficiali.
Un animale non si rifarebbe mai le tonsille. Detesto dire che siano meglio delle persone, ma io penso che siano meglio delle persone che dicono che gli animali sono meglio delle persone.
Mare basso. 2018, Smartphone rotto, diaframma anticoncezionale con ripresa in quattro tempi + 1 supplementare con tiro libero allo scadere
“Il gabbiano sa che la bassa marea sarà seguita da un’alta marea”. Aforisma di Jonathan Livingston.
Quanta saggezza in così poche ali.
Un’otorinolaringoiatra saprebbe esprimersi allo stesso modo?
Da bambino una volta ho impersonato un manichino in vetrina.
Ero con Madre in un negozio di abbigliamento multicolore e, stanco di vederla chiacchierare con una commessa, mi misi a gironzolare per il negozio, finché non raggiunsi la vetrina.
Lì pensai bene di mettermi in posa come un manichino, attendendo dei passanti per assistere alla loro reazione. Non arrivò nessuno per un po’, poi passarono due giuovini sul marciapiede opposto che, notandomi, si sbellicarono dalle risate.
A quel punto dichiarai concluso il mio esperimento.
Mi è tornato alla mente questo episodio dopo aver letto che, nella mia città, un negozio di intimo ha messo in vetrina delle giovani donne, in lingerie.
Sono arrivati tanti curiosi ad assistere, qualcuno poi ha criticato sostenendo che fosse di cattivo gusto, un altro ha esclamato – cito come riporta un articolo sull’argomento – che “Sembra di stare ad Amsterdam” e non ho capito cosa intendesse. Forse quest’oggi in strada c’erano molte biciclette che, si sa, è il mezzo di trasporto più diffuso nei Paesi Bassi, ma non capisco cosa c’entri con una donna in vetrina.
Ho pensato quindi a un’alternativa all’esporre delle modelle, per evitare polemiche da parte dei soliti moralisti radical chic che non vogliono tenere le donne in vetrina e, inoltre, tenere a bada i pruriti dei curiosi che potrebbero rischiare arrossamenti e vesciche per il troppo sfregamento da prurito.
La soluzione sarebbe quella di mettere dei vegani in vetrina, per questi motivi:
si soddisferebbe l’esibizionismo del vegano, che sente la necessità di mostrare a tutti la sua scelta di vita sostenibile, salutare e antisistema, alla faccia della lobby della braciola;
si soddisferebbe il bullismo di quelli che, come me, se la prendono con delle categorie un po’ per moda. Un vegano esposto in vetrina offrirebbe intrattenimento garantito;
con il punto 2. si soddisferebbe il vittimismo del vegano, che soffre di perenne sindrome da accerchiamento: ad esempio il vicino di casa nel condominio la domenica prepara il ragù per avvelenare di proposito il vegano con le esalazioni di macinato, rendendo vana la sua scelta salutare;
il vegano in vetrina potrebbe fare ciao ciao con la mano ai passanti, se volesse: in questo modo mostrerebbe a tutti la sua scelta (di) salutare;
i radical chic criticoni che non vogliono le donne in vetrina non avrebbero nulla da criticare, perché il radical chic ama le tendenze radical e chic e un biovegano in vetrina è chic e radical quanto basta;
togliere un vegano dalla strada sarebbe una buona azione;
le donne ormai sono un po’ passate di moda, diciamocelo, mentre il vegano sarà sulla cresta dell’onda anche per la stagione 2017/2018, a mio avviso.
La settimana scorsa, quando l’ho messa in moto, l’auto ha iniziato a fare titic titic titic.
Ho pensato ci fosse un pezzo di plastica incastrato sotto.
Quando ho controllato, ho visto che lì c’era un cavetto che pendeva col morsetto che toccava l’asfalto.
Tutti i meccanici di fiducia (mia e di conoscenti) sono in ferie e di andare dal primo che capita non è che abbia tutta questa propensione. È possibile che vada lì per sistemare il cavo estinto e mi senta dire di dover sostituire il motore. So di poveri tapini entrati in officina per un cambio d’olio e usciti con un preventivo per un’auto di Formula 1.
Constatato che freni, acceleratore e volante funzionassero, ho girato un po’ – per esigenze – con l’auto tichititteggiante.
È un rumore molto irritante e l’impotenza di non potervi porre rimedio lo è ancor di più.
Dopo un po’ viene voglia di forarsi i timpani come un Cavaliere dello Zodiaco.
Il Cavaliere d’Oro Aldebaran del Toro, nel combattimento contro Syria che usava melodie ipnotiche, decide di rompersi i timpani. Comprensibile, anche a me la cantante Syria mi è sempre stata sulle balle.
So che molti lo conoscono come “Toro” e basta, ma, così come tutti gli altri Cavalieri, nella versione originale hanno dei nomi e non ci si rivolge a loro soltanto col nome delle sacre vesti. Qual sgomento, ad esempio, quando all’epoca scoprii che Pegasus non si chiamasse affatto Pegasus: e io che avevo sempre pensato che fosse una fortunata combinazione che uno che si chiamava Pegasus ottenesse l’armatura di Pegasus.
Inoltre ho il timore che la gente in strada oda tale rumore e mi osservi.
Questa sensazione mi incute disagio e soggezione.
È come andare in giro con le scarpe nuove che scricchiolano e cigolano.
wikiHow fa presente che nascondere la cocaina nelle scarpe che cigolano è rischioso, in quanto il rumore attira l’attenzione
Mi è successo una sola volta, per fortuna. In prima media.
È una di quelle cose per le quali da bambino potresti rischiare di essere pestato.
E io ero ancor più preoccupato in quanto piccolo.
Da piccolo ero piccolo. Sembra tautologico, ma il fatto è che mi trovavo un anno avanti gli altri. O un anno indietro, non l’ho mai capito. Insomma, per la mia età ero avanti nel sistema scolastico avendo fatto la primina, ma ero indietro come età rispetto ai miei compagni.
Una volta, con quelle scarpe indosso, stavo attraversando il lunghissimo e vuoto corridoio tra i bagni e l’aula.
L’eco delle mie scarpe sul pavimento cigolava tra le pareti scrostate che custodivano il prezioso amianto di cui sono farcite le nostre strutture. Sgnek sgnek sgnek sgnek. Sgnesgnesgnesgnesgnek. Sgneeeek…Sgneeek…Sgneeek.
Che accelerassi il passo o rallentassi non cambiava molto: se andavo più veloce per arrivare il prima possibile in classe facevo tanto rumore, se andavo piano per esser leggero prolungavo lo stillicidio.
All’improvviso, da un’altro corridoio, dalla direzione opposta svolta l’angolo uno studente di terza. Alto il doppio di me.
Vado avanti facendo finta di niente.
Quando ci incrociamo, lui passa oltre. Poi si ferma e si volta fissandomi le scarpe. Mi volto anche io. Per un attimo lo guardo sperando che passi questo messaggio telepatico: “Rumore? Io non sento niente. Il rumore è nella tua mente”.
Purtroppo non gli arriva la comunicazione o non si convince.
Si avvicina.
Adesso mi mena.
Mi scaraventa giù dal finestrone del primo piano verso il canestro da basket in cortile.
Mi leva le scarpe e le usa per malmenarmi per vedere se cigolano anche contro la mia faccia.
Mi costringe ad ascoltare canzoni di Ivana Spagna.
Invece lui si presenta porgendomi la mano. Era anche pulita, cosa rara per un ragazzino delle medie.
Per un attimo esito, temendo che fosse un trucco per una mossa di aikido. Ma decido di fidarmi. Facciamo conoscenza e chiacchieriamo.
Da quella volta è divenuto il mio amico del corridoio.
Non l’ho mai visto fuori la scuola né in altri luoghi. Lo incrociavo soltanto di passaggio tra i bagni e l’aula e ci salutavamo o facevamo due chiacchiere.
Ero anche convinto che se mi avessero aggredito mentre mi trovavo lì lui sarebbe intervenuto. Difatti non sono mai stato aggredito e non si può escludere che siano stati i benefici della sua amicizia.
A stento ricordo che faccia avesse.
Poi le scuole quell’anno finirono e non lo rividi più.
Forse non è mai esistito.
Forse era lo spettro di uno studente morto tragicamente in quell’istituto.
Forse era un’allucinazione prodotta dal suono ipnotico delle scarpe.
Ho pensato che tutti hanno avuto o hanno una conoscenza “da corridoio”. Un contatto estemporaneo e casuale ma ripetuto che entra a far parte della familiarità pur rimanendo confinato a spazi e tempi limitati.
Sono uscito di nuovo con l’auto tichititteggiante.
Però non si è fermato nessuno a parlare con me, attirato dal rumore.
Da bambino mi è capitato di venir deriso per il mio essere goffo e impacciato e, a tratti, sempliciotto.
Non che oggi io sia meglio, ma l’età adulta ti insegna a mascherare, dissimulare, riderci sopra.
Uno stato d’impasse può benissimo venir camuffato da momento introspettivo: “Non mi sono bloccato, sto riflettendo sul da farsi”.
Ricordo una volta col nonno andai dal tizio che ci vendeva i conigli. Non ricordo il suo nome, per me era solo il tizio che ci portava un coniglio appena giustiziato e ancora caldo che il giorno dopo sarebbe finito sulla nostra tavola.
Lo so, è una immagine orribile, ma si può sopravvivere non pensandoci: il genere umano non ha messo a punto forse il più sofisticato strumento di adattamento ambientale, e cioè l’ignoranza selettiva¹?
¹ Come ci ha ricordato il celebre monologo di Quinto potere: […] Ce ne stiamo in casa e lentamente il mondo in cui viviamo diventa più piccolo e diciamo soltanto: “Almeno lasciateci tranquilli nei nostri salotti per piacere! Lasciatemi il mio tostapane, la mia TV, la mia vecchia bicicletta e io non dirò niente ma… ma lasciatemi tranquillo!” […].
La fattoria del tizio era sulla montagna che copre il versante interno del Vesuvio.
Come ho già raccontato in passato il cono del Vesuvio è sorto all’interno di un vulcano preesistente e che se un versante – quello del lato marino – è collassato, quello che dà sull’entroterra è rimasto in piedi. Il profilo tipico del Golfo mostra il cono del Vesuvio a destra e sulla sinistra uno sperone che appartiene al cratere del cono vulcanico precedente: ho scoperto che molti non Campani si confondono e pensano che l’intera struttura sia il Vesuvio e che addirittura l’avvallamento centrale sia la sua bocca! ¹
¹ Ma anche vari Campani non hanno ben presente la cosa, a riprova del fatto che la geografia oggigiorno sia un’opinione, tant’è che è opinione che non sia il caso di farla studiare a scuola².
² Va detto che se parliamo di conoscere soltanto se la Dora Baltea sia un affluente di sinistra o di destra del Po o quali siano i prodotti tipici di Andorra, forse è limitante. Sarebbe magari utile anche insegnare a Gennaro e Ahmad, compagni di banco, qualcosa sui rispettivi posti di origine.
Di quella scampagnata ricordo soltanto la visita al recinto dei maiali.
Non ne avevo mai visto uno dal vivo e l’incontro fu per me agghiacciante. In primo luogo, non pensavo fossero così grossi. Credo che quelli che vidi avessero le dimensioni di una 500 o almeno nei miei ricordi li rivedo così.
L’odore era nauseante e pur provando a non respirare ti entrava dentro e attivava i recettori dell’olfatto per farsi sentire lo stesso.
Sapeva di vomito stantìo, seppur privo di quell’afrore acido tipico dei succhi gastrici.
David Foster Wallace fu molto più creativo (del resto era David Foster Wallace!): “Pare che la morte in persona si stia facendo una cacata”. Anche se la frase la attribuisce al padre di una sua amica, così almeno racconta in un saggio presente in Tennis, tv, trigonometria, tornado (e altre cose divertenti che non farò mai più).
E io di vomito me ne intendo, avendo in passato nella mia vita perso di vista delle volte il limite oltre il quale la sbronza finisce nel punto di non ritorno.
È un gioco di equilibrio funanbolico sulla lama di un rasoio: un goccio in più, un’emozione forte, un sussulto e finisci poi a implorare che ti aprano il torace con un’incisione a Y per estrarti tutte le viscere e gettarle via.
Insomma, l’esperienza non era delle migliori.
Ero nauseato e terrorizzato da quei rosei esseri e non facevo nulla per celarlo. Avevo paura che saltassero fuori dal recinto e potessero aggredirmi anche perché avevo sentito storie orribili di persone azzannate dai maiali. Ad esempio un operatore ecologico raccontò a mio padre che c’era qualcuno che portava a pascolare i maiali nei dintorni di una discarica; un giorno, dopo aver sversato, mentre era fuori dall’automezzo fu inseguito da uno degli animali che riuscì ad afferrarlo al polpaccio prima che lui si mettesse in salvo al volante.
I nipotini del tizio della fattoria – due bambini all’incirca della mia età – che erano anch’essi presenti al mio rendez-vous suino, ridevano di me. Si facevano beffe dell’imbarazzo di un cittadino ignorante.
E io sarei voluto andare a casa per la vergogna, chiudermi nella mia stanza lontano da loro che sapevo essere migliori di me perché temprati su cose sulle quali io ero un semplice verginello.
L’inadeguatezza è una sensazione che ho provato e provo spesso nella vita e che oggi potrei personificare nella sindrome da Jon Snow: la condizione di non sapere niente.
Ho avuto diversi compleanni, ma un compleanno coatto non mi era mai capitato.
Nel senso di forzato, non inteso come un compleanno de borgata in quel de Roma. Anche se sarebbe interessante.
In ufficio, BB (non Brigitte Bardot) ha controllato i miei dati sul server interno. Data del compleanno compresa. È iniziato, quindi, un mese fa uno stalking di avvicinamento.
– Quindi tra poco è il tuo compleanno!
– Ehm…Sì…
– Che bello! Torta!
– …
Perché sembra nell’azienda ci sia l’usanza di festeggiare con fette di torta. Io ho tentato di fare l’indiano sulla cosa. Ho iniziato anche a parlare inglese con l’accento di Apu dei Simpson.
Pensavo di averla scampata, quando mi sono poi ritrovato sullo Skype interno un messaggio da parte di BB (sempre non Brigitte Bardot):
– Allora, per la torta martedì. Ci saranno tutti in ufficio.
Come. Cosa. Quando. Chi. Per qual motivo? Chi ha deciso?
A me non piace festeggiare il compleanno.
Non c’è un motivo preciso.
Metto in chiaro che non sono uno di quelli che Eh un altro anno che ci avvicina alla tomba! Cosa c’è da celebrare?. Anche perché vorrei far notare a costui tutte le cose che fa che lo avvicinano alla tomba per i rischi che comportano (guidare un’auto. Mangiare junk food. Contraddire una donna innervosita) ma di cui se ne frega bellamente.
Diciamo quindi che in maniera pura e semplice mi rompo i maglioni.
Avrei dovuto farmi trovare pronto con una qualche scusa, del tipo che non festeggio più gli anni da quando, da bambino, il pesce rosso che mi avevano regalato proprio quel giorno del compleanno si suicidò saltando fuori dall’acqua giù dalla finestra finendo in bocca a una signora che stava sbadigliando rischiando di farla soffocare, quando poi arrivò un dottore che le praticò la manovra di Heimlich solo che nel farlo si eccitò e finì con l’oltraggiarle le virtù da tergo e da allora sono traumatizzato.
NOTA ITTICA
È sorprendente il fatto che un animale si suicidi. In realtà non lo fa per quello, forse è per liberarsi dai parassiti oppure perché l’acqua è sporca o per chissà quale altro motivo.
NOTA ALLA NOTA ITTICA
Un paio di pesci rossi che ho avuto – di cui uno ricevuto a un compleanno – hanno provato a togliersi la vita. Uno ce l’ha fatta.
NOTA BENE
A un compleanno – intorno ai 7/8 anni – ricevetti invece, lo stesso giorno, da parenti diversi, un criceto e un canarino. Della cui gestione e manutenzione – e inseguimento perché un paio di volte il criceto fuggì – se ne dovevano occupare i miei genitori, con somma gioia.
Se un giorno avrò dei figli, se qualcuno dovesse azzardarsi a regalare loro animali penso gli farei fare una brutta fine.
A chi ha regalato l’animale.
O forse basterebbe citare il ricordo – questa volta vero anche se la storia della signora sarebbe stata un bell’aneddoto – di quando il giorno del mio quarto compleanno mio padre gettò delle mie macchinine nella pattumiera per punizione perché, nonostante i suoi avvisi, io continuavo a leccare l’inchiostro. Non so perché lo facessi, forse ero ancora in una freudiana fase orale. Mi piaceva soprattutto l’inchiostro del pennarello Carioca usato per disegnare sui palloncini. Aveva un retrogusto ftalato.
Rispetto ad altri rigidi provvedimenti educativi paterni, non ne fui toccato molto. Non piansi e assistetti gelido chiedendomi se, in futuro, io avrei dovuto fare lo stesso – cioè gettare macchinine – con altri bambini. Perchè pensavo che gli adulti fossero un esempio da imitare in tutto e per tutto e ciò che facessero fosse sempre giusto.
Da adulto ora penso che dovremmo prendere esempio dai bambini.
L’anno scorso invece il compleanno lo trascorsi a litigare al telefono.
Ogni chiamata si concludeva con Stammi bene (con tono ironico) o Al diavolo, salvo poi riprendere 5 minuti dopo. Speravo sempre che il motivo per cui richiamasse fosse per accertarsi che stessi effettivamente andando al diavolo o che almeno stessi cercando l’indirizzo (non è che uno vada a trovare il diavolo – che in fondo l’è un buon diavolo – tutti i giorni, quindi la strada non la ricorda), ma invece la conversazione ricominciava da capo, il che mi dava la sensazione di trovarmi come in quei loop temporali nei film dove il protagonista si sveglia al mattino e vive sempre lo stesso giorno e quindi allo stesso modo pensavo di essere entrato in un loop telefonico dal quale sarei uscito forse dopo secoli non invecchiato ma col mondo all’esterno totalmente cambiato governato da del tofu senziente.
È un’idea di un romanzo distopico che ho in mente da un po’. I vegani oltranzisti conquistano il potere tramite un referendum online che passa inosservato perché c’erano i Mondiali di Calcio Virtuale con la Nazionale allenata da Trapattoni (ogni secolo viene clonato un esemplare di Trapattoni partendo da un suo aforisma conservato nell’Archivo Nazionale di Mai dire Gol); come primo provvedimento obbligano a sostituire tutti i pasti con del seitan e del tofu, ma durante delle ricerche in laboratorio per creare del super-tofu in grado di soddisfare qualsiasi necessità fisiologica – sesso compreso – il materiale per gli esperimenti prende vita e, prima come un parassita si innesta nelle menti delle persone infettandole attraverso i loro orifizi, poi dopo comincia a muoversi autonomamente.
In compenso i compleanni altrui li ricordo bene, tranne in un unico caso: ho un caro amico di cui per anni ho dimenticato il compleanno, ma i motivi sono due: il primo che compie gli anni il 10 e un altro amico il 12 settembre e confondevo sempre le date. Ovviamente il secondo era avvantaggiato perché poi mi accorgevo dello sbaglio sul primo. Il secondo motivo è che una volta, nel 2001, lo festeggiò con noi amici il giorno dopo. Così, per anni ho associato il suo compleanno all’11 settembre perché si era venuta a creare una sorta di sovrapposizione di immagini. Che tristezza d’uomo (io).
La morale della storia è: faceva bene il Cappellaio Matto.
Non ho più riportato aggiornamenti sulla mia situazione domestica perché sostanzialmente non ce ne sono.
Io e la nuova coinquilina abbiamo un sano rapporto di completa separazione casalinga. Che è quel che in fin dei conti desideravo. Convenevoli quali buongiorno e buonasera, qualche conversazione oziosa come quando mi ha parlato delle cose che la divertono degli italiani. Le stesse cose che allietano tutto il resto del mondo e ci identificano come popolo folkloristico.
Mi riferisco alla nostra proverbiale teatralità: Che cosa vuoi?! Che cazzo dici?!, accompagnate da ampi gesti delle mani.
Ho sempre trovato questo cartone di un umorismo abbastanza discutibile. Ben si adatta all’epoca odierna in cui tutti si sentono fini umoristi o uomini di satira perché come dei bulli di quartiere pigliano per il culo chiunque.
Myspace -> Tutti musicisti
Blog -> Tutti scrittori
Social Network -> Tutti Bill Hicks?
E poi, con mia sorpresa, mi ha chiesto anche di una bestemmia che diciamo sempre. Non quella suina ma quella canina. Italiano: lo stai imparando bene.
Con la coinquilina cinese la situazione aveva invece preso una piega strana. Troppo intima, se vogliamo.
A volte c’era una familiarità tale che mi sembrava di avere in casa una moglie. Eccezion fatta per l’assenza di qualsiasi tipo di contatto.
Il che quindi è proprio come avere una moglie.
Una moglie poco sveglia che dimenticava sempre di spegnere i riscaldamenti prima di uscir di casa.
Così poi arrivò una bolletta da far saltare le coronarie. Le sue, perché l’avrei impiccata al calorifero in quel momento.
Si scherza.
Io sono per evitare sofferenze. Quindi, una morte più veloce.
Poi era simpaticamente “invadente”. Se guardavo un film nell’area comune veniva a chiedermi cosa stessi guardando, commentando sempre tutto con un Uh, sembra interessante, sia che stessi guardando una minchiata che qualcosa di più serio. Se cucinavo, si piantava vicino a guardare, chiedendomi cosa facessi passo passo.
Il che delle volte mi avrebbe ispirato un commento del tipo Ma una porzione di fatti tuoi te la sai cucinare?, commento che ovviamente tenevo per me, limitandomi ad allontanarla fingendo di avere un disturbo autistico che mi porta ad andare in agitazione se osservato mentre cucino, al suon di Please, don’t watch me.
Potrei dare l’immagine di un tipo forastico (o furestico come diciamo al Sud).
È sbagliato.
Non è un’immagine, io sono proprio così. Posso essere tanto giocoso ed espansivo così come scorbutico quando mi gira male.
La nuova coinquilina invece è praticamente invisibile.
Si comporta come un topo. Esce dalla stanza solo per cibarsi per 5 minuti. Per due settimane non ha fatto altro che nutrirsi di yogurt e cereali, intervallati con qualche uovo o un cetriolo crudo.
Ho pensato che seguisse una qualche corrente alimentare di cui non ero a conoscenza, tipo quella dei breakfastiani, cioè quelli che consumano solo colazioni.
Ormai tutto è possibile. Io un giorno volevo fare una battuta dicendo che prima o poi avremmo avuto quelli che si nutrivano di aria. Dimenticavo l’esistenza invece dei respiriani.
È facile scordarsene perché io non ho mai visto un respiriano vivo.
Perciò, me ne guardo bene dal prendere in giro abitudini alimentari altrui. Che ne sappiamo che non possano esistere, ad esempio, i carboniani? Quelli che, dato che gli esseri viventi sono fondati sul carbonio, ritengono opportuno approvvigionarsi direttamente dalla fonte e che quindi si nutrono di blocchi di grafite? Ha un senso, anzi, da domani mi farò promotore della dieta della matita HB.
Poi mi ha detto che è semplicemente troppo pigra per cucinare e lavare i piatti e io sono rimasto deluso da ciò.
Credo sia molto disordinata. Almeno a giudicare dal fatto che, una volta, stavo per accostare la porta della sua camera prima di mettermi ai fornelli (la stanza dà sulla cucina e non mi sembrava carino impestarla di soffritto dell’arrabbiata) e qualcosa opponeva resistenza. Era una palla di maglioni giusto in mezzo.
Mi sono allontanato prima che mi aggredissero.
Ho un rapporto conflittuale con i maglioni perché da bambino mi costringevano a mettere quelli che pizzicavano e stritolavano. Praticamente era come stare in una Vergine di Norimberga senza neanche il sollievo della morte per porre fine all’agonia.
Da bambino collezionavo berretti da baseball non originali. Dato che quelli griffati costavano troppo mi era concesso comprare solo pseudo imitazioni con nomi improbabili ma americaneggianti, del tipo “Green Skins”, “American University” e via dicendo.
Avevo poi un cappellino Rebook abbastanza misero ma che era il mio preferito, fino a che un giorno in prima media una compagna di classe cui pare io piacessi non se lo strusciò sotto il sedere durante l’ora di educazione fisica.
A me basta un occhio solo per parare, capito?
La cosa andò così: scendemmo in cortile, maschi a tirare calci al pallone, femmine a giocare a pallavolo. Da buon portiere, come era di moda negli anni ’90 e come faceva Benji Price, indossavo il cappello. Non vedevo un cazzo ogni volta che il pallone si alzava, ovviamente, perché la visiera era più grossa della mia testa.
Una compagna – non quella cui piacevo – mi chiese di prestarle il cappello, per il sole. Io glielo cedetti, per fare il galante. Ero un gattomorto già da piccolo.
Dopo un po’, mentre mi godevo la solitudine del numero uno (il calcio da ragazzini funziona così: tutti dietro la palla, tranne il portiere, ovviamente), arriva un gruppetto di compagne agitando il mio berretto e gridandomi Gintokiiiii…N. si è presa il tuo cappello, si è seduta sopra e si è anche strusciata!
Strani metodi per attirare l’attenzione.
Tale compagna dedita a tali strane pratiche di corteggiamento, tra l’altro, era l’unica a 11 anni ad avere già una terza. Non capisco io a cosa pensassi e perché mai io la ignorassi!
Probabilmente la visiera mi impediva di avere una visione corretta degli eventi.
Portavo il cappello ovunque, anche dentro casa. Altrui.
Idem dicasi per la chiesa, dove poi ovviamente me lo facevano togliere e io accettavo di buon grado. Ero fervente cattolico da piccolo, prima di scoprire la pornografia.
Una cosa non l’ho mai capita: perché togliersi il cappello in chiesa?
Una delle prime cose che insegnano è che dio è ovunque.
Quindi avrebbe dovuto essere presente anche sotto il mio cappello.
Forse lì sotto fa troppo caldo quindi bisogna togliersi il cappello per farlo uscire a respirare? Perché allora non vale per le donne? A dio piacciono i capelli delle donne anche se un po’ sudaticci? Anche a me, purché non oltre un giorno dopo lo shampoo e non certo dopo una maratona o una giornata di saldi.
Può sembrare una stupidata (no, tranquillo, non sembra: lo è), ma quando ho provato a fare delle ricerche su internet riguardo questo argomento ho scoperto che molta gente nei forum cattolici si interroga sulla questione “cappello in chiesa”. C’è chi si accapiglia a colpi di Nuovo Testamento vs Concilio Vaticano II. E non sto scherzando.
La tesi su cui concordano costoro è che l’uomo si tolga il cappello per rispetto, la donna lo tiene per coprirsi, come segno di morigeratezza (?)
In loro soccorso a tal proposito giunge Paolo nella prima lettera ai Corinzi, versetti 13 – 15:
13 Giudicate voi stessi: è conveniente che una donna faccia preghiera a Dio col capo scoperto?
14 Non è forse la natura stessa a insegnarci che è indecoroso per l’uomo lasciarsi crescere i capelli,
15 mentre è una gloria per la donna lasciarseli crescere? La chioma le è stata data a guisa di velo.
Ma se oggigiorno in chiesa è accettato un uomo con i capelli lunghi o una donna a capo scoperto, perché non è ancora accettato un uomo col cappello?
Mi risponde ancora Paolo che evidentemente già sapeva di me e del mio essere rompicoglioni:
16 Se poi qualcuno ha il gusto della contestazione, noi non abbiamo questa consuetudine e neanche le Chiese di Dio.
Gli chiedo scusa.
Però vorrei dire: si polemizza sempre sulla Chiesa, che dovrebbe modernizzarsi e aprirsi e quant’altro ma avessi sentito uno, dico soltanto uno, porre la questione del cappello. Io non lo trovo giusto: i diritti dei portatori di cappello che fine fanno se non hanno voce in capitolo?
Ero quindi carico di questi dubbi mentre rimiravo il copricapo che utilizzo qui a Budapest per difendermi dai rigori e dai calci di punizione dell’inverno.
Tranquillizzo tutti i vegani, il pelo non è di origine animale ma di casalinghe di Orzinuovi.
Con un paio di occhialoni potrei sembrare Jet McQuack
Attenzione: questo post contiene tracce di anni ’90. In caso di ingestione accidentale, consultare il medico.
Stanotte ho fatto un sogno. O forse era una visione nel dormiveglia.
Ho visto dei giganti, fatti interamente di cose, oggetti, ciarpame o che altro ancora, che marciavano lungo una pianura infinita con passo lento e incessante.
Dalle mani aspiravano altre cose che sembravano provenire dal suolo. Più i giganti aspiravano più si sballavano accrescevano di dimensioni.
So perché ho visto tutto ciò. Il salmone della cena precedente era avariato.
Sono andato a letto infastidito perché non trovavo più il minuscolo cacciavite che serve per stringere la minuscola vite degli occhiali.
Dev’essere finito in uno di quei Titani della mia visione.
Io lo so.
Le cose che non troviamo più si spostano altrove. E mi rifiuto di pensare che muoiano lì. Tutti quanti abbiamo in testa l’idea che, da qualche parte, esista un gigantesco mucchio inerte di cose perdute dalle persone che se ne stanno lì immobili per l’eternità. È diventata un’immagine cliché. Io invece penso che le cose prendano vita.
A prescindere da ciò, detesto non trovare più un oggetto.
Ed essere anche colpevolizzato per questo, come da bambino spesso succedeva.
flashback primi anni ’90
– Madre, non trovo più il casco di Pistone dei Biker Mice
– Sta dove l’hai messo l’ultima volta
– Ah, sai che non ci ero arrivato? Quindi è questa la famosa saggezza degli adulti, non vedo l’ora di crescere per dispensare anch’io tali perle. Comunque se io lo sapessi pensi starei qui?
– Ben ti sta, allora. La prossima volta stavi più attento se ci tenevi tanto
– Ma certo! Come se uno potesse tenere sotto controllo 24 ore al giorno tutto ciò che gli appartiene. E poi quando porto Pistone a tavola tu me lo fai posare, quindi o assumiamo delle guardie per sorvegliare i giocattoli oppure da oggi in poi non si esce più di casa per non perdere di vista nulla.
Pistone – Fonte: prevalentementeanimemanga.net
Non solo hai quindi perso una cosa preziosa o che ti serviva, ma devi sorbirti pure una reprimenda, come se non fosse già abbastanza.
Un discorso a parte ci vorrebbe per “Cose che non trovi più a causa di Madri troppo solerti”. Preda del raptus della pulizia, infatti, iniziano a far sparire tutto ciò che si trovano davanti.
flashback secondi anni ’90
– Madre, dove sono le mie copie di Tutto Musica?
– Nella spazzatura. Stavano lì buttate a pigliare polvere, ho pensato non le volessi più
– Madre, erano conservate nella libreria infilate in ordine di uscita!
Il casco di Pistone dei Biker Mice di certo era finito nel gigantesco Titano dei giocattoli perduti dai bambini.
Devo però ancora decidere se i Titani sono eterogenei, cioè formati da diverse tipologie di oggetti, oppure omogenei, cioè composti per categorie (giochi, vestiti, ecc.).
Nella seconda ipotesi allora esisterà un Titano di dimensioni planetarie, il più grande di tutti: quello composto dagli accendini perduti dalle persone.
I Titani però non prendono soltanto. Restituiscono anche. Quando un bel giorno, all’improvviso, ti ritrovi davanti la cosa che avevi perso, puff! vuol dire che il Titano non ha più quel pezzo con sé. Ma il saldo tra oggetti acquisiti e quelli restituiti è sempre in attivo, quindi i giganti tendono sempre a crescere, come un debito pubblico.
Anche lì si tratta di cose perse – i soldi – solo che in quel caso è certo che nessuno le rivedrà mai.
Pensavo fosse ancora presto. A dire la verità neanche ci pensavo, fingendo di ignorare il problema. Invece stanno per arrivare, lo sa anche Gandalf, visibilmente preoccupato.
Roma. Via del Plebiscito. Ore 20.
Ho visto una vetrina addobbata a tema natalizio, con tanto di albero.
Forse non è neanche la prima, di certo a breve seguiranno le altre.
Non ricordo più quando il Natale ha cominciato a iniziare quando lo decidono i negozi. Forse è sempre stato così e non vi ho mai fatto caso. Da bambino credo che comunque il lungo periodo natalizio partisse quando lo decideva la tv.
In compenso ricordo benissimo che in casa da qualche anno inizia quando Padre comincia a lavorare al presepe. Ogni volta ne costruisce uno lui pezzo per pezzo, interamente in sughero. Si è specializzato nel ricreare piccoli borghi medievali in cui inserire la natività. Di anno in anno il lavoro diventa sempre più certosino e quindi deve iniziare sempre prima. Quest’anno credo sia partito ad agosto.
Qualcuno domanderà: ma che problema hai col Natale?
Nessuno, proprio nessuno. Mi sta simpatico e conosco uno che si chiama Natale, delle nanerottole che andrebbero benissimo come aiutanti di Babbo Natale e poi mi piacciono gli alberi.
Agli italiani non bisogna toccare le luci di Natale, l’Italia (ma solo all’estero perché in Italia invece ne parlano sempre male) e il cibo.
È questa cosa del tempo! Non fate correre il tempo! Che problema avete? Perché affrettate le cose?!
A proposito di tempo: sarà stata una coincidenza, ma la vetrina natalizia l’ho avvistata proprio oggi che la temperatura è scesa in maniera sensibile. Per la prima volta, dopo lungo tempo, ho avvertito una punta di fresco.
So che c’è gente che si imbacucca già come se dovesse partire per una spedizione per l’Antartide, ma io un problema con la regolazione della temperatura corporea interna. Avverto il caldo molto facilmente. Ingerire cibo aumenta inoltre istantaneamente la mia percezione del calore. Sono una centrale termica, in pratica.
È per questo che da ottobre e per i mesi successivi – fino all’arrivo delle ondate siberiane – mi vesto a cipolla.
Nel senso che il mio stile fa piangere.
Sono a corto di eventi curiosi da narrare, la cosa più interessante che ho fatto in questi due giorni è la visita di idoneità agonistica.
Non sono in genere ansioso durante le visite mediche ma ero preoccupato che uscisse fuori qualcosa che non andava. Può capitare quando l’ultimo ECG l’hai fatto 15 anni fa.
E dire che sono un sostenitore della medicina preventiva. Dal mio punto di vista il medico non è uno specialista da cui farsi visitare solo quando si sta male: beninteso, fare esami inutili non serve a niente ed è controproducente, ma ci sono alcune cose – come cuore, colesterolo, organi riproduttivi – che a mio avviso ogni tanto andrebbero controllate in via preventiva.
Da bambino, situazione abbastanza comune, avevo un soffio al cuore, sparito con la crescita.
Non avevo idea di cosa fosse: il cuore soffiava? Tipo i gatti? O c’era qualcuno che soffiava sul cuore (sembra il titolo di un romanzetto: Qualcuno soffiava sul suo cuore, il nuovo libro di Favio Bolo)?
Finché un giorno una dottoressa gentile non mi ha spiegato che cosa fosse.
Anche se quella del medico è una figura ‘neutra’, non collegata quindi a un sesso, nella mia vita ho riscontrato che i medici donna sono in genere più gentili e simpatici dei colleghi uomini.
L’altra caratteristica è che il mio muscolo cardiaco è un po’ più spostato a sinistra del normale. E non è una metafora politica per darmi del comunista.
Lo studio dove ho svolto la visita era alquanto lontano da dove abito, praticamente la parte opposta di Roma (non conoscendo nessuno avevo chiesto in Federazione di indicarmene uno. Ho chiesto alla persona sbagliata perché il coach invece ha poi indicato altri studi più vicini, con delle dottoresse, tra l’altro!). Ho trovato buffo attraversare la città con un vasetto della mia urina – mi era stato chiesto il campione – nella borsa. Ho temuto per tutto il tempo che si aprisse e si spargesse o che oppure a me venisse un colpo all’improvviso e le ultime cose che avrei avuto con me sarebbero state un libro di Michael Chabon (bellissimo) e un campione di urina.
Ho smesso di pensare al mio campione – campionissimo! – quando due signore hanno iniziato a battibeccare sull’autobus.
All’improvviso, infatti, si era diffuso sul mezzo un odore simile a quello dello spray insetticida per mosche, abbastanza fastidioso. Una delle due signore ha accusato un gruppo di turisti – tedeschi, credo – saliti in quel momento di aver sparso tale puzzo. Forse era una specie di amuchina o forse loro non c’entravano nulla.
Signora 1: Guarda questi, vengono in Italia e pensano che c’abbiamo le malattie, je facciamo schifo, si dovrebbero vergognare, che schifo
A essere sincero pure io ho paura di prendere malattie sui mezzi pubblici: credo vengano lavati all’interno solo quando piove approfittando del fatto che le guarnizioni dei finestrini perdono acqua.
Signora 2: eh ma Roma fa schifo, guardi, io me ne sono andata…
Signora 1: ma che cazzo c’azzecca Roma, c’avete sempre in bocca Roma Roma Roma, se non je piace se ne vada e non rompa i cojoni
Signora 2: ma non ce l’ho con Roma o i romani, ma lei è una stronza, dico è colpa di chi l’ha ridotta così, è colpa loro
Signora 1: macché loro, questi non so del Terzo Mondo, sono bianchi, parlano inglese, ma che cazzo dice
Veramente anche nel “Terzo Mondo” si parla inglese, Signora 1 forse lo ignora.
Signora 2: ma che cazzo ha capito, io parlo dei politici
Signora 1: eh e chi li ha votati, io no di certo, forse lei
Signora 2: e manco io, ma guarda questa
Insomma sono andate avanti così e io pensato che le città fanno schifo perché la gente è sempre rissosa e irascibile come delle bertucce.
Chiedo scusa alle bertucce per la battuta poco felice su di loro.
Allo studio sono arrivato in largo anticipo e ho potuto dare un’occhiata all’arredamento. In un post di qualche tempo fa mi sono soffermato a analizzare la bruttezza dei quadri delle sale d’aspetto degli studi dei medici generici.
Una categoria a parte è invece rappresentata dagli studi di dottori specializzati in chirurgia estetica: rimango sempre colpito dalla loro pacchianeria.
Non frequento studi di chirurgia estetica; capita, come in questo caso, che lo specialista che debbo vedere sia ospitato in tali ambienti.
Questa qui è la reception, molto sobria:
Ma nulla in confronto alla beltà e alla leggiadria di questa imitazione in plastica di una scultura di un torso di donna dalla tonalità rosso cremisi variegato, posta accanto al divanetto della sala d’attesa:
La visita è stata breve ma intensa. Il mio cuore è a posto. Almeno fisicamente. Quasi speravo vi trovasse qualche stranezza e la spiegasse. Ad esempio il perché diventi così rumoroso quando si tratta di donne.
Ricordo un episodio, quando feci preoccupare una ragazza. La stavo abbracciando da dietro – niente scene erotiche, era un abbraccio puro e Castro (essendo come detto il cuore spostato a sinistra); ci piacevamo ma era ancora quella fase di attesa della prima mossa. All’improvviso il mio cuore iniziò a martellare come un muratore bergamasco. Lei si staccò e si girò dicendo: Ma hai il batterista dei Nile nella giacca o sei solo contento di abbracciarmi?
Dato che forse li abbiamo presente solo io e Zeus, allego un file esemplificativo delle virtù musicali dei suddetti Nile:
Io credo di aver balbettato qualcosa e poi aver indicato un piccione morto per distrarla. Quando la riabbracciai lei poi mi disse: Ma mi fai preoccupare, non è che ti faccio venire un infarto?
Il cuore è strano. E poi ha questo vizio di fare scherzetti al cervello: sempre quando si tratta di ragazze, si diverte a premere sull’arteria che va verso il cranio cosicché la testa comincia a comportarsi in modo poco lucido per la mancanza di ossigeno.
Come si suol dire sempre: il cuore ha le sue minchiate che la ragione poi se ne sbatte.
Chiusa la parentesi cardiovascolare, sull’autobus del ritorno mi è capitato di cedere il posto a una signora e lei, facendo l’espressione che di solito si fa quando si guarda un neonato o un gattino in una cesta, ha esclamato: Ma che carino!
E allora ho pensato che le città non facciano proprio tanto schifo.
* La “violazione di passi” (o più comunemente soltanto “passi”) è tra le violazioni più comuni nel basket: è il movimento di uno o di entrambi i piedi mentre il pallone è trattenuto tra le mani.
Osservando la mia scarpiera (se ne avessi una, perché in realtà le mie scarpe sono sparse tra Casa Romana e Terra Stantìa) si potrebbe dire che io sia un grande sportivo. Ho due paia di scarpe da corsa, un paio di scarpe da calcetto e un paio di scarpe da basket.
In verità sono uno sportivo tarocco, a partire dalle calzature: un paio di quelle da corsa e quelle da basket le ho prese in saldo, le restanti sono cinesate delle cinesate: perché già normalmente le scarpe sono prodotte in Asia, queste qui sono una versione asiatica di quelle fatte in Asia, in pratica un subappalto di mediocrità.
Inoltre con lo sport ho soltanto dei rapporti occasionali, che capitano quando desideri sport ma non hai voglia di impegnarti in una relazione seria con lui.
Constatato ciò, mi sono iscritto due settimane fa a un corso serale da arbitro di pallacanestro, tenuto da un arbitro che sembra un personaggio di Corrado Guzzanti, sia come aspetto fisico che come modo di parlare e fare commenti. Forse è realmente Guzzanti che prova un suo personaggio prima di proporlo in televisione o teatro.
Dopo due lezioni ho capito una prima cosa: l’arbitraggio è un misto tra una danza e un’arte marziale. I movimenti sono decisi e netti come quelli di Steven Seagal che sgomina una banda, ma eleganti e raffinati come Roberto Bolle.
Poi nel caso a fine partita ti volessero menare sarebbe meglio essere più pratico di aikido che di Lago dei cigni.
E poi c’è la questione del fischio, che deve essere forte, sicuro, incisivo, tagliente. Ah regà, na lama! Na lama! – Ha urlato al corso Corrado Guzzanti. In poche parole, deve essere un fischio maschio senza raschio.
La domanda che uno potrebbe porsi è perché mai la decisione di fare l’arbitro.
In verità mi trovo in un periodo di cambiamenti, di riflessioni (e di flessioni per mantenere una forma fisica accettabile) e pensieri e quindi niente di meglio di fare un qualcosa che tenga occupati, permetta di fare un po’ di movimento e dia anche modo di lavorare sulla personalità. In pratica è un po’ come fare un corso di yoga però col vantaggio che è gratuito.
La superficie di cannucce di bambù sottostante è la tovaglietta che uso per mangiare, gentilmente concessa da Coinquilino in usufrutto.
Mi sono accorto che è il terzo post di fila il cui titolo è introdotto da “Non”. È casuale, ma ora ho deciso di proseguire per questa strada e pubblicare solo post con il “Non”. Spero di riuscirci il più a lungo possibile e non essere vittima dell’ansia da prestazione. Un po’ come quando da bambino impari ad andare in bicicletta da solo: ti riesce finché non ti rendi conto che Ehi! Sto andando in bicicletta da solo! E quindi cadi.
L’esempio della bicicletta è di vita vissuta ma potrebbe non essere esemplificativo abbastanza perché non so come sia stata per gli altri la prima volta sulla bicicletta. Magari è successo soltanto a me, da buon sportivo tarocco.
Ma cosa c'è dentro un libro? Di solito ci sono delle parole che, se fossero messe tutte in fila su una riga sola, questa riga sarebbe lunga chilometri e per leggerla bisognerebbe camminare molto. (Bruno Munari)
Come quelle coperte, formate da tante pezze colorate, cucite insieme tra loro.
Tessuti diversi, di colore e materiale eterogeneo, uniti in un unico risultato finale: la coperta.
Così il mio blog, fatto di tanti aspetti della vita quotidiana, sempre la mia.