Non è che siccome suonano uguale “addetto vendita” e “ha detto vendita” siano la stessa cosa

Cerco di avere sempre la massima solidarietà verso chi lavora, soprattutto per coloro i quali non percepiscono stipendi eccezionali, magari anche sottopagati, faticosi e al contatto con il pubblico che, si sa, non è sempre la cosa più piacevole del mondo.

Ciò nonostante, le mia capacità di resistenza e di empatia a volte sono messe a dura prova dagli addetti vendita che hanno il costume di prendere d’assalto il cliente.

Sono conscio che certi atteggiamenti siano frutto di logiche e pressioni aziendali, che spingono per il vendere! fatturare! a ogni costo e che magari il povero dipendente ne farebbe volentieri a meno.

Però per tal motivo ci sono punti vendita in cui non entro mai e quella volta che ci entro mi ricordo perché non voglio mai entrarci. Su alcuni ho la croce nera da anni, ad esempio quello dove gli addetti vendita sono vestiti da arbitri.

L’altro giorno invece sono entrato, ed era più di un anno che non ci andavo (e poi ho ricordato il motivo), in un negozio di una nota catena di vendita console&videogiochi. Ero entrato per una console. Alla fine ne sono scappato e l’ho comprata nel negozio di elettrodomestici di fianco.

Sono stato preso d’assalto dalle due addette, che non mi hanno mai lasciato in pace proponendomi qualunque cosa. Sconti, offerte, tessere, promozioni. Quando ho preso il cellulare dalla tasca mi sono anche sentito proporre una custodia trasparente per sostituire quella che ho a libretto. “Così puoi goderti l’aspetto del tuo smartphone”, mi ha detto.

I famosi telefoni da contemplazione, immagino. Quante serate davanti al telefonetto mentre fuori piove e fa freddo!


È chiaro che si fa di tutto per vendere. Quando ho svolto volontariato per una onlus sui banchetti di fiori e uova le provavo tutte per avvicinare le persone. A un certo punto ho anche gridato, come slogan, rivolto a una coppia: Cioccolato? Migliora l’umore, fa bene all’amore!, facendo pubblicità ingannevole sulle presunte caratteristiche antidepressive e afrodisiache del cacao.

Per la cronaca: non si fermarono a comprare. Però hanno riso di gusto.


 

Non è che i Puffi siano azzurri perché del Napoli

Sono sempre stato per lo più uno sportivo da divano. Da adolescente mi limitavo alla partita di calcetto del sabato, appuntamento fisso per garantirsi di avere durante la settimana seguente un trauma contusivo/distorsivo di cui vantarsi. Anni dopo ho iniziato con la corsa ma non è mai stato un amore tra di noi. Era più un rapporto di convenienza: sto con te per tenermi impegnato.

Poi è arrivato il nuoto, poi la palestra. Attualmente mi divido tra nuoto e kickboxing e aspetto di riprendere, se la bella stagione finalmente arriva, corsa/ciclismo.

I veri ciclisti o i veri runner escono con qualsiasi condizione climatica. Ma qui subentra in me quel discorso di sportività da divano, dove ci si entusiasma per una Parigi-Roubaix sul pavé nel fango e nel letame di vacca o un Passo Pordoi al Giro d’Italia in mezzo alla neve ma non si imiterebbe mai una cosa del genere.

Lo sport davvero mi emoziona. A volte, quando voglio crogiolarmi in piacevole commozione positiva, rivedo il video di qualche impresa: un oro della Pellegrini, il mondiale di Zolder di Cipollini 2022, la 4×100 di atletica di Tokyo 2020 (che poi era 2021).

Siamo abituati, in genere, a differenziare tra sport più puri, onesti o nobili e il calcio; sia perché quest’ultimo è quello con più danaro e interessi economici, sia perché identifichiamo il calcio con una parte di suoi sostenitori: fanatici, violenti, xenofobi.

In realtà nessuno sport è immune dai mali della società. I peggiori disonesti, imbroglioni, scorretti si possono ritrovare tra gli atleti di qualsiasi disciplina. Tra l’altro non sono sicuro che alcuni atleti di altri sport sia delle persone migliori con cui avere a che fare rispetto a un calciatore. Alla fine sono tutti esseri umani, noi assistiamo ai loro sacrifici, alle loro sconfitte e alle loro vittorie, alle loro gioie e i loro pianti come fossero attori sul palco di una tragedia. Perché lo sport è una tragedia greca, attraverso gli atleti noi viviamo la nostra purificazione.

Indubbiamente almeno nella nostra società è il calcio il maggior veicolo di passioni e pulsioni: c’è chi nel difenderlo scomoda Pasolini, io lo lascerei comodo invece perché – poveretto – già troppo spesso viene chiamato in causa e mi chiedo, se fosse vivo oggi, quante persone realmente che lo tirano in ballo sarebbero sue fan.

Tra le passioni di massa il calcio resta (non so per quanto tempo) con le sue sacche di resistenza ancora un qualcosa di genuinamente viscerale, laddove altri sport danarosi e blasonati come il basket NBA o la F1 sono più che altro in gran parte uno spettacolo per ricchi annoiati.

È per questo che per me vedere lo scudetto del Napoli è assistere e partecipare a una grande comunanza di questa visceralità positiva, da anziani a bambini, ragazze e ragazzi, lì, insieme, gioiosi e felici della medesima cosa e che trovano un’identità e una dimensione diverse da quelle, divisive, create dai ruoli della vita quotidiana: famiglia, lavoro, scuola, eccetera.


Credo che sociologi diversi si siano dedicati ad analizzare questi fenomeni: lascio a Google o a ChatGPT trovare materiale esplicativo.


Ed è solo ed esclusivamente questo il senso da attribuire all’evento, laddove la retorica e chi la esprime vogliono infilarci discorsi sociali di riscatto: perché, chi ci ha sequestrati?

Tutto questo per dire che in mezzo a questo teatro di purificazione e autoaffermazione mi son commosso e ho pianto. Io sono qui, io sono con gli altri, noi siamo.


Restando sul discorso sociologico, tutto questo che viene percepito sia dai suoi partecipanti che dai suoi detrattori come una forma di esplosione ribelle (in positivo per chi festeggia, in negativo come caos dell’ordine quotidiano per chi la odia) è in realtà quanto di più conformista ci possa essere: viviamo in una società che da un lato reprime le nostre pulsioni, dall’altra, tramite l’utilizzo dei professionisti dello sport, ci permette di viverle con dosi di intrattenimento. Ma di qualcosa bisogna pur farsi.

E voi cosa volete?
Di che cosa vi fate?
Dov’è la vostra pena?
Qual’è il vostro problema?
Perchè vi batte il cuore?
Per chi vi batte il cuore?
Meglio un medicinale
O una storia infernale?
Meglio giornate inerti
O dei capelli verdi?


Non è che ti senti Dustin Hoffman

Alla fine, andoqque come doveria andare. A 12 anni di distanza dall’ultima, mi sono laureato di nuovo, per la terza volta (la seconda per quanto riguarda una laurea magistrale, specifico sempre). Questa volta in Scienze Storiche.


Che non sono delle scienze così famose da essere passate alla storia.


È stato molto bello. Soprattutto, credo di essermi goduto in misura maggiore la soddisfazione perché ho portato avanti lo studio per puro piacere. Non che all’epoca qualcuno mi avesse obbligato a iscrivermi all’università o non mi piacesse il percorso scelto. Però è diverso. Quando sei ancora fresco di liceo e ti iscrivi all’università si tratta di una cosa che svolgi come una sorta di dovere della tua vita, quantomeno per la vita che hai scelto. In questo caso, invece, nessuno mi correva dietro o di fianco per iniziare e concludere gli studi e un mio percorso di vita già ce l’ho.

È stata anche una bella soddisfazione esserci riuscito nei tempi: da settembre 2020 ad aprile 2023 non è poco, considerando che non ho più il tempo libero che avevo nel 2011.


Leggasi: ero molto più giovane e sfaccendato.


È strano ripensarmi 12 anni fa. Avevo tanto da fare e imparare: non che io adesso sia uno imparato, s’intende. Però diciamo che posso magari insegnare qualcosa al me stesso di quel tempo.

Non ho fatto alcune cose che volevo fare ma ho fatto alcune cose che non pensavo di fare.

Nel 2011 mi aggiravo nel mondo del lavoro mostrando entusiasmo per qualsiasi colloquio; Sì davvero sarei felicissimo di lavorare per la Sbiancamenti dentali e anali Inc., una azienda seria (non riceve visite dalla Finanza da almeno una settimana) dalla storia semestrale, era il mio sogno sin da bambino prima ancora che esisteste e ora potete realizzare il mio desiderio; stipendio? No non mi interessa, io sono qui per imparare e crescere, la crescita è importantissima per un giovane!.

Nel 2011 scrivevo per delle testate giornalistiche locali. Ovviamente gratis. Ma se volevi ti avrebbero fatto avere il tesserino!,  mitico riconoscimento. Bastava chiedere. E pagare.


Sorvoliamo su metodologie da reato penale.


Nel 2011 mi piacevano meno cose da mangiare rispetto a oggi.

Nel 2011 guardavo un sacco di anime e andavo alle fiere del settore.


Non che non mi piacerebbe andare oggi a qualche fiera: però ora che sono estese a un mondo fatto di meme e tendenze, comprensive di influencer, content creator, famolostrano inventor, mi trovo più rilassato ad andare direttamente in una libreria, fumetteria o museo del fumetto rispetto a sopportare di farmi largo tra folle che sono lì per il fenomeno virtuale del momento.


Nel 2011 volevo trasferirmi altrove ma, non so perché, avevo questa predilezione per le cittadine formate da 4 case in croce. Credo di aver risposto ad annunci dei posti più sperduti e dimenticati dall’ortodonzia. Probabile che io andassi alla ricerca di un certo isolamento. Non dovevo certo essere proprio un allegrone.
Alla fine in questi anni ho vissuto fuori ma in città un po’ più estese di 4 case: Roma, Budapest, Milano. Un brevissimo periodo anche Barcellona. Ed è stato molto meglio così.

Non so cosa farò nei prossimi 12 anni: non so manco cosa farò nei prossimi 12 mesi. Figuriamoci. Forse mi iscrivo a teatro. Forse farò un corso di cucina. Forse aprirò un bistrot e farò lo chef. Forse mi compro una Ducati. Forse riprendo gli studi di ingegneria aerospaziale interrotti a 19 anni. Forse prendiamo un gatto. Forse compriamo casa. Forse è presto per capirlo. Forse è tardi. Se fossi gatto, miao. Se fossi cane, bao. Se fossi tardi, ciao.

Non è che un agente segreto prenda i medicinali alla farma-CIA

Alcune considerazioni sparse.


Sulla seconda pagina della mia agenda ho scritto Al lavoro: ricordarsi sempre di tacere. Non ricordo perché la scrissi, ma è una cosa che funziona. Non è un invito a starsene silenziosi e remissivi come un ficus benjamin che in un angolo non si decide a seccare definitivamente, è uno schema di salvaguardia: di sé stessi, intendo. Bisogna stare attenti a quel che si dice, perché poi qualcun* (e c’è sempre) apparirà all’improvviso, sorprendendovi come un mal di pancia appena avete fatto il vostro ingresso in un luogo che non potete abbandonare immediatamente, dicendovi che quella volta avete detto che….Quindi, tacete.

Ho un caro amico che non ne può più dell’azienda dove lavora. Diciamo che è un rapporto che, dopo l’entusiasmo iniziale, non si è mai impostato benissimo per una serie di ragioni professionali. Cui va aggiunto il fatto che il mio amico non riesce proprio a farsene una ragione – ed è lì ormai da 3 anni – che i colleghi parlino in dialetto e bestemmino ogni tre per due. Per la cronaca: il mio amico sta in Veneto. Vorrei dirgli forse che si è trasferito nella regione meno adatta.

Ho un altro caro amico, del quale forse ho già parlato, che ha l’ansia per conto terzi. Quando lui non ha l’ansia per sé stesso – e ne ha solo che non lo ammette e non lo ammetterà mai -, ce l’ha nei confronti degli altri. Gli racconti che non si trovano librerie da IKEA perché sono esaurite in magazzino e tu ne stavi cercando due-tre per sistemare casa? Lui: «Ah e questo è un bel problema, e ora come fate? Come le trovate delle librerie?» Gli racconti che devi partire e prendere il treno? Lui: «Ah ma vedi bene se poi trovi traffico arrivi tardi perde il treno ma non ti conviene partire il giorno prima bla bla», e via così. Se uno non lo conoscesse penserebbe che voglia portare sfiga, in realtà è semplicemente naturale: a lui in automatico parte il pensiero che le cose andranno male o che un imprevisto possibile diventerà altamente reale. La mia filosofia di vita è lasciare che le persone, se non arrecano danno a sé stessi e/o al prossimo, si sentano libere di essere come siano, se si trovano bene a essere così. Quindi quando lui parte con i messaggi ANSIA faccio spallucce e dico «In qualche modo si risolverà». Anche se, delle volte, mi incazzo perché penso ma davvero ci si trova bene a stare così? Ma forse anche a me viene l’ansia ingiustificata.

Rimango sempre colpito quando in farmacia fanno lo sconto. È una cosa cui non mi ci abituo mai né che mi lascia contento: sarà che non è che in farmacia uno ci va come se entrasse in una pasticceria. Forse sono un ingrato.

La settimana scorsa invece ho pagato l’assicurazione dell’auto. Dopo una strisciata di POS che mi ha alleggerito di un bel po’ di denaro, me ne sono andato dall’agenzia salutando e ringraziando. Appena uscito in strada mi sono chiesto cosa mai avessi io da ringraziare visto il salasso subìto.

Venerdì ho la seduta di laurea. Sarà una bella liberazione. Intanto però dovrò cominciare a pensare in quale nuova attività io debba cimentarmi in futuro.

Non è che il Voodoo Chile sia una religione di un Paese sudamericano

Credo qualche post fa io avessi già parlato del non distruggere le convinzioni altrui; in particolare, mi riferivo alla convinzione di Padre su una bottiglia di vino che credeva gli avessi regalato io.

Oggi ho ripensato a questa cosa. Stavamo conversando riguardo Jimi Hendrix e lui mi ha parlato di un brano che il chitarrista ha composto con Curtis Knight: Ballad of Jimi del 1965, in cui uno dei due protagonisti del testo della canzone a un certo punto della storia muore. Five years, this he said, he’s not he’s just dead, recita il testo.

Jimi Hendrix in effetti è morto nel 1970: come tante storie leggendarie intorno al rock – questa forse è più di nicchia – anche questa ha circolato, sulla base dell’idea che la canzone abbia predetto la morte di Hendrix.

In realtà tutto ciò è falso: quella del 1965 è una demo e aveva un testo diverso che è stato cambiato in studio (inserendo la cosa dei cinque anni), con altri arrangiamenti, dopo la morte di Hendrix.

Padre non è tipo da credere alle leggende metropolitane, però in questo caso crede realmente che la canzone con la “predizione” sia del 1965 e trova pazzesca la coincidenza.

Conoscevo vagamente la storia, ho poi cercato informazioni appurando, per l’appunto, che non corrisponde al vero. Ma non dirò a mio padre come stanno le cose. Alla fine le storie che raccontiamo sono parte di noi, soprattutto se l’argomento ci interessa. Padre ad esempio è un grande appassionato di Jimi Hendrix.

Tutti noi conosciamo dei fattoidi, aneddoti o credenze che nella realtà sono diversi da come immaginiamo. Delle volte siamo consci della loro non veridicità, altre volte no. Ci sono fattoidi buoni o, per meglio dire, innocui, e altri che invece sarebbe il caso che si estinguessero.

Mi ricordo diversi anni fa ero convinto che nel Pantheon nonostante l’oculo non piovesse dentro, come fattoide appunto vuole. Raccontai questa cosa anche a una mia amica giapponese, che una volta venne in visita a Roma – credo fosse il 2013 – e mi chiese il favore di accompagnarla. Spero non abbia mai scoperto la verità. Oppure magari non gliene fregava niente ma le destò ammirazione la mia conoscenza.

Meglio fattoidi che fattoni, in questo caso.

Non è che ci sia cura per la rabbia

I balconi si stanno tingendo di azzurro anche qui in provincia, più lontano dal centro storico. Confesso che, pur essendo tifoso, lo trovo anche io un po’ eccessivo. Quantomeno aspetterei che fosse ufficiale, dovrebbe essere questione di un mese.

Però, d’altronde, se male non arreca a nessuno, quale è il problema?

Una volta sentii qualcuno (in realtà più di qualcuno) dire: con tutti i problemi che ci sono, che c’è da festeggiare?

In realtà io credo che proprio perché ci sono tutti questi problemi forse forse trovare qualcosa per cui entusiasmarsi non sia un male.

Sono questioni molto complesse. L’intrattenimento non può e non deve diventare un oppiaceo o peggio un bel fettone di prosciutto sugli occhi. Anche però l’esser negativi non può e non deve diventare una pillola da assume giornalmente con la quale avvelenarci il fegato per dover espiare una qualche forma di colpa che ci portiamo addosso, per non sentirci in difetto se per un giorno ce ne dimentichiamo.

Le persone stanno male. Ne sono sempre più convinto. E me ne accorgo, più che dai rimedi palliativi con cui si drogano, dalla rabbia che hanno e che esternano.

Oh, io non sono un monaco zen e non faccio eccezione. Vorrei poter sparare onde energetiche dalle mani. Però, ecco, c’è rabbia e rabbia. Pur dando per scontato che sia sempre sbagliata e che un corretto esercizio della forza non deve implicare per l’appunto l’azione rabbiosa, stabiliamo che esistono frangenti in cui sia non dico giustificata ma quantomeno comprensibile.

Ti bloccano il cancello con una sosta selvaggia mentre devi correre al pronto soccorso? Hai perfettamente ragione ad arrabbiarti.

È la rabbia indistinta, quella generalizzata, quella contro dei nemici astratti, che non trovo invece comprensibile.

È la rabbia per frustrazione, perché, pur vivendo in una società che ci permette di avere tante cose, facciamo spesso una vita di merda. Un lavoro di merda. Subiamo spese di merda.

Tutto ciò, però, mi dispiace ma non è colpa di chi festeggia uno scudetto in anticipo o dell’autorizzazione alla farina di insetti o della Sirenetta afroamericana. Certo, ognuno ha le proprie priorità e preoccupazioni: la mia sarebbe avere la certezza di godere tra 30-40 anni (visto che penso di essere giovane e di avere una discreta aspettativa di vita) ancora di acqua potabile. La paura di qualcun altro (che magari tra 30 anni manco ci sarà), oggi, è che magari “visto l’andazzo” (quale andazzo?), si troverà un giorno circondato da perbenismo senza poter essere più libero di dire ne*ro di merda. Sono scelte. Dovrebbe vincere l’acqua tutta la vita rispetto al razzismo, ma son scelte.

Non mi sento di arrabbiarmi con questa persona. Per lo meno non sempre, ci sono dei giorni in cui vorrei invece l’onda energetica di cui sopra. Mi sento però il più delle volte semplicemente di dire Mi dispiace.

Mi dispiace perché quelli come me, presunti progressisti, che si ammantano di un’aura di intellettualità dall’alto di un pene, sono in realtà individui sostanzialmente incapaci di esprimersi in modo assertivo. Colpevoli di aver lasciato che tante persone si arrabbiassero, magari perché qualcun altro – che assertivo manco è ma non gliene frega niente, punta sulla forza dell’urlato – gli aveva detto di farlo.

Cosa si può fare, ora? Non ne ho idea. Facciamo che per oggi vado a prendere dal fondo del cassetto la mia sciarpa azzurra e domani vedo.

Non è che ti serva un pugile per stendere i panni

Ieri ci siamo ritrovati una mutanda, alquanto striminzita (un tanghino direi), sul balcone, piovuta da uno stendipanni dei piani superiori. L’abbiamo gettata nei rifiuti.

Convenivamo che, avendo 3 piani sopra di noi, non volevamo girare di domenica mattina (ma anche fosse stato un lunedì) bussando alle porte per chiedere chi fosse la proprietaria o anche il proprietario (metti caso) perché l’antica mutanda andava portata in salvo. Può essere anche una situazione imbarazzante per chi apre la porta e si vede davanti uno con in mano il proprio tanghino. Magari alla gente non piace o è gelosa della propria privacy.

L’episodio, così in fretta liquidato, mi ha invece immerso in dei dubbi morali.

Pensavo, se la proprietaria (o il proprietario) nel raccogliere i panni ha notato la sparizione forse sarà ora ancor più in imbarazzo perché pensa che c’è qualcuno nel palazzo in possesso della sua mutanda.

Anche gettare il capo nei rifiuti, ripensandoci, forse non è stata una buona azione: va bene che non sembrava certo un capo costoso però magari ci teneva per un qualche motivo. Liberatevi dei tangheri ma non dei tanghini. E il dubbio di coscienza che mi viene è: se fosse stata una mutanda tipo de La Perla, che hanno un rapporto di inversa proporzionalità tra dimensione e prezzo, l’avrei gettata? Non credo.


No, in quel caso la mettevo in vendita su internet al doppio del valore fingendomi una modella.


Quindi la discriminante è il valore del capo? Un maglioncino a collo alto sì, una mutanda no? Siamo diventati così materiali? Che tempi, signora.

La soluzione agli inconvenienti sarebbe, secondo me, che in un condominio venisse posizionata una scatola degli oggetti smarriti. Uno va, di notte magari, con impermeabile e cappello, a depositare l’oggetto o il capo rinvenuto. Chi ha smarrito qualcosa passerà, sempre con aspetto travisato, a controllare che, metti caso, qualcuno non abbia trovato ciò che ha perso. Mi sembra molto più discreto e per niente inquietante.

In ogni caso, tenetevi stretti le vostre mutande.

Non è che ti prendi un’ascia per accettare i consigli

Esiste nelle persone la tendenza a voler cercare soluzioni semplici a problemi complessi. Credo che quello di semplificare sia un approccio frutto dell’evoluzione, come modalità di ottimizzazione delle risorse. Se ricordo bene, qualche legislatura fa qualcuno creò anche il Ministero per la Semplificazione. Spero che ci sentiamo tutti meglio semplificati, da allora.

La metodologia semplificativa si manifesta anche nel farla troppo facile, offrendo agli altri consigli e indicazioni all’apparenza non difficoltosi da seguire. Nella realtà non si rivelano affatto un gioco da ragazzi seguirli, per motivi indipendenti dalla volontà del singolo. Faccio degli esempi.

Ambiente
Bisogna consumare a km 0.
Magari non un km 0 costituito da un’area di 1.100 km quadrati dove vivono 3 milioni di persone e con la densità abitativa più alta d’Europa dove l’ultimo pezzo di terra è stato utilizzato per occultare qualche cadavere.

Oppure, magari hai anche un km 0 di tutta campagna ma fatta di allevamenti di maiali e mucche che inquinano di più della soia coltivata in Canda e importata.

Medicinali
Consumare entro 7 giorni dall’apertura.

Un tubetto di pomata da 100 grammi che costa quanto un tartufo bianco e di cui userai un microgrammo per 2 giorni (un tartufo almeno ti dura di più).

Psicologia
Abbastanza discutibile è sentir dire, rivolto a chi ha l’ansia, “Devi stare tranquillo”.

Come se l’ansia una persona se la provocasse per diletto. O come se non ci avesse pensato a dover stare tranquilla e una volta ricevuto il prezioso consiglio si quietasse immantinente, al suon di “Ah già che sciocco non ci avevo pensato”.

Psicologia/2
Sempre nella categoria benessere interiore, mi piace molto il “Circondati di persone positive/che ti apprezzano/che ti fanno stare bene”.

Non è molto semplice in contesti come famiglia e lavoro dove mica si può scegliere con chi avere a che fare.

Salute
Un consiglio degno delle migliori ovvietà è il leitmotiv estivo Non uscire nelle ore più calde. Mi chiedo che ne pensino rappresentanti, muratori, addetti manutenzione stradale, giardinieri e tutti quelli che lavorano all’aperto o devono passarci molto tempo.

Salute/2
Per combattere lo stress bisognerebbe prendersi più spesso una vacanza e staccare.
Intanto:
– Lavoro+Scadenze incombenti = 0 tempo
3) Soldi – (Spese+bollette+mutui+affitti)= 0€

Trasporti
Ogni volta che guido in città non posso fare a meno di pensare a una delle prime cose che ti dicono a scuola guida durante la pratica: non prendere i tombini con le ruote.

Le strade:

Non è che abbondi col risotto perché il riso fa buon sangue

Sono andato a farmi un prelievo di sangue. Il medico, mentre eseguiva l’operazione, mi raccontava che a San Valentino ha effettuato un sacco di prelievi a coppie (di persone unite in una relazione, quindi no parenti) che quel giorno sono venute a farsi le analisi.

Proprio così: prelievi di coppia a San Valentino.

C’è un significato dietro tutto questo? Tipo “Legati per il sangue”? Io e Te tre ml sopra le cellule? “Amore, per te butterei il sangue”? “Sei un mito-condrio per me”?

Per carità, magari ci sta che se due persone devono farsi le analisi magari preferiscano andare assieme. Oppure, che si possa trattare di analisi preventive per escludere malattie veneree (non ci vedrei nulla di strano). Ma proprio a San Valentino? Sto immaginando il laboratorio diagnostico che effettua delle promozioni: Valentine’s day; sconto di coppia Paghi 1 e Prelevi 2, e via dicendo.

Poi parlo io che sono andato lì il giorno dopo il mio compleanno: sia all’accettazione, sia nella sala prelievi, mi hanno riso in faccia per il bel modo secondo loro di festeggiare. Il dottore, ridendo, voleva anche regalarmi la campana (o si chiama camicia?) per il prelievo incrostata internamente di sangue, come ricordo.

Direi nel loro caso quindi che il sangue fa buon riso.

Non è che un esame ti riempia di fiducia perché ti dà il credito

Giovedì ho sostenuto l’ultimo esame. Ora manca solo il tassello finale, la seduta ad aprile (certo, in mezzo ho una tesi da completare).

È una bella soddisfazione e anche una liberazione. Anche perché questo esame l’avevo rimandato a lungo: doveva essere il primo, poi pensai di riprovarlo l’anno successivo (cioè l’anno scorso), e, alla fine, è diventato l’ultimo.

Mi sono reso conto che portare avanti un percorso di laurea, per il me stesso attuale, è un po’ faticoso.

Fin quando si tratta di preparare esami in forma scritta, ricerche, presentazioni, tesine eccetera riesco a conciliare l’attività con il resto della mia vita, anche perché per scrivere qualcosa basta anche una mezz’ora al giorno. Tra l’altro, come ho già raccontato su questo blog, mi capita durante il giorno mentre sto facendo altro di pensare a quel che devo scrivere – sia un post di cazzeggio qui sopra o una ricerca – e, quando mi metto davanti al pc, devo solo trascrivere quel che avevo in mente.


Delle volte appartenere alla specie dei rimuginanti, quelli col cervello diviso in omaso, abomaso e rumine, ha i suoi vantaggi.


Prendere in mano un libro da 600 pagine da conoscere a fondo mi è invece impegnativo. Tra il lavoro, lo sport, la gestione di una vita di coppia e di una casa, non basta aprirlo per mezz’ora al giorno come fosse un testo di narrativa. Mezz’ora mi serve giusto per concentrarmi, mi ci vorrebbero 3 ore in cui avere la certezza e la tranquillità di non avere altro da fare. Cosa che, mi son reso conto, attualmente non ho.

È quindi per questo sono ancor più soddisfatto del risultato. Nel 2020 quando decisi di prendere una seconda laurea, in storia, lo feci un po’ per sfida, un po’ per hobby, un po’ per passione. Un po’ perché se a settembre di ogni anno non inizio qualcosa mi sento demotivato. Non nascondo a tratti mi sia stata di peso questa scelta, per il discorso di sopra. Però sempre meglio far qualcosa che piace che ricevere un calcione, diceva il saggio, quindi il senso è: non ti lamentare o riceverai un calcione.

Diciamo però che studiare lo metto nella lista delle “Cose divertenti che non farò mai più”. Per ora.

Non è che non sai dire il plurale di ‘belga’ e allora dici che hai un amico belga anzi due

Anni fa avevo una sorta di mito del Nord Europa.

Città con larghi viali alberati, spazi verdi, ciclabili ovunque, trasporti efficienti, bar con caffè biologici imbevibili e dentro un tizio col cappellino di lana anche a luglio e le cuffie JBL con lo sguardo concentrato su un IMac che finge di stare inventando la prossima applicazione di successo mentre beve un matcha latte biodinamico.

Ho visto diverse città, sempre da turista. L’opinione di un turista penso come inutilità sia seconda solo a quella di chi passa davanti un ristorante e, trovandolo chiuso, mette una cattiva recensione su Tripadvisor.

Adesso sarà che sento di invecchiare ma credo che non baratterei il Mediterraneo, con il suo stile di vita, le persone, le abitudini alimentari, con nient’altro. Ricordo una volta a Reykjavík una estemporanea conversazione alla fermata dell’autobus con un ragazzo originario dell’Albania e che lavorava nella città islandese. Mi disse, rassegnato: “Sì, qui lavoro, pagano bene – ma costa tutto caro – ma non si vive come da noi al Sud”.

Poi magari avrò incontrato l’unica persona insoddisfatta dell’isola.

Sinceramente non ho mai amato i confronti: stabilire dove e cosa sia meglio è soprattutto questione di carattere ed aspirazioni, a mio avviso. Parlo sempre però di luoghi al di sopra di un certo standard in grado di garantire il soddisfacimento di necessità primarie: poi, come dicevo, dipende da come è fatta una persona e cosa va cercando.

Succede poi alla fine che ognuno guarda al proprio giardinetto (che può coincidere come estensione a qualsiasi cosa: a un giardino, a un paesello, a una città, a una metropoli e così via) e poi lo confronti con i giardinetti altrui, con il loro bel carico di storture e luoghi comuni.


Ho detto giardinetti e non cespuglietti (che andavano più di moda negli anni ottanta).


Tutte queste riflessioni mi sono venute in una birreria a Bruxelles, mentre per accompagnare il litro e mezzo di trappista che avrei bevuto (e il mal di testa conseguente) avevo chiesto un salamino a fette.

Me l’hanno portato. Cosparso di origano.

Chi è che mette dell’origano su un insaccato? Questi nordici sono proprio dei barbari!

La foto è puramente decorativa: l’episodio increscioso non è avvenuto da Moeder Lambic (sempre una garanzia in fatto di birre)

Non è che il trappista sia quello con le scritte in faccia che canta con l’autotune

Devo andare a Bruxelles un paio di giorni per lavoro. Non sono molto avvezzo alle trasferte pagate. Invidio chi è trasfertista di professione, Business Class e taxi anche per andare ai servizi igienici, senza porsi problema. Io invece ho quel timore reverenziale nel chiedere l’hotel più vicino all’edificio dove devo andare anche se costa 10€ in più.

In compenso, dato che ho tempi stretti per il ritorno, invece del bus-navetta Centro città/Aeroporto, ho chiesto quello col servizio “Ti veniamo a prendere dove vuoi”. Costa di più, ovviamente: eh questi lussi che ci concediamo!

Il Belgio mi fa ricordare mia zia. Era una vera ultras, non perdeva occasione di dire in Belgio hanno questo, in Belgio fanno quest’altro. Mia zia aveva viaggiato molto e visto molte cose, anche se tendeva a essere un po’ monotematica e insistere su certi argomenti, come il Belgio per l’appunto, quasi volesse spingerti a tutti i costi ad accogliere la sua fede.

Credo questo modo di fare derivasse dalla sua profonda impronta cattolica.


La religione è un’ottima spiegazione per molti atteggiamenti della società, dalla sindrome di una colpa intrinseca che si porta dietro l’umanità (“Ci meritiamo l’estinzione”, come si sente dire a volte) alla sofferenza che viene spesso imposta negli ospedali alle partorienti.


Le profonde convinzioni di mia zia, tipo quella sul Belgio, erano spesso oggetto di sarcasmo da parte dei miei.
I miei non sono mai stati in Belgio.

Più passa il tempo e più sento in qualche modo di esser stato guastato dalle azioni e dal modo di pensare di Madre e Padre. In realtà guastare presupporrebbe che in origine io fossi sano, mentre invece son venuto fuori così in un processo di costruzione, quindi forse sono in realtà un prodotto finito integro che, però, sente di avere un qualcosa di strutturalmente non conforme.

Ma fino a quando e fino a quanto possiamo dare la colpa all’educazione ricevuta e al contesto in cui siamo cresciuti? Nel discorso al brindisi del mio tramemonio ho esordito con “Noi siamo la somma delle nostre esperienze”. È una frase che vado ripetendo da anni.

È una frase cui però forse, all’avvicinarmi del mio otto più trenta, sto smettendo di credere.

Perché sei tu. Non sono le cose brutte o l’educazione. Sei tu.

in italiano (io preferisco però la voce di Aaron Paul / Jesse Pinkman)

Vado a riempirmi di birre trappiste.