Quelli della mia generazione sono stati iniziati a certi pruriti, tra le altre cose, da Lamù. A me più di lei piacevano però altri due personaggi, sempre aliene: Benten (una motociclista spaziale) e Kurama (la Regina dei Tengu).
Ho un’amica che fa cosplay ( = il travestirsi da personaggi degli anime) e che una volta in una delle sue interpretazioni si è vestita proprio da Lamù. Ha acquisito una certa notorietà in questo mondo, perché è molto brava nella preparazione dei personaggi. Conoscendo però il mondo dei nerd maschi credo che presso di loro la fama sia più legata a robe di sbavo e pruderia che per apprezzamenti stilistici. Il più pulito dei fan che l’ha contattata, mi ha raccontato la mia amica, voleva che lei gli camminasse sulla schiena.
I nerd sanno anche essere persone orribili. In linea di massima, sono misogini e sessisti. Oltre che in grado anche di comportarsi da bulli. Il loro bullismo è generalmente rivolto verso chi si introduce nell’ambiente e non ne è all’altezza perché principiante. Sono stati i nerd a inventare su internet il termine noob verso chi è nuovo e poco pratico, usando il neologismo per deridere i neofiti. La malcelata diffidenza spesso sfociava in ostilità tale da indurre il nuovo arrivato ad andarsene altrove.
La sottocultura nerd negli ultimi anni ha suscitato consensi su un pubblico ampio. Hanno iniziato a venderci serie tv e film per il cinema che 20 anni fa sarebbero stati solo cose per nerd ma che oggi nessuno si vergogna di guardare, anzi, la vergogna oggi è considerato non farlo.
È da tempo che rifletto sugli aspetti negativi di questo tipo di cultura. Il punto non è criminalizzare la categoria (a cui potrei benissimo essere ascritto, dato che ne condivido gusti, interessi e hobby), ma ricordarsi che non è fatta esclusivamente di individui buffi, teneri e simpatici e che sotto goffaggine e simpatia si nasconde anche altro. Invece si tende a farlo passare in secondo piano.
L’esempio calzante è un film cult del 1984, La rivincita dei nerds. In questo film, tutto basato sulla contrapposizione tra gli atleti fighi e palestrati e i secchioni, la considerazione di questi ultimi verso l’altro sesso non si rivela migliore di quella dei bulli: le ragazze o sono delle oche cui è lecito rubare le mutande e con cui val la pena appartarsi spacciandosi per il reale ragazzo approfittando di una maschera, o sono alla fine delle povere mentecatte perché non sanno usare un computer. All’epoca (ma forse anche oggi), fermo restando che è pur sempre un film commedia, non sarà stato considerato così scandaloso ma solo la giusta rivalsa di individui derisi, goffi e sfortunati.
Le considerazioni sull’errata compiacenza che si ha in certi casi, valgono anche per le nerd donne che sanno essere verso altre donne non nerd le più antifemministe di questo mondo (e ci sono ragazze nerd che poi si proclamano femministe) e ciò non è per niente considerato sbagliato.
È da molto che non vado al cinema. In verità cose che mi interessino non ce ne sono molte: negli anni sono diventato più selettivo (e anche schizzinoso, a dir il vero). Pagare un biglietto per vedere dei mappazzoni non è che mi stimoli molto.
Tra gli ultimi film che ho visto al cinema c’è stato Ghost In The Shell, in Ungheria. Lì non ho resistito: era per l’ammirazione che ho verso l’opera originale, un capolavoro dell’animazione nipponica.
Il film non era un granché: visivamente molto accattivante, con parecchie strizzate d’occhio all’opera originale, perdeva però un po’ quel che era il sostrato filosofico che c’è nell’anime. Sono dell’idea che certe cose debbano rimanere confinate nella nicchia per nerdoni e non possano essere trasposte pena delle perdite rilevanti nella conversione per il grande pubblico.
Inoltre avevo notato una certa monotematicità delle inquadrature: ogni tre scene una ripresa di spalle sul culo di Scarlett Johansson. Non sono un ipocrita, ammetto che il fondoschiena di SJ abbia una sua forma (artistica) e sappia bucare lo schermo con prepotenza.
Un po’ deluso comunque dal panorama cinematografico attuale, ho deciso di buttar giù qualche idea per pellicole che possano portare una ventata di freschezza nel mondo hollywoodiano e non solo.
SCI-FI
Terminator 6 – La rivolta ottuagenaria
Dato che sembra impossibile far fuori Sarah Connor, le macchine scelgono un’altra strada per impedire a John Connor di dar vita alla resistenza. Si sostituiscono agli anziani con lo scopo di ostacolare JC e fargli perdere tempo bloccandolo sul pianerottolo, alla posta, al supermercato, in qualsiasi luogo, con discorsi soporiferi sui nipoti, sui tempi della Guerra, sulla prostata e l’incontinenza urinaria. Arnold Schwarzenegger, nei panni di un cyborg novantenne, riuscirà a bloccare le gerontomacchine con un inganno, invitandole a seguire un cantiere della Metro C di Roma, ignare del fatto che non sarà mai completato.
SCIENCE FANTASY
Ma chi vi si incula: a Star Wars Story
Altro spin-off di Star Wars, che narra storie parallele (oppure prequel) della saga originaria. In Ma chi vi si incula scopriremo in modo più approfondito personaggi marginalizzati nelle precedenti trilogie: come era da adolescente l’Ammiraglio Ackbar? Lo pigliavano per il culo per la sua pronuncia? Come hanno messo su una band gli alieni jazzisti della Cantina a Mos Eisley? Gli Ewok hanno le pulci? Questo e altro nel nuovo capitolo spin-off della Saga.
Un gruppo di Ewok impagliati per il divertimento di George Lucas
EROS
50 sfumature di arcobaleno
Martina è una studentessa fuori sede iscritta al DAMS fuori corso dal 2004. È una ragazza normale, ogni anno bisestile un esame, ogni semestre uno shampoo, ogni sabato sera che termina abbracciata alla tazza a vomitare il duodeno.
Un giorno dimentica di usare l’acchiappacolore Grey e l’intero suo bucato diventa un quadro di Pollock. Abbigliata come un clown scolorito, attirerà le attenzioni e le avance di un suo coetaneo, feticista dei capi sbiaditi. Solo che Martina è asessuale perché ha letto su GQ che è il nuovo must dell’estate 2017, quindi non se ne fa niente.
PAOLO SORRENTINO
Le conseguenze dell’odore
Toni Servillo è Giangi, un esteta edonista annusatore di intimo di belle donne star del cinema. Mentre un giorno passeggia tra le vie di Taormina – pausa con ripresa a 360 gradi del tramonto sul mare – declamando poesie di Archiloco, incontra Marianunzia, ammaestratrice di giraffe – pausa con piano sequenza sulla giraffa che va a brucare da un albero centenario – che sogna una carriera cinematografica.
Giangi ne è estasiato o forse è l’effetto della coca che lei spaccia per mantenersi. A questo punto pensa che il non plus ultra sarebbe poter annusare le mutande di una star prima che diventi star.
Una sera dopo una cena elegante – pausa per ripresa panoramica sulla cucina del ristorante con dissolvenza sulla frittura di calamari – lei si immerge in una fontana come Anita Ekberg in La dolce vita. Le scene diventano in bianco e nero in modo gratuito. Dopo essersi fatta il bagno, lei si sfila le mutande e le offre a Giangi, che, dopo una pausa di riflessione di un quarto d’ora, esclamerà
“Eh no, mò le hai lavate, non sanno più di un cazzo”.
ANIME
L’Attacco dei Gitanti
Un tranquillo borgo di origine medioevale dove il tempo pare essersi fermato, una vecchina taglia la droga ogni giorno come si faceva un tempo, un artigiano fabbrica bong di ceramica, un bar serve Amaro del Capo per colazione. La calma e la pace vengono improvvisamente turbate dall’arrivo di un’orda affamata: i Gitanti.
Centinaia di Gitanti trasportati da torpedoni prendono d’assalto il borgo, schiamazzano, scattano foto, scattano foto schiamazzando, fanno il pediluvio nelle fontane. Solo un giovane potrà porre rimedio, un abitante del borgo che si scopre essere stato anche lui un Gitante, quella volta che partecipò a un campo estivo in colonia marittima con gita organizzata alle rovine di una città, che prima non erano rovine ma si sa come sono i ragazzini.
Un Gitante tedesco che si è scordato di mettere la crema solare prova a portarsi via una pietra del muro di cinta come souvenir
FILM INDIPENDENTI
(un titolo a caso che non c’entra nulla col film)
Un adolescente che ha perso i propri genitori al poker.
Una ragazza affetta da una rara malattia genetica che la porta a credersi Vittorio Sgarbi ogni volta che osserva un quadro.
Due città diverse.
I due non si incontrano mai perché ovviamente non si conoscono e il film potrebbe finire qua. Invece va avanti per un’ora e mezza con inquadrature con filtro vintage Instagram mentre viaggiano in autobus con la testa appoggiata al finestrino lercio accompagnati dalla allegra colonna sonora scritta da Thom Yorke.
(un altro titolo a caso che non c’entra nulla ma fa molto indie)
Una quattordicenne che scrive poesie sui rotoli di carta igienica e che è muta da quando i genitori si sono separati – erano gemelli siamesi – vive con lo zio trentenne, musicista negli Afflato Anale, una garage-band che sogna di sfondare e dai garage passare ai parcheggi delle pompe di benzina.
Lo zio all’improvviso muore per overdose di Coccoina e al funerale la ragazzina a un certo punto sembra aprir bocca per dir qualcosa ma in quel momento parte These Days di Nico con dissolvenza finale sui titoli di coda e non si saprà mai se avrà parlato o no.
La pellicola non verrà mai distribuita perché nel mezzo c’è una scena senza senso in cui lei e lo zio fanno il bagno nella vasca insieme. Tutto ciò – compreso il fatto che non l’abbia visto nessuno se non al massimo piratato – lo renderà un capolavoro del cinema non mainstream.
Sono uscito per la mia consueta passeggiata domenicale, questa mattina. Anche se non so se due volte possano costituire una consuetudine: quand’è che inizia? C’è un momento in cui un agire diventa consuetudine?
Mi ricorda la storia del paradosso di Eubulide sul mucchio di sabbia: ne esistono varie versioni, in sostanza esse dicono che se tolgo un granello di sabbia da un mucchio, esso è ancora un mucchio, ne tolgo un altro e lo è ancora, ecc. ecc.. Quindi, quale è il momento in cui il mucchio non lo è più, considerando che IL granello non È il mucchio?
Uscendo di casa, ho constatato che il cortile interno del palazzo dove vivo ha un che di inquietante.
Un tempo dovevano esserci delle attività commerciali lungo i lati e il portone doveva esser sempre aperto per il via vai di persone: c’è ancora lo scheletro di qualche insegna a ricordare il tutto.
La sedia a rotelle che si nota a sinistra è sempre lì. Giace abbandonata e impolverata.
Non incrocio mai gli altri inquilini, né li sento muoversi, parlare, agire. L’unico segno della loro presenza è costituito dai cassonetti della differenziata che si riempiono. A volte tutto il complesso sembra un luogo fantasma. Forse prenderà vita di notte.
A scanso di equivoci o di attacchi d’angoscia: non è così lugubre e la zona intorno è abbastanza viva.
Colto quindi da questi pensieri melanconici, mi sono recato nuovamente a Buda, deciso a percorrere stavolta vie che i turisti non battono neanche ai calci di rigore.
Le persone mi trovano strano quando dico che, delle volte, amo le strade deserte, gli alberi spogli, il cielo grigio e l’orizzonte fumoso.
In pratica lo scenario che ho trovato oggi. Penso eleggerò questa strada a “mio” posto. Il “mio” posto è un luogo che, seppur frequentato da altre persone, è considerato dal punto di vista emotivo una proprietà personale, in quanto gli altri non ne coglieranno la stessa specificità.
Allora evito di raccontarlo per non apparir a-normale, ma è uno sforzo inutile in quanto la gente riuscirà sempre a trovarti addosso qualcosa di strano, come un poliziotto corrotto che durante una perquisizione ti infila in tasca una bustina di droga.
Ho poi incontrato una cornacchia lungo la strada.
Volevo catturarla in una foto, ma ogni volta che le puntavo contro il telefono zampettava più avanti al momento dello scatto. Ha rifatto tre volte lo stesso gioco, poi si è fermata, mi ha lasciato scattare e dopo se ne è volata via.
Amo queste passeggiate perché concorrono a un percorso di deframmentazione della mente. Schiariscono le idee permettendo di compiere un check di tutto quello che si è accumulato, rimettendolo al posto giusto.
Quando cammino senza una direzione la mente è libera nel suo riordino in quanto l’attenzione non è focalizzata su essa.
L’atto di pensare che si sta pensando costituisce una limitazione del pensiero.
L’attività motoria della deambulazione è quindi un buon sistema di deconcentramento.
Quando infine l’umidità ha iniziato a esser eccessiva – me ne sono reso conto dai baffi che cominciavano a gocciolare – ho ritenuto opportuno rincasare.
Ieri sera guardavo il terzo OAV della serie Otona Joshi no Anime Time: si tratta di una serie per donne, ma è interessante anche per gli uomini. Poi lo stile del disegno (che cambia da opera a opera) è particolare.
Comunque, in questo episodio una donna alle soglie dei 40 faceva un riassunto della sua vita, pensando ai dieci momenti migliori che aveva vissuto. Così, spontaneamente, ho cominciato a pensare anche io alla mia top ten. È venuto fuori questo:
10) Quando ho visto al Louvre il mio quadro preferito. 9)Exit music (for a film) dal vivo. Avevo gli occhi lucidi. 8) Un abbraccio di un amico. In realtà, tutto il contesto in cui ciò si svolse mi riempie di vergogna ancora oggi ad anni di distanza, ripensando al mio comportamento in quel periodo. Per questo è posizionato così giù. Però, un abbraccio sincero, senza nessuna parola, merita di essere inserito in classifica. 7) Quella volta che quella bambina alle elementari mi prese per mano. 6) La ragazzina che mi piaceva alle medie, che, una volta, per ringraziarmi del gesto gentile che le avevo fatto, mi diede un bacetto. Era solo sulla guancia, ma rimasi inebetito qualche attimo. 5) Il primo colloquio di lavoro superato (per ora anche l’unico). Per l’esattezza, il momento in cui il telefono squilla col numero privato: un presentimento mi diceva che era quella notizia. 4) L’ultimo esame della laurea triennale. Come voto fu tra i migliori di quella mia triennale, come svolgimento fu perfetto: per una volta non dovetti aspettare ore per il mio turno, mi ci volle più tempo tra andare e tornare dall’Università che per star lì e sostenere l’esame. E, dopo, uscii dalla facoltà con un senso di leggerezza fantastico. 3) Una giornata in giro, trascinato tra un parco di divertimenti e il lungomare. Nient’altro. Momenti che, mentre li si vive, si vorrebbe intrappolare per sempre e non far svanire. 2) La prima volta. Probabilmente, un disastro a livello tecnico e stilistico. Sentimentalmente, tutto perfetto. 1) Il primo bacio. Sicuramente un’esperienza allucinante, per chi subì. Ci fu un’esondazione di saliva e uno scontro frontale di incisivi (stavano per accorrere i vigili). A ore di distanza, fino a prima di addormentarmi, rimasi con la sensazione di qualcosa delicatamente poggiato sulle mie labbra. È al primo posto perché è come se ci fosse una netta frattura tra il prima e il dopo. Il distacco sembra più netto rispetto al fare sesso la prima volta, in cui invece ci si arriva più per gradi. Almeno parlo per me.
Non ho avuto una vita molto movimentata, in effetti. D’altro canto, non ho dovuto sforzarmi molto per riempire la classifica.
In vista dell’arrivo del mio compleanno, ho deciso di regalarmi la nuova edizione di Shaina (Tisifone) messa in commercio da Bandai, in contemporanea col lancio della nuova serie di myth cloth EX. Ho deciso di prendere la versione completa, fornita in più con una statua in resina di Cassios.
L’importatore italiano, però, mi ha fatto un brutto scherzo rovinando la scatola con gli adesivi per italianizzarla, come indicato nella foto
Dal retro, invece, si può notare come la confezione sia originale JAP
Questa è la figura una volta montata e messa in posizione
Non mi sono cimentato a provare altre pose come nelle foto sul manuale, perché ho sempre avuto un rapporto conflittuale con i myth cloth; già riuscire a montare tutta l’armatura è un’impresa, fai pressione per incastrare un pezzo e ne saltano altri due e così via, non parliamo per metterli in posa: dopo innumerevoli cadute e pezzi staccati, una volta trovata una posizione buona li cristallizzo così e non li tocco più, onde evitare altre ore di smadonnamenti.
Anche se debbo dire che per Shaina ci sarebbero stati meno problemi, avendo meno pezzi da incastrarle sul corpo: inoltre, a differenza dei myth del passato, le articolazioni sono state migliorate, il personaggio sta in piedi più facilmente e in maniera più naturale (in passato quando ci provavo a metterli in posizione venivano fuori pose legnose, più che cavalieri sembrava fossero degli impasticcati in discoteca).
Anche il viso ha tratti più delicati (sì, lo so, il viso della sacerdotessa non potrebbe essere mostrato!), più simili all’originale, per non parlare dei capelli, fluenti e con le ciocche ben distinte (ricordo ancora l’effetto casco di banane troppo mature del primo Aiolos, invece…). Il corpo è snello, ben disegnato, forse i fianchi restano ancora poco realistici.
Questo è l’interno della confezione
C’è un solo viso, una maschera (quella da tenere in mano) e poi c’è una testa (quella già montata sul personaggio) con la maschera inserita. Ci sono due diademi diversi da montare, ma volendo si possono tenere i capelli sciolti come ho fatto io. La scelta, oltre esteticamente migliore, mi sembrava dettata anche dal fatto che il set di capelli che dovrebbe reggere il diadema sembrava poco convinto di restare fermo incastrato in testa. Rimanendo fedeli al manga, c’è un pezzo di armatura che copre anche la zona inguinale, mentre nell’anime è assente.
La cosa che mi ha suscitato ilarità è che la versione senza armatura (che sarebbe così) ha un paio di spalline di metallo (nella finzione, quelle della figura son di plastica) incastrate nelle spalle. Per rimuoverle e inserire invece i coprispalla metallici, bisogna in pratica levare le tette a Shaina (ecco spiegato perché nella confezione c’è un set di tette supplementare: è quello senza spalline).
Su Cassios poco da dire, è una figura in resina in due blocchi separati (da incastrare all’altezza della vita) che per collezionismo fa la sua figura.
Hitagi Senjōgahara, ricettatrice di materiale da cancelleria
Ho da poco visto quest’anime che, in realtà, non è proprio recentissimo: Bakemonogatari (per la trama e altre info, leggere qui perché non mi ci soffermerò). Si tratta di uno dei pochi anime ad avere una caratteristica particolare: i motivi che lo fanno piacere sono gli stessi che possono spingere una persona ad odiarlo. Andiamo con ordine: che genere è? Un harem, potrebbe essere la risposta più semplice e banale. In fondo abbiamo un protagonista maschile (Koyomi Araragi) e 5 ragazze (Senjōgahara, Hachikuji, Kanbaru, Sengoku e Hanekawa): ad ognuna di esse è dedicato un arco narrativo di 2-3 episodi. Ritroviamo, inoltre, anche i classici cliché dei personaggi, c’è la tsundere, quella col complesso della sorellina (oniiichan!), il maschiaccio, l’occhialuta e così via.
Ben presto, però, lo spettatore si accorgerà quanto ci sia di parodistico in questi stereotipi e nelle situazioni che si vengono a creare, perché l’intento del creatore (Nisio Isin, che ha scritto la light novel da cui è tratto l’anime) non è creare la commediola/harem fine a sé stessa ma un’opera più articolata, seppur non originalissima.
Tanto per cominciare, smontiamo l’harem, perché fin dall’inizio avremo ben chiaro che c’è una storia sentimentale che vedremo nascere e costruirsi per tutta la serie, di pari passo con una certa crescita personale dei due protagonisti. Smontiamo anche il puro intento comico, visto che non possiamo tralasciare l’elemento soprannaturale e lo splatter che, in maniera crudele, interviene nelle vite dei nostri personaggi.
Già a questo punto potremmo fermarci, perché può attirare un’opera così così come può spingere a cercare altro; ma non è finita qui, perché non ho ancora parlato dello stile dell’animazione. Innanzitutto, al di fuori dei personaggi, il resto del mondo è scarno, opaco, appena delineato o costruito in computer graphic a far da contorno come uno sfondo teatrale (è molto rara, infatti, l’interazione col mondo circostante. Sembra di essere in uno di quei videogiochi dove il massimo che puoi fare è rompere un lampione o lanciare una lattina). Il punto più alto (o più basso) lo si raggiunge con l’episodio 3, quasi interamente ambientato in questo parco giochi:
Parco pubblico disegnato da Calatrava
È tutto qui: poche forme, in quello che sembra un immenso spazio bianco vuoto (il condominio alle spalle, appena delineato, sembra lì lì per dissolversi), quasi una dimensione/prigione a parte; in effetti, considerando quella che sarà la soluzione dell’arco, l’idea di essere in trappola non è sbagliata. Non preoccupatevi, l’anime non è tutto così, ci sono anche più colori.
Se questo non è abbastanza, introduciamo la seconda scelta stilistica: cioè quella di inserire, a mò di messaggio subliminale, nel corso delle puntate (spesso quando i personaggi parlano tra di loro) delle schermate con parole o frasi, che durano il tempo di un attimo: per leggerli bisogna mettere in pausa la riproduzione, ma considerando che sono tantissimo nei soli 20 minuti di un episodio, dopo un po’ vi scoccerete. Qua e là, al posto dei messaggi subliminali ci saranno delle immagini prese dalla vita reale, strade, mani umane e così via, in una sorta di rottura della finzione scenica: il massimo del metateatro si raggiungerà nel finale della serie, quando Senjogahara dirà che la sua doppiatrice è bravissima, tale da imitare la voce di Koyomi.
Terza nota stilistica: le inquadrature, che cambiano con frequenza tale da far venire il ma di testa, diventando sempre più improbabili e ardite.
Ecco, se tutto questo non vi fa vomitare, allora vi farà piacere seguire l’anime, facendovelo godere cogliendone tutte le sfumature. I dialoghi non sono mai banali (forse con le altre protagoniste sì, di sicuro non quelli della love story principale), a tratti diventano surreali come se fossero usciti da una scena di Beckett o dei fratelli Marx; il fatto che la fonte da cui è tratto l’anime sia una novel e non un manga chiarisce perfettamente lo spessore del livello comunicativo dei personaggi.
Torniamo al problema principale, cioè che cos’è Bakemonogatari? È azione, sovrannaturale, sentimentale, umoristico, parodistico, autoironico e compiaciuto di sé fino al limite del nauseante. Però tutto l’insieme dei singoli ingredienti lo rende un piatto interessante, da provare.
Ultima nota di colore: Koyomi è caratterizzato da un ciuffo di capelli ribelli in testa che pare godere di vita propria, basta far caso a quando assume la forma di punto interrogativo in situazioni di dubbio o sorpresa.
Qua il ciuffo si alza a mò di punto esclamativo, ma non si capisce perché
Apro la cartella Download sul pc e non mi ci raccapezzo più, ho scaricato (anche da pochi giorni) delle nuove serie anime e non mi ricordo cosa siano e a che punto stiano. Il fatto è che ho il vizio di aspettare che la serie sia completa prima di guardarla, non guardo i singoli episodi man mano che escono perché poi magari tra un’uscita e l’altra finisco per dimenticarmi la storia (oppure finisco proprio per dimenticarmi di seguire quella serie).
Quindi, allora, appiccico qui un post-it virtuale su ciò che sto scaricando adesso, in modo da avere tutto sottomano:
Ao no Exorcist (questo in realtà sarebbe completo ma debbo ricordarmi di scaricare i restanti episodi appena la connessione me lo permette)
No, non mi sono messo a contare i cosplayers; era solo per attinenza con la mia occupazione per i prossimi mesi: farò il rilevatore per il censimento. Ma di questo parlerò domani (quando sarà finito il corso di formazione), ora volevo soffermarmi sui cosplay che ho visto al Romics.
Innanzitutto, come al solito, continuano ad essere presenti Starnuto e One Piss; ma più dei cosplay, dominano sui banchi degli espositori: ti affaccia a guardare e trovi file intere di gashapon e figure di One Piece, a volte – siccome magari lo spazio per l’espositore è poco – trovi solo quello. Continuando coi cosplay, ho notato un’esplosione di Catwoman (sarà l’arrivo di Batman Arkham City e i rumors su The Dark Knight Rises?) e, soprattutto, di Vocaloid. Hatsune Miku e, molto gettonata, Luka Megurine.
Un paragrafo a parte meriterebbero i cosplay softcore, che mi sembrano in aumento rispetto ad altre fiere nel passato. Sinceramente, secondo me, ci sarebbero personaggi che, dato il loro abbigliamento (o non abbigliamento) sarebbero da lasciare solo sulla carta e sulle pellicole e non da portare dal vivo: io non metterei la mano sul fuoco per tutte le cosplayers per giurare che tutte lo facciano per amore del cosplay e non ci sia anche esibizionismo. Poi, certo, la malizia è negli occhi di chi guarda. Però poi mi dovrebbero dire che c’azzecchi con una fiera di fumetti/animazione/videogames una coniglietta di Playboy (ed era la più vestita rispetto alle altre).
No, non era Haruhi Suzumiya che pubblicizzava la Brigata SOS (immagine a destra), era solo una coniglietta.
O anche Lady Gaga, la regina delle smutandatrici: a me già sta sul cazzo quella battona della musica, me la ritrovo anche alle fiere.
Per il resto, tutto molto bello (come direbbe Pizzul), la Fiera di Roma mi sembra una buona location, per lo meno nei capannoni c’era aria condizionata. E, inoltre, uscendo da un capannone avevi comunque possibilità di non stare al sole (pareva agosto, un caldo tremendo e un sole bollente). L’unica cosa è che, come al solito, il treno di collegamento tra la Tiburtina e la Fiera di Roma c’ha messo un’eternità (all’andata): è bello constatare che i treni regionali, in qualunque parte d’Italia, funzionino (o non funzionino) allo stesso modo. L’Italia è unita e uniforme, almeno in questo. Altra cosa, è che avevo fatto i biglietti solo per il viaggio d’andata (ho pasticciato con la macchinetta automatica, invece di fare il biglietto per 2 persone andata e ritorno, ho fatto il biglietto per 4 persone): ho pensato, vabé, quelli per il ritorno li farò alla Fiera: che illuso, alla fermata Fiera c’erano solo i binari e i marciapiedi, null’altro. O sono cieco io che non ho visto dove li vendessero o lì veramente non c’era niente. Capisco che non sia zona abitata e che quindi ci sia solo gente che và lì e ritorna e non gente che dalla Fiera va a Roma (e che quindi ha necessità di acquistare i biglietti), ma almeno una macchinetta automatica? Mah. Sono salito senza biglietto. Io, comunque, 3,60 euro a Trenitalia (la cifra complessiva per l’andata e il ritorno) lì ho dati (si veda il pasticcio con la macchinetta).
Un mese fa mi laureavo; adesso non è che dobbiamo festeggiare il mesiversario ogni volta, è solo che uno prende coscienza in ritardo di certe cose, inoltre c’è sempre la sindrome del “e mò che cazzo faccio” che ti segue, come un’ombra…
Per accontentare quelli che vengono sul mio blog, oggi celebro la new entry nelle keywords che portano qui. Per gli amanti di “asuka seno”, offro questo.
Per chi, invece, si riferiva alla più nota Asuka, direttamente da The End of Evangelion, eccola.
Ieri pomeriggio sono andato a Cava de’ Tirreni al Cavacon; in realtà era solo per il concerto dei Versailles la sera stessa, però uno approfitta e dà un’occhiata alla manifestazione. Ecco, un’occhiata bastava e avanzava, tanto per ciò che c’era da vedere: 3 stand in croce, due-tre di action figure, un paio di manga (tra l’altro neanche fornitissimi) e poi 3-4 stand che vendevano chincaglierie (anellini, orecchini) che parevano giusto lì per riempire. Per 5 euro mi pare un po’ troppo, considerando che una volta che sei stato lì mezz’oretta (volendo essere larghi) non c’era più niente da fare. Oltretutto stavi sotto al sole, ho visto spalle bruciate, persone che da yankees sono passate a pellerossa, lolite con la tetta due gusti fragola e panna: fino a metà seno rossa, poi avanti bianco latte (non sono io il maniaco, mi passa davanti la gente conciata così).
Certo, se gli stand sono pochi la colpa non è degli organizzatori ma degli espositori che non vengono, una manifestazione cresce col tempo, il Comicon magari anch’esso agli inizi era poca roba (ipotizzo). Pertanto, casomai ci fosse l’occasione, a Cava ci si rivede tra 10 anni (sempre che sopravviva, mi chiedo ad esempio se siano rientrati con le spese). A me sinceramente ha fatto tristezza e desolazione, tant’è che non ho nemmeno comprato nulla (io ad ogni fiera, da buon nerd, DEVO portarmi qualcosa a casa).
Riguardo il concerto, i Versailles sono stati fantastici e molto disponibili, si lasciavano anche toccare dal pubblico (qualcuna del pubblico penso volesse portarseli a casa visto come li tirava), da come parlava lo staff agli inizi del concerto pareva fossero divi assoluti scorbutici che se ne stanno distanti dal pubblico e se vedono una cosa sbagliata prendono e se ne vanno. Certo, non si potevano fare foto, c’era un tizio del loro staff che ogni tanto buttava uno sguardo e se ti vedeva con la macchinetta ti diceva di toglierla di mezzo.
Io comunque una foto col cellulare l’ho rubata, e che cacchio
Gli organizzatori invece sono stati pessimi, non riesco a credere che non si riescano a gestire 200 persone (più o meno): le si lasciano accalcare alle transenne prima di entrare e poi, dopo 3 ore di attesa, si pretende che se ne stiano indietro una volta che le transenne sono state tolte. Va bene che la gente deve avere buon senso e se uno ti dice “State indietro sennò non si comincia a suonare” tu devi farlo, ma chi organizza un concerto non si affida mica al buon senso delle persone (soprattutto se sono state ad aspettare ore). Non si mettono le transenne orizzontali in modo da far creare una calca che poi travolge le persone, le transenne si mettono a zig-zag in modo da creare una fila incolonnata e che non possa fare pressione in un solo punto e non creare un effetto imbuto. In questo modo, quando è l’ora di far entrare le persone, si passa uno alla volta e gli addetti possono anche controllare chi ha il biglietto (o il braccialetto, come in questo caso). Io ho visto scene assurde, persone dello staff che cercavano di placcare la gente per controllarla, da una parte è colpa dell’isterismo di certe giappominchia poser-loli, ma dall’altra chi ha gestito l’evento non doveva mettersi in questa situazione.
Apro qui un altro piccolo spazio che vorrei dedicare, con cadenza assolutamente sporadica, a commenti su anime che ho visto recentemente. Ho deciso di partire con Shiki, serie Horror/Mistero di 22 episodi, tratta da un’opera di Fuyumi Ono.
L’anime per me rappresenta sicuramente una novità interessante del 2010, se non altro perché vediamo dei cosiddetti vampiri impegnati a fare il loro mestiere, cioè uccidere cavando sangue dalle vittime. Non c’è niente di affascinante, niente amori tormentati, niente figosità per bimbeminkia, insomma twilightate che hanno reso ridicolo un genere.
Dentro quest’opera invece è tutto tragico e decadente: la storia stessa che procede lentamente è decadente, tanto che sembra si avvii verso un lento spegnersi tragico (tragico per gli umani, ovviamente). Poi a metà serie comincia la svolta e comincia il climax verso la seconda tragedia, stavolta invece portata avanti dagli umani. Nel finale c’è il capovolgimento dei ruoli, non ci sono vincitori o vinti, le vittime sono diventate carnefici, travolti dalla furia per la caccia alle streghe. I carnefici finiscono invece per rivelarci un lato umano: paura di morire, voglia di sopravvivere.
L’inizio della storia, ad essere sinceri, non è originalissimo: ci troviamo nel classico villaggio isolato e dimenticato dalla civiltà dei consumi, dove tutti si conoscono e guardano con sospetto i forestieri, con una famiglia misteriosa che si trasferisce proprio in quel luogo. Da lì a poco, ovviamente, ci sarà gente che inizia a morire. A questo punto rimango però colpito dalla stupidità degli abitanti, che proprio per le caratteristiche descritte dovrebbero iniziare ad annusare che ci sia qualcosa di strano, mentre invece non hanno reazioni, commentano di rado l’incremento dei morti, deridono chi prova ad accennare a cause soprannaturali. Per metà serie di eclatante sembra succedere ben poco (e ci può essere la tentazione di mollare qui la visione), poi dal 15esimo episodio cominciano i colpi di scena, ne avremo quasi uno ad episodio.
Il dottor Toshio Ozaki
I personaggi, dal punto di vista grafico, li classificherei in due categorie: protagonisti e semplici comparse. Questi ultimi sono disegnati con tratti più vicini alla realtà, rughe, facce tirate eccetera. Insomma, dimostrano l’età che hanno o anche più. I protagonisti invece sono del classico tipo “10 anni più giovane” (o anche più giovane). Per non parlare delle loro capigliature, il dottor Ozaki (che dovrebbe avere 32 anni ma sembra averne 15) sembra un allenatore di Digimon e tra l’altro è il più normale lì in mezzo, roba che Lady Gaga passerebbe inosservata. Questa scelta stilistica sui personaggi non l’ho ben compresa; nel senso che non sembra in linea con un’opera di questo genere (li vedrei bene in Paradise Kiss), ma probabilmente è proprio tale contrasto (che, ripeto, può piacere o non piacere) a rendere l’opera più originale.
Nel complesso è un’opera da vedere, di certo non un capolavoro e di sicuro non il meglio offerto dal 2010, ma un suo spazio di fama merita di acquisirlo.
Segnalo inoltre la prima Opening (la seconda mi ha lasciato indifferente):
EDIT: ho rilasciato un commento simile sul forum di Jigoku, son sempre io, non ho copiato 😀
Ma cosa c'è dentro un libro? Di solito ci sono delle parole che, se fossero messe tutte in fila su una riga sola, questa riga sarebbe lunga chilometri e per leggerla bisognerebbe camminare molto. (Bruno Munari)
Come quelle coperte, formate da tante pezze colorate, cucite insieme tra loro.
Tessuti diversi, di colore e materiale eterogeneo, uniti in un unico risultato finale: la coperta.
Così il mio blog, fatto di tanti aspetti della vita quotidiana, sempre la mia.