Non è che non sai dire il plurale di ‘belga’ e allora dici che hai un amico belga anzi due

Anni fa avevo una sorta di mito del Nord Europa.

Città con larghi viali alberati, spazi verdi, ciclabili ovunque, trasporti efficienti, bar con caffè biologici imbevibili e dentro un tizio col cappellino di lana anche a luglio e le cuffie JBL con lo sguardo concentrato su un IMac che finge di stare inventando la prossima applicazione di successo mentre beve un matcha latte biodinamico.

Ho visto diverse città, sempre da turista. L’opinione di un turista penso come inutilità sia seconda solo a quella di chi passa davanti un ristorante e, trovandolo chiuso, mette una cattiva recensione su Tripadvisor.

Adesso sarà che sento di invecchiare ma credo che non baratterei il Mediterraneo, con il suo stile di vita, le persone, le abitudini alimentari, con nient’altro. Ricordo una volta a Reykjavík una estemporanea conversazione alla fermata dell’autobus con un ragazzo originario dell’Albania e che lavorava nella città islandese. Mi disse, rassegnato: “Sì, qui lavoro, pagano bene – ma costa tutto caro – ma non si vive come da noi al Sud”.

Poi magari avrò incontrato l’unica persona insoddisfatta dell’isola.

Sinceramente non ho mai amato i confronti: stabilire dove e cosa sia meglio è soprattutto questione di carattere ed aspirazioni, a mio avviso. Parlo sempre però di luoghi al di sopra di un certo standard in grado di garantire il soddisfacimento di necessità primarie: poi, come dicevo, dipende da come è fatta una persona e cosa va cercando.

Succede poi alla fine che ognuno guarda al proprio giardinetto (che può coincidere come estensione a qualsiasi cosa: a un giardino, a un paesello, a una città, a una metropoli e così via) e poi lo confronti con i giardinetti altrui, con il loro bel carico di storture e luoghi comuni.


Ho detto giardinetti e non cespuglietti (che andavano più di moda negli anni ottanta).


Tutte queste riflessioni mi sono venute in una birreria a Bruxelles, mentre per accompagnare il litro e mezzo di trappista che avrei bevuto (e il mal di testa conseguente) avevo chiesto un salamino a fette.

Me l’hanno portato. Cosparso di origano.

Chi è che mette dell’origano su un insaccato? Questi nordici sono proprio dei barbari!

La foto è puramente decorativa: l’episodio increscioso non è avvenuto da Moeder Lambic (sempre una garanzia in fatto di birre)

Non è che se chiedi un parere al campanaro lui ti fa sentire pure l’altra campana

Montespertoli, Zappolino, Perito, Ponte in Valtellina, Casalguidi, Castelnuovo Berardenga, Castel Lagopesole. Non è Nomi, Cose, Città.

Ricordo quando ci giocavo alle medie mi toglievano sempre punti perché inserivo città che nessuno conosceva per far punteggio pieno e pensavano le avessi inventate.

Una volta mi misi a piangere per frustrazione.

In questo breve elenco ci sono alcune delle località in cui mi è capitato di soggiornare, in questi anni. In genere per diletto, piacere. Posti che mi hanno sempre fatto porre una domanda: chissà come sarebbe vivere in un paesino di qualche centinaio di anime.

Una noia mortale. Sicuro.

Eppure, delle volte, subisco la fascinazione del ritiro, dell’isolamento, della dimensione monocellulare del piccolo centro.

Sono velleità da cittadino, me ne rendo conto. Ma io sono un cittadino atipico, come tante altre cose cui mi sento di appartenere metà e metà.

Appartenenza.

Chissà cosa vuol dire. T’appartengo e io ci tengo, era un tormentone di Ambra. Mi sovviene perché una mia amica, in anni recenti, ebbe un periodo di fissa in cui doveva cantarla – ovviamente con l’intento di diffondere un po’ di trash.

Io appartengo a molte cose, mio malgrado. Ma forse non ci tengo. Ci tengo a targhe alterne. Ci tengo quando non c’è altro e non hai fame di qualcosa in particolare. Ci tengo perché alla fine dai sennò poi qualcuno se la prende a male.

E allora potrei anche tenerci a un posto piccolo. Non vi apparterrei mai. Per quelle che sono le dinamiche di paesino si resta sempre un estraneo.

Ma, in fondo, si è sempre estranei di qualcun altro.

Un Paese di torri, campanili, campane

Non è che il puritano sia scandalizzato dalla nuda roccia

Era da un po’ che non facevo qualcosa per conto mio, così sabato ho preso l’auto, verso il mare. Volendo evitare (riuscendoci in parte, perché è impossibile scansarlo del tutto) i disagi del turismo d’assalto del weekend, ho scelto una spiaggia selvaggia e scomoda, fatta solo di rocce enormi. Meglio gli scoglioni che lo scoglionamento, insomma.

Preoccupato dalla ripida e tortuosa pendenza della strada (stando a dei commenti su Tripadvisor che parlavano di frizioni bruciate), per preservare l’auto, al grido di Vado a piedi!, l’ho lasciata su nel paesello per far 2-3 km. Mi piace camminare.

Al ritorno in salita mi è piaciuto un po’ meno, confesso di aver vacillato. Tra l’altro, il percorso non era così improbabile da fare con l’automobile.

I commentatori di Tripadvisor sono dei grossi scogli senza la s.


Dovevo capirlo quando ho letto di una che diceva di essere andata in piena emergenza Covid e di aver trovato troppa gente. Le do ragione, potevano bene starsene a casa per lasciare spazio a lei. Un altro denunciava di aver trovato un gabbiano morto – anche qui, solidarietà al turista: il volatile non poteva andare a morire da un’altra parte? – mentre, infine, uno lamentava la scomodità delle rocce: in effetti, quand’è che attrezzeranno le spiagge libere con dei bei divani degli artigiani della qualità? Ci sono promozioni ogni weekend, sarebbe da approfittarne.


Amenità a parte, la vista che dalla Cala si poteva godere di Capri e dei suoi Faraoni è meravigliosa.


I Faraoni di Capri sono stati una dinastia minore fondata da una famiglia di esiliati dall’Antico Egitto che, dopo aver vagato nel Mediterraneo, arrivò all’isola di Capri. A loro si deve lo sviluppo di alcune invenzioni, come l’insalata caprese, la torta caprese e i Capri espiatori, degli animali cui addossare delle colpe, del tipo:

– Cos’è questa puzza?
– È stato il capro.

o anche

– Hettunonnephaiunagiusta: Hai sporcato tu il pavimento appena lavato?!
– No, Mamma Tepioaschiaph-oni, sarà stato il capro

Scogli che scoglieggiano.


La cosa che mi ha colpito è che su uno scoglio, bello piatto e largo, c’erano un paio di mutande abbandonate. Quel che mi chiedo, come fa uno a scordarsele lì sopra, in bella vista? Cioè, dico, uno arriva, mutandato e poi se ne va smutandato e non se ne accorge?

Poi ho pensato: in tempi di contingentamento anche gli accessi alle spiagge libere vanno prenotati, come in questo caso dove bisognava scrivere a un tizio per essere certi di aver posto.

E se la mutanda fosse una forma di prenotazione? Nessuno si sognerebbe di andare a toccare e rimuovere un paio di mutande usate, che resterebbero quindi lì. Metter mutanda potrebbe essere come piantar la bandiera, reclamare accesso e usufrutto del posto e dello scoglio.

Oppure, più banalmente, qualcuno era troppo scandalizzato dalla nuda roccia e, novello Daniele da Volterra o Braghettone, ha provveduto a fornirla di mutande.

Non è che l’imprenditore si serva di un giardiniere per il proprio ramo d’affari

C’è una nota a piè di pagina de La camicia di ghiaccio di Vollman che inizia così: «Il nostro habitat di questo mondo è il punto di congiunzione tra aria e terra».

L’analisi presenta secondo me un errore: il nostro habitat non è realmente il punto di congiunzione ma insiste dove aria e terra confinano: potrebbe sembrare la stessa cosa ma non è così. Il vero punto di congiunzione tra aria e terra è rappresentato dalle piante.

Forte di questa riflessione, in questi giorni mi sto occupando del verde di casa, giacché qualcuno deve pur prendersi cura della congiunzione. Già vedo troppi scollamenti, il giorno in cui ci strapperemo del tutto sarebbe il caso di almeno far trovare il giardino in ordine.


Senza doppi sensi, anche se l’altro giorno in una conversazione di gruppo ci si domandava se l’isolamento farà tornare di moda gli anni ’70, a livello di stile. Ci sarebbe quindi tutta una serie di riferimenti possibili a canzoni su aiuole o spot pubblicitari sui pratini:  ci ritroveremo tutti/e un po’ hippy, secondo me.


Ho potato la siepe che fa da confine. Pensavo che stesse venendo dritta poi a uno sguardo d’insieme mi sono accorto non era così. Ho sempre avuto un problema a far venire le cose belle diritte.

Ho sfrondato il nocciòlo di tutti i polloni spuntati intorno la base.

Ho tolto un po’ di rami secchi al limone. Fomentato da un documentario sul krautrock che ho visto ieri, l’ho fatto con gli Amon Düül nelle cuffie.

Ho deciso che vorrei far una margotta del limone.

Pollone, margotta: l’uso di questi tecnicismi mi fa stupir di me. Sta a vedere che quando si potrà uscire mi darò al giardinaggio. Se prima non avrò deciso di piantarla.

La camicia di ghiaccio di Vollman mi ha fatto tornare voglia di Islanda e ricordato che il mio prossimo viaggio vorrebbe essere la Groenlandia. Un’idea che mi frullava in testa erano anche le Isole Svalbard: le terre abitate più a Nord del pianeta.

A prescindere dal periodo storico che viviamo, sussistono comunque tutta una serie di ostacoli organizzativi da tener presenti. Chissà quindi quando sarà.

Mi pento un po’ di non essermi goduto forse appieno il mio viaggio islandese. L’Islanda è una terra che respira, letteralmente. La geologia dei suoi luoghi porta a relativizzare i concetti di tempo e spazio. Mò non voglio mettermi a fare il filosofo, penso solo che all’epoca sarà stata l’eccitazione di voler fare, vedere, ma credo di non aver relativizzato molto bene. Ricordo ad esempio quando ho fatto il bagno alle terme di Mývatn: penso una delle cose più rilassanti che esistano nella vita. Ti servono pure la birra direttamente in acqua, di che stiamo parlando.

Ebbene, mentre tutta la gente lì se ne stava a macerare nell’acqua calda come quando fai sciogliere il cioccolato a bagnomaria, io stavo lì che mi tuffavo da una laghetto a un altro (i due specchi sono separati da una strisciolina scavalcabile; per i più pigri c’è il ponticello), cambiavo posizione, mi sedevo tra le rocce, poi andavo a provare altre rocce, avevo insomma l’adrenalina in circolo che penso avrei potuto correre i 100 metri piani come Filippo Tortu.

Direi che adesso modo per relativizzare tempo e spazio ce l’abbiamo un po’ tutti. Purché con le piante in ordine.

Non è che il pilota sia uno con la testa fra le nuvole

Mi piacciono gli aeroporti. Le vetrate, i soffitti alti e le luci, le poltrone sulle quali non mi stendo perché a una occhiata approfondita non mi sembrano il massimo della pulizia.

Guardo i negozi anche se sono sempre gli stessi, confesso poi di aver sostato, in occasione di lunghi trasferimenti o di voli presi al termine di una giornata lavorativa, nell’area dei profumi per cercare una fragranza-prova che mi desse un olezzo gradevole come si usava fare nella Parigi del ‘700 per coprire i propri afrori.

Ho dormito negli aeroporti. Esperienze allucinanti che mi hanno reso esperto del contorsionismo quando ho cercato giaciglio tra un paio di travi messe a V.

Ho usato i servizi igienici per scopi fisiologici non procrastinabili. I bagni per disabili hanno dei comfort aggiuntivi, in termini di spazi, ganci, lavandini e privacy; so che non andrebbe fatto il rubare spazi simili. Per rendere meno grave la mia infrazione ho cercato servizi localizzati in aree imbarco in quel momento disabitate e lontane lunghi corridoi dalle zone frequentate, accertandomi che nei paraggi non ci fosse nessuno che avrebbe avuto necessità più di me di quel bagno.

Mi sono divertito a utilizzare scale mobili e tappeti scorrevoli, ho provato cucine diverse, ho constatato chi è più severo nella sicurezza e chi meno.

Insomma, gli aeroporti dall’interno sono posti dove potrei, per un breve tempo, vivere.

L’esterno degli aeroporti, invece, mi mette tristezza. Soprattutto nei bui inverni quelle aree disabitate perse nella nebbia di qualche pianura mi incutono angoscia. Tutte le persone che avevo intorno dentro l’aeroporto, con cui sentivo una sorta di legame ideale perché condividevo con loro l’essere un passeggero, all’esterno mi sembrano pisellini Findus che rotolano via da una confezione che si rompe. Ognuno rotola per la propria strada, qualcuno che si nasconde sotto un mobile per non farsi più trovare, qualcun altro che forse finirà calpestato.

E io, che mi sento abituato a star per conto mio, avverto invece in quell’occasione un cappotto di solitudine che mi si stringe sulle spalle mentre mi lascio indietro le luci incandescenti dell’interno dell’aeroporto, verso un anonimo buio esterno.

Non è che se ti ritiri da solo a Foligno tu sia umbratile

Le settimana scorsa ero a Perugia per l’Umbria Jazz, concerto dei King Crimson. Combinazione, negli stessi giorni degli amici umbri dei miei erano a Napoli.

Ritornando da giri vari nelle terre umbre, in luoghi in cui ho trascorso per anni le vacanze da ragazzino, mi sono chiesto come sia l’impatto per chi, originario di luoghi come questi, aerosi e statici e acusticamente ovattati, si trova di fronte la chiassosa e confusa realtà partenopea.

Il mio pensiero è che per me sarebbe uno shock. Già a volte in genere ne ho uno quando ritorno da luoghi ameni, in cui mi sono mentalmente sintonizzato sull’equilibrio acustico e urbano dell’ambiente, dopo pochi giorni di assenza da casa. Chissà allora come potrebbe essere per chi ci è sempre vissuto in tali luoghi ameni e si confronta con una realtà totalmente opposta la sua.

D’altro canto sento dire che la vivacità di Napoli è in fondo ciò che la rende fascinosa. Comprendo che in fondo trattasi di una sorta di attrazione per l’esotico e inusitato, laddove per chi ci vive non è altri che la banale normalità.

Il turista nativo di luoghi ameni si giovi allora di queste pillole sulla realtà napoletana che fornisco di seguito, senza anticipare troppo ma per renderlo comunque più coinvolto e consapevole di quel che si troverà di fronte.

Innanzitutto si sappia che molte donne dei quartieri di Napoli a partire dalla pubertà sviluppano l’enfisema vulgaris, altresì dicasi voce sfiatata, ovvero una voce roca e gutturale degna di uno che ha passato la serata a cantare in una cover band di un gruppo brutal metal. L’enfisema vulgaris è permanente, ma ciò non impedisce al soggetto di urlare di continuo le proprie comunicazioni per strada o dal balcone.

L’urlofono è l’immediato mezzo di comunicazione nelle strade, più pratico del telefono e più efficace di un intimo giudiziario.

Per attraversare la strada si fa come i gatti. Ci si lancia tra le auto correndo velocemente verso il lato opposto.

I parcheggiatori chiedono sempre qualcosa a piacere. È sottinteso che però deve trattarsi del piacere suo.

Prestando attenzione alle voci di strada, si noterà che una frase ogni tre è un’imprecazione alla Madonna.


Le restanti due frasi sono discorsi sul calcio.


È ormai diventato un luogo comune banale quello della famiglia intera sul motorino, padre alla guida, madre e figli piccoli dietro. Oggigiorno è il figlio piccolo a guidare e il resto della famiglia dietro.

Se il cibo non ha almeno una di queste caratteristiche, grasso, frittura, sugo, vi trovate in un’altra città e questa lista non fa per voi.

Il babà, la pizza, la sfogliatella. Prodotti tipici che in qualsiasi luogo andrete a mangiare ci sarà qualcuno che, sentendo ciò, dirà che state sbagliando perché il vero babà, la vera pizza, la vera sfogliatella si mangia solo da…


Saluto Foligno e la sua servizievole accoglienza:


Non è che a Venezia ti serva un telecomando per orientarti tra i canali

A febbraio dovrò trascorrere qualche giorno a Venezia. Non per turismo ma per motivi professionali.

Non sono mai stato in questa città. Non so se esista una classifica dello stupore, ma, se ci fosse, di sicuro tra le prime posizioni ci sarebbe Nooo! Non sei mai stato a Venezia? che molte persone amano dire.

Il motivo per cui non ci sono mai stato è che, come tutti sanno, la gente dice che «Venezia è bella ma non ci vivrei».

Io invece penso che a Venezia ci vivrei ma non ci andrei. Questa risposta lascia perplesso per qualche secondo l’interlocutore, attimi in cui posso approfittare per andarmene via.

In ogni caso, come dicevo ci trascorrerò qualche giorno e, per quelli come me che non sono mai stati a Venezia, ho scritto una breve guida, una serie di indicazioni o di fun facts che dir si voglia, che possono aiutare a capirne qualcosa in più.


Il fatto che io non sia mai stato a Venezia mi rende più autorevole di tutti i “professoroni” che ci sono stati e chissà quanti errori hanno fatto nello scrivere le loro guide! Nel mio cv invece posso vantare di avere commesso 0 errori nel parlare di questa città. E se sbaglierò…beh, pensate prima agli errori che hanno commesso quelli che mi hanno preceduto.


COSE SU VENEZIA CHE NON SAPEVI DI VOLER SAPERE
– Venezia è nota per il fenomeno dell’acqua alta, che favorisce l’evasione dei pesci rossi che amano saltare fuori dalle bocce.
– I primi insediamenti nelle lagune risalgono al V secolo d.C., quando gli abitanti della terraferma si trasferirono sugli isolotti per sfuggire alle invasioni degli Unni che, in quanto barbari, non amavano fare il bagno e che quindi se ne tornarono indietro.
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– Molto nota è la storica cerimonia dello Sposalizio del mare, in cui il Doge gettava un anello nelle acque. Il Doge Frodo una volta perse una falange del dito nel farlo.
– Le strade veneziane si chiamano calli: un tempo gli acciottolati erano piuttosto scomodi e ancora non era nato il Dr Scholl.
– A Venezia esiste un ponte denominato Ponte dei Pugni. Il buffo nome deriva da una storica rivalità tra due famiglie veneziane, i Castellani e i Nicolotti, che si davano appuntamento sul ponte per scontrarsi. L’abitudine diede vita alla Guerra dei pugni. Poco nota era un’altra sfida, minore, tra i ragazzini delle due famiglie: la guerra delle pugnette.
– C’è un vicolo di Venezia (calletta Varisco) che è largo solo 53 cm. E tu pensi sia libero ma è occupato da una Smart.
– Il Ponte del Diavolo è stato chiamato così per via dei suoi gradini molto ripidi e pericolosi, che facevano appunto pensare a chi lo attraversava all’opera del signore degli Inferi. Il recente Ponte di Calatrava, invece, noto per essere molto scivoloso e causare cadute, è stato confidenzialmente soprannominato “Ponte della Madonna” perché ne fa pensare molte.
– Credenza popolare fornisce un’interpretazione delle differenti versioni del Leone di San Marco, emblema della città: una, col leone col Vangelo aperto, starebbe a significare che la Serenissima era in pace; una, col Vangelo chiuso, avrebbe indicato lo stato di guerra. Una terza versione, col vangelo chiuso sotto la zampa, indicava che il leone era zoppo e andava pareggiato.

Spero con queste note di aver offerto un quadro più chiaro a chi si approccerà a questa città!


Questo post non ha alcuna intenzione di offendere Venezia e i suoi abitanti. Per qualunque reclamo, comunque, sarò a disposizione con un apposito sportello online per tutta la giornata del 31 di aprile 2019. Si accettano prenotazioni.


Non è che i liguri in Ungheria chiedano la pasta a Pest

Sono stato a Budapest in settimana. Questa volta non per lavoro ma per un breve viaggio di piacere. Da quando l’avevo lasciata non vi ero ancora ritornato.

Non l’ho trovata molto cambiata, a parte un po’ di movimento per le strade: in questi giorni ci sono delle vive proteste per dei provvedimenti votati dal Parlamento. Il governo non risponde nel merito e sostiene che i manifestanti siano prezzolati e che dietro ci sia Soros (che a quanto ho capito secondo i complottisti è responsabile di un po’ di tutto, dal terrorismo internazionale alle doppie punte e la cellulite). Ho provato a chiedere a un manifestante a chi dovessi inviare i dati per essere pagato anche io per manifestare (un po’ di denaro in più fa sempre comodo) ma mi ha mandato a fa’ ‘n gulash.

Il gulash ovviamente l’ho mangiato ed è stata la cosa più salutare che ho mandato giù: come avevo raccontato all’epoca della mia permanenza in questo Paese, la cucina locale non è la più indicata per il salutismo. Le parole chiave sono grasso, maiale, cipolla, combinati in modi diversi ma col risultato sempre uguale: leggerezza e alito fresco tutto il dì.

Un’altra cosa che non è cambiata è che all’aeroporto c’è sempre e ancora l’imbarco poveracci: per le compagnie low cost, infatti, i gate sono posizionati esternamente alla struttura dell’aeroporto, in un capannone di lamiera (non riscaldato) raggiungibile con un percorso al freddo e al gelo. Per raggiungere l’aereo, poi, non c’è alcun autobus ad attendere i passeggeri ma un altro percorso al freddo e al gelo. E, per ricordarti che sei un poveraccio che sceglie le compagnie low cost con tutte le conseguenze del caso, ti fanno attendere al freddo e al gelo prima di salire sull’aereo.

Un’altra tradizione rispettata è che il mio zaino, come al solito, è stato messo da parte per un tampone rileva-esplosivo. È lo stesso zaino col quale da due anni vado in giro e che ha visto diversi aeroporti: sempre e solo nell’aeroporto di Budapest mi è stato, tutte le volte, controllato. Non so cosa abbia di sospetto solo per la sicurezza di quel posto.

Ho rivisto la mia CR, una sera a cena. Sono contento di averla trovata bene. Anche se con gli uomini continua ad avere contatti con gente strana: dopo aver chiuso con l’ingrugnito che si puntava un coltello alla gola per inscenare una sceneggiata degna di un melodramma, è stata con un tizio che prima di far sesso doveva guardarsi un porno. E dopo aver fatto sesso, doveva guardarsene un altro. Tra una pippa e l’altra, poi, gli scappava anche una pippata perché anche il naso vuole la propria parte.

Adesso, invece, lei è in contatto con uno che fa il fumettista e divide casa con la ex compagna, con la quale ha una figlia. Vivono da separati in casa, ma lui non può permettersi un’altra sistemazione e inoltre resta lì per la bambina. Per mantenersi disegna fumetti pornografici per una rivista: ogni tanto invia a CR qualche esempio di sua opera, domandando, poi: “ti imbarazza?”.

Praticamente è la versione nerd di quelli che mandano le foto del proprio cazzo credendo di far colpo.

Un’ultima considerazione: sono partito dall’Italia portandomi dietro una banconota da 1000 fiorini che mi era rimasta in tasca da quando me ne ero andato via. Sono tornato in Italia che nel portafogli avevo due banconote da 500 fiorini.

Più le cose cambiano, più restano le stesse.

Non è che l’erba dei pascoli vada a male perché va in vacca

Negli ultimi tempi mi dedico all’esplorazione dell’entroterra italico.

Lo scorso week end sono stato in terra abruzzese, attraverso le Gole del Sagittario. Erano un po’ arrossate, forse per l’umidità.

La prima annotazione da fare è che i paesini di montagna si assomigliano un po’ tutti per contesto e sistema di sicurezza.

Lo Stato Italiano, stante la penuria di FdO sul territorio, fornisce infatti agli abitanti di tali località degli scanner biometrici con cui analizzare i forestieri in transito.

Uscendo in strada, sono stato accolto dai commenti, non tanto discreti, di due efficienti signore-guardiane:

– E questo a chi è figlio?
– Non lo so a chi appartiene…

Buonasera, ho fatto io. Poi sono scappato prima che dessero l’allarme.

Quando ho raccontato l’episodio a un amico locale, mi ha detto che mi è andata bene che non dicessero Questo non è ‘taliano.


Nota bene: con “non italiano” non intendono di provenienza fuori dalla penisola ma “non del nostro villaggio”.

 


L’altra particolarità dei paesini di montagna, che ho già raccontato altre volte, è la presenza di un unico bar dove si radunano tutti gli abitanti.

Quello che ho visto stavolta era particolare: gestito come una cooperativa, con un sistema di tesseramento – Maroni non aveva inventato nulla con la Tessera del Tifoso: qui già prima c’era la Tessera del Beone – e aperto fino a quando il barista ne ha voglia. In inverno lui va a svernare altrove.

Biliardino con maglie dei calciatori che non si distinguono più perché sono annerite: vero esempio di calcio Balilla.

Vecchi che si infamano a vicenda giocando a carte. Vecchi che si infamano a vicenda giocando a bocce. Bambini che assistono perché è giusto che imparino quali sono i veri valori, come il rispetto dell’avversario finché non comincia a vincere. A quel punto va infamato.

Al bancone puoi chiedere di tutto. Tanto ti daranno o birra (Moretti da 66) o Campari o cicchetti di genziana o Ratafia. Il cocktail più elaborato che può servirti il barista è un Martini con la tonica, mischiati a caso. Tanto può capitarti una gassosa aromatizzata al Martini tanto invece un coma etilico.

Presenza immancabile, la persona più originale del paese: giubbotto con bandiera a stelle e strisce e cappellino girato all’indietro, stile Jovanotti anni ’80, che nelle sue battute di caccia vanta di abbattere cinghiali, cervi e draghi come fossero mosche. Quando vede un forestiero lo aggancia perché sa di trovare una persona nuova a cui raccontare le proprie mirabolanti vere false imprese. Gli altri osservano e sogghignano pensando “Oh, ha trovato una nuova vittima, questa sera non ci stresserà”.

La vittima in questo caso sono stato io. Mi ha seguito per tutta la sera. Ho dovuto fingere di morire per tornare a casa.

Alla sera mentre mi stavo dirigendo verso l’auto ho percepito una presenza inquietante dal prato alle mie spalle.

Mi sono girato ed era una mucca che ruminava osservandomi e pensando “Questo non è ‘taliano”.

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‘taliani a casa nostra

Non è che il geologo chiami un ortopedico per studiare una frattura

Una delle cose belle che ti insegna l’Islanda è la relatività del tempo.

Te ne accorgi mentre viaggi per chilometri e chilometri in mezzo al nulla. Ogni tanto qualche fattoria isolata, qualche cavallo capellone, qualche caprone che alza la testa e ti guarda con l’espressione di chi pensa tu abbia proprio un’aria da fesso.

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Acconciature discutibili (foto non mia)

Sembra tutto immobile da millenni. Eppure lì si muovono tutti gli elementi. Acqua, aria, fuoco, terra.

Gli abitanti si aspettano un paio di eruzioni in tempi brevi. Ne parlano come se stessero aspettando uno scroscio di pioggia.

C’è una spaccatura che si allarga di 2 centimetri all’anno e che sta a significare che l’America vuol allontanarsi dall’Europa. O forse è il contrario. O forse è un complotto degli scieanziatei che nottetempo vanno a scavare per perpetuare il grande complotto quando poi ormai lo sanno tutti che la Terra era piatta e poi si è fatta una mastoplastica additiva.

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Una frattura. Ahia chissà che male!

Che poi per viaggiare in mezzo al niente e vivere l’isolamento non c’è bisogno di andar tanto lontano.

Puoi avere la stessa sensazione spostandoti in Basilicata. Una volta Google Maps, che cerca sempre di far sì che tu non ti possa mai annoiare, ha tentato di farmi smarrire in qualche punto imprecisato del Potentino.

Essendo forse programmato per cercare sempre il percorso più breve, oppure sentendosi solo un gran burlone, invece di dirigermi verso una statale mi ha fatto scalare una montagna dove l’unico segno di civiltà era un distributore di benzina abbandonato da 20 anni almeno. La strada sembrava fosse stata vittima di un bombardamento (oltre che e di fenomeni bradisismici).

Ho pensato che se in quel momento l’auto mi avesse abbandonato sarei rimasto lì. Forse mi sarei rifugiato in una grotta e mi sarei dato al brigantaggio per sopravvivere.

Ed è proprio in questi momenti che capisci quanto sia relativo e poco significativo il tempo: perché non ti importa di arrivare prima, sarebbe meglio arrivarci sano e salvo.

Non è che l’erede al trono comprenda gli ultrasuoni perché è un Delfino

Nel precedente post avevo detto che avrei raccontato qualcosa in più sulla mia esperienza islandese. Ho riflettuto su cosa potessi dire:

– Che i giovani di Reykjavík amano sgommare ai semafori provando partenze da F1 e comportandosi proprio da kjavik?
– Che la birra è acquistabile solo nei negozi che hanno la licenza del monopolio statale, quella invece venduta nei supermercati fa al massimo 2,0 gradi, praticamente conviene sballarsi di RedBull?
– Che un tizio voleva a tutti i costi andare in giro in escursione con l’ombrello e credo a quest’ora stia sorvolando il Baltico, aggrappato al suo ombrellino?

E poi ho pensato di parlar di cetacei.

Le balene vengono nei fiordi dell’Islanda a trascorrere l’estate, mi han raccontato. Passano lì alcuni mesi per riposarsi perché non ci sono rotture di maglioni.

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Turisti sporcaccioni che lanciano tanga nell’oceano

Proprio pensando alle rotture di maglioni, ho chiesto alla guida che accompagna i turisti in nave a veder cetacei se tali attività non fossero di disturbo agli animali.

– Caghiamo di sicuro loro il cazzo.

Mi ha fatto capire.

Poi ha aggiunto:

– Ma, per quel che facciamo, al livello di una mosca per noi.

Io odio le mosche, quindi la sua risposta non mi ha rassicurato.

E poi mi ha spiegato come si approccia un cetaceo in modo da non arrecargli stress o non dargli modo di pensare che vogliamo andare in culo alla balena.

Innanzitutto non si usano metodi di ricerca tecnologici per trovarne una. Niente Tinder o siti di incontri, quindi. Si procede vecchia scuola: si naviga a vista osservando il pelo. Il pelo dell’acqua, s’intende.

In genere le balene salgono in superficie per respirare e poi si immergono per un periodo che va dai 5-6 agli 8-9 minuti. Dipende da che polmoni c’ha e se è fumatrice o meno.

Una volta avvistata si procede nella sua direzione e poi ci si ferma a debita distanza aspettando che riemerga.

Ma se l’animale non ha voglia di farsi vedere, vuoi perché si scoccia, vuoi perché non si è truccata o non si è fatto la barba e quindi si vergogna a non farsi vedere in tiro, può anche riemergere molto più lontano e fregarti! Questo è un chiaro messaggio che non vuole incontri ravvicinati e che quindi va lasciata stare.

Ricordate: se la balena dice No, vuol dire no. Non è tipo da far giochetti del tipo “Scappo perché voglio che tu mi insegua”.

Se invece è tranquilla e rimane in zona, la volta successiva che riemerge ci si può avvicinare di più. L’accortezza è quella di non tagliarle la strada passandole davanti: non è bello sentire una balena che ti bestemmia gli antenati e ti urla Chi ti ha insegnato a navigare?!.

Dopo averla seguita da dietro e aver appurato che si sente tranquilla, la si può affiancare.

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A quel punto lei ti guarderà un po’ di sottecchi come quando accosti qualcuno al semaforo che pensa tu lo voglia sfidare.

Dopo averti osservato e deciso che sei senza dubbio un parvenu, con uno sbuffo e una scodata si immergerà di nuovo, sdegnata, e filerà via come fanno i giovani di Reykjavík .

A quel punto sarà chiaro che i cetacei sono dei tamarri.

L’esemplare avvistato era lungo circa 7 metri. Pensate in città che scomodità sarebbe parcheggiarlo.

Non è che per il fotografo la prima impressione sia tutto

È settembre. È lunedì. Urge riprendere.

Il lavoro? No, il blog.

In questa nuova stagione ci saranno tante novità interessanti. Ci sarò io, sempre io e solo io. Sono tornato dalle vacanze carico di voglia di pensare soltanto a me. E con 4 kg in meno. È il peso di tutti i soldi che ho speso in Islanda (tendo a convertire tutto in spiccioli).

Non è settembre e non è lunedì senza la ripresa delle rotture di maglioni. Oggi mi ha chiamato un tizio dalla sede centrale, un tizio che ha due nomi di battesimo e un cognome che è formato da altri due nomi di battesimo. Praticamente è uno e quadruplo. Non ho fatto in tempo a rispondere, mi ha lasciato un messaggio in segreteria. Era mia intenzione richiamarlo dopo pranzo. Mi ha richiamato lui prima.

Voleva sapere degli sviluppi di un progetto di cui si era parlato a inizio estate:

– Gintoki, se ricordo bene ti avevano detto a giugno che non si poteva far niente e di riprovare a settembre. Quindi?

Quindi cosa? Oggi è lunedì 3 settembre. Mi chiedo secondo lui quando avrei dovuto vedere questi tizi.

Il problema lì su nella sede centrale della Spurghi&Clisteri SpA per cui lavoro è che ognuno per cui svolgi delle mansioni pensa di essere l’unico da servire e accontentare o, quantomeno, il primo della lista dei tuoi pensieri.

Io per ora ho solo una lista di postulanti e seccatori e costui ha fatto un bel balzo in classifica quest’oggi.

Pensare che una settimana fa ero qui:

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A spaventare i turisti vestito come un rapinatore.

Per lo scatto di questa foto fornisco alcune info per gli appassionati di tecnica fotografica:

– mi sono immerso con i piedi nel fiume per ottenere un maggiore realismo;
– l’effetto della cascata schiumosa e schiumante si ottiene con un paio di fustoni di Dixan rovesciati nell’acqua;
– gli occhiali a specchio servono alla fotocamera per prepararsi allo scatto mettendosi in ordine;
– il cielo è un allegro pomeriggio d’estate di Domodossola gentilmente fornito in prestito dalla Sovrintendenza;
– se ascoltate la foto al contrario il rumore della cascata sembra una canzone di Julio Iglesias.

La location è ovviamente islandese – qui ero a Gullfoss – ma potete ottenere ottimi risultati anche con una vasca da bagno e un secchio. Se poi non vi piacciono le cascate in alternativa potete andare uscire a prendervi un gelato.