Non è che serva essere musicisti per una nota di colore

Mi sono reso conto solo oggi che è parecchio che non salgo su un mezzo pubblico. Uno dei miei sport preferiti era osservare le persone. Chiedermi chi fossero e cosa facessero sulla base di qualche particolare.

A volte mi ispiravano un colore. Vedevo persone ‘nere’ o ‘blu’ o ‘rosa’ eccetera. In genere l’attribuzione del colore era sulla base dell’umore o del modo di porsi se chiacchieravano con qualcuno.

Le persone rosa, ad esempio, mi sembravano troppo svenevoli e stucchevoli nel loro parlare.

Le persone verdi non lo erano di rabbia, ma semplicemente neutre rispetto al mondo intorno. Quelle gialle caldo, paciose e rassicuranti.

Il viaggio su un mezzo, quando non avevo un libro con me, era accompagnato da tutta una fase di soliloqui interiori. Anche i miei monologhi mentali avevano un colore. In genere era legato al clima esterno, ma non sempre. Potevo avere pensieri positivi giallo-arancio anche con un temporale in corso, talvolta.

Il resto dipendeva anche dal contesto. A prescindere dal pensiero che avevo in quel momento, quello che mi spingeva mentre salivo o scendevo mi faceva vedere rosso. Che era il sangue che desideravo fargli scorrere dal naso.

Abbinare i colori alle persone mi fa venire in mente una filastrocca di Gianni Rodari che ci insegnò la maestra di italiano alle scuole elementari.

Io so i colori dei mestieri:
sono bianchi i panettieri,
s’alzano prima degli uccelli
e han farina nei capelli;
sono neri gli spazzacamini,
di sette colori son gli imbianchini;
gli operai dell’officina
hanno una bella tuta azzurrina,
hanno le mani sporche di grasso:
i fannulloni vanno a spasso,
non si sporcano un dito
ma il loro mestiere non è pulito.

Ho sempre trovato i colori un dato oggettivo, purché non si insistesse troppo sulle sfumature. Intendiamoci, in certi casi è utile essere precisi, mentre in altri distinguere un rosso carminio da un rosso cremisi o un blu petrolio da un blu anatra (ma poi le anatre non hanno la testa verde?) è una cosa di cui non me ne cale né tanto né poco.

Però a volte anche senza andare nel dettaglio dei pantoni non ci si trova d’accordo. Per me è rosso, per te è mattone. E va bene così, perché, parafrasando il bambino di Matrix che sosteneva di dover giungere alla verità, cioè che il cucchiaio non esiste, la realtà è che i colori non esistono.

Quindi, non esiste giallo, arancio o rosso.

Però secondo me il marrone sì.

Non è che per la rete idrica serva un’insegnante per valutare la condotta

Ho fatto ordine in dei cassetti per fare ordine dentro di me. Ho ritrovato delle vecchie pagelle. A rileggere quei giudizi fatico un po’ a rivedermici.

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Vivace. Irrequieto. Irruente.

In effetti ricordo che le maestre avevano parecchio da lamentarsi su di me. Ero una sorta di Bart Simpson.

Non ero scostumato né violento. Più che altro, per me la scuola era un momento di divertimento.

Figlio unico, non avevo cugini con cui giocare, non abitavo in un condominio dove c’erano altri bambini, non andavo all’oratorio e con l’attività sportiva avevo fallito. Insomma, non avevo molte altre opportunità di socializzazione e svago.

La scuola quindi era a disposizione mia e della mia vitalità. Delle volte, un po’ eccessiva.

In virtù di ciò mi sono guadagnato più volte la via del corridoio. Delle volte ci andavo di mia iniziativa, prima che la maestra potesse aprire bocca. Bastava vederla alzare la testa che capivo di aver esagerato e che per il tempo restante della lezione non sarei più stato gradito in classe. Una volta, invece, mi fregò: teneva la testa china sul registro e io ne approfittavo per lanciare palle di carta a un mio compagno. Lei mi invitò ad andarmene fuori a respirare un po’ di aria di termosifone esausto senza che in tutto questo avesse mai alzato lo sguardo e mi avesse visto. Pensai che avesse poteri paranormali.

I termosifoni valgono due righe di specificazione.
Quelli nelle classi venivano riverniciati ogni estate. La vernice aveva una fragranza al petrolio e pomodori pelati di scarsa qualità inaciditi. Tale odore ci deliziava durante la prima settimana di accensione del riscaldamento, cioè mesi dopo il lavoro fatto. Per fortuna a inizio anni ’90 non eravamo a conoscenza del potenziale tossico delle vernici e per questo credo ci siamo tutti salvati.

Quelli nei corridoi, invece, non venivano mai riverniciati. Quando erano accesi mi ricordavano una stufa alimentata a gomitoli di polvere.

Capii che la scuola non apparteneva solo a me quando mi capitò, per motivi diversi, di dover fare il giro di altre classi. Lì conobbi l’inibizione e l’imbarazzo dello stare sotto lo sguardo altrui. Gli altri bambini ti guardano sempre con un ghigno beffardo come se ti avessero messo una gomma da masticare sulla sedia. Una volta mi successe di essere ospitato una intera giornata in una di quelle classi, un giorno che tutti gli altri erano in gita e io e altri 4-5 tapini che non partecipavamo all’uscita fummo diasporizzati e deportati. Mi bastarono 10 minuti per portare casino&confusione anche tra quelli che per me erano degli estranei.

Non era tutto un divertimento.

C’erano in classe un paio di bambini un po’ bulli e maneschi. E non capivo perché mi sembrassero godere di una certa impunità; insomma, io dovevo sorbirmi le reprimende di Madre, cui le maestre un giorno sì e uno no ripetevano, fuori scuola, Vostro figlio ha fatto questo, vostro figlio ha detto quest’altro e loro non venivano mai richiamati?

Poi un paio di volte ho visto a scuola i rispettivi padri di costoro.

Erano dei tipi aggressivi. Uno le dava di santa ragione al figlio ogni volta che a casa perveniva un richiamo. Anche l’altro non era da meno.

Quando li vidi capii la fortuna che avevo nel poter essere rimproverato.

Non è che la foca monaca non possa essere laica

Non sono mai stato a scuola dalle suore. Le persone che ci sono state hanno tutte ricordi orribili, tra punizioni corporali e minacce del tipo «Se ti comporti così tua madre muore».  Certo, magari sono metodi educativi che io non comprendo, ma se questi che conosco da adulti si sono scristianizzati o sono diventati bestemmiatori seriali, forse qualcosa non ha funzionato. Ma il mio potrebbe solo essere un bias cognitivo.

Oggi sono andato in una scuola gestita dalle suore. La dirigente, o Madre Superiora o non saprei come altro definirla, minacciava i bambini con frasi tipo «Voi sprecate il cibo e in Africa non hanno niente. Dovrebbero rinchiudervi a vita in un collegio senza mangiare e senza bere». Il discorso era rivolto a tutti ma il dito era puntato contro uno dei bambini più piccoli, che si rendeva ancora più piccolo e stava per scomparirmi davanti. Un fenomeno fisico affascinante.

Per la mia presentazione avevo bisogno di far scorrere delle diapositive in PowerPoint. Avevo pensato di chiedere a uno dei bambini di farmi da assistente, ma la suora ha intimato loro di non muoversi, sgridandoli e invitando una maestra a mettersi al pc.

Ho chiesto alla maestra di scorrere le slide su e giù quando glielo chiedevo. Ho visto lo smarrimento formarsi nei suoi occhi. Un altro fenomeno fisico affascinante!

Le ho detto «Usa le frecce». Lei ha iniziato a muovere a caso la freccia del mouse sperando che accadesse qualcosa. Perché non lasciano fare le cose ai bambini, che ne capiscono di più?

La suora superiora con me è stata invero molto gentile. Mi ha fatto trovare il caffè, servito con il servizio buono, e i pasticcini. Non smetteva di ringraziarmi, di dirmi quanto ero buono, bravo e bello. Quando mi sono congedato mi ha abbracciato e baciato sulle guance.

E io nella mia testa pensavo che da piccolo per lei di sicuro sarei stato uno di quei bambini cui lei avrebbe prospettato di morire infilzato su uno spiedo gigante mentre dei diavoli mi arrostivano a fuoco lento, cantandomi nel mentre tutto il repertorio di Gigi d’Alessio.

Non ero un bambino scostumato né maleducato, ero vivace e avevo problemi a stare fermo a lungo e composto sulla sedia. Il più delle volte ero scomposto. Altre, decomposto (capita di svegliarsi la mattina in preda a una zombieficazione incipiente).

Eppure da grande sembra io sia diventato bravo buono e bello.

Sarà perché non sono andato dalle suore?

Non è che ti serva il navigatore per cercare la tua strada

Si avvicina la data del matrimonio del mio amico e io penso soltanto a due cose: il vestito e la busta. Che sommate mi danno SPESA. Anzi, GROSSA SPESA. Lo so che sembra un discorso gretto, ma ultimamente sono molto sensibile al tema della povertà. La mia. Attendo il momento per svoltare, come dicevano i giovani. Non lo attendo mani in mano, direi anzi che mi sto dando ben da fare. Ho solo l’ansia che una volta svoltato io possa trovare:

  • la via bloccata
  • una strada senza uscita
  • una brutta strada
  • un posto di blocco (nel caso decida per svoltare verso attività illecite)

Al matrimonio non sarà presente un altro mio amico. L’amico che si sposa mi ha detto che non ha pensato a invitarlo perché non è che poi negli anni ci sia stato chissà quale rapporto. Avevo quasi pensato di chiedergli di invitarlo, poi mi son detto che il matrimonio è il suo e non ho mica diritto a dire chi deve invitare e forse sarebbe stato anche poco rispettoso. Il non-invitato però si aspetta di esserci e temo il momento in cui dovrò essere io a dire che è un non-invitato. E più passa il tempo da quando ho saputo che fosse un non-invitato e più mi sento in colpa senza neanche aver capito per cosa in concreto.

Ho già parlato della mia attenzione verso la povertà. Purtroppo sono sempre stato molto distratto e incline a perderla, l’attenzione. Così se ho un surplus di denaro in tasca mi trovo a spenderlo. Ma vuoi mettere avere degli occhialini da nuoto specchiati? O un balsamo da barba al profumo di foresta canadese? Che io neanche ci sono mai stato e per quanto ne so quello che ho nel barattolo potrebbe essere profumo di Vergate sul Membro al tramonto.

Mi occupo anche della povertà in generale, quella seria di cui dovremmo preoccuparci tutti. Una insegnante mi ha fatto i complimenti «…per quello che fate. Meno male ci siete voi che li aiutate, così non vengono qua in Italia». Cara maestra, non è proprio così il concetto, sarebbe un po’ più lungo ed elaborato.

Missing the Point

In piscina, stasera, mentre sfoggiavo i miei nuovi occhialini specchiati che mi facevano sembrare un moscone, sono stato agganciato da IL FISSATO. È uno che si cronometra anche il tempo della minzione, stressa il figlio perché si muova a insaponarsi e racconta agli altri – cui non gliene può fregar di meno – dei km di corsa che fa a settimana. Io avevo appena messo il piede sulla scaletta per uscire dalla vasca, boccheggiando. Neanche il tempo di emergere dall’acqua che lui mi fa

– Senti, per andare più veloce che devo fare?

Io lo guardo perché penso mi voglia prendere per i fondelli. Non è che io sia proprio un sirenetto. La butto sull’ironia

– E lo chiedi a me?!
– Sì sì ti vedo veloce

Sconvolto dalla responsabilità che mi sta dando, provo ad azzardare una risposta tecnica. È una questione di scorrevolezza, è quel che vorrei dirgli.

– È una questione di SCIOGLIEVOLEZZA.

È ciò che ho detto. Sarà stata la carenza di ossigeno nel cervello o la cronica mia goffaggine sociale.

Adesso me lo immagino in un negozio Lindt alla ricerca della mitica scioglievolezza del Lindor.

Se è porno tolgo:

Non è che devi stare attento ai pedoni se superi i trenta

Avere trent’anni è la cosa migliore che potesse capitarmi. Consiglio a tutti di provarlo, prima o poi.

A livello fisico mi sento meglio ora che a vent’anni. Non mi danno neanche l’età che ho adesso: pensare che a 17 anni pensavano fossi fratello di mia madre, oggi mi capita di sentirmi chiedere se io abbia finito la scuola/l’università.

Sindrome di Benjamin Button a parte, l’essere umano che supera i 30 deve rendersi conto che il tempo vada contro di lui. La cosa migliore dei trent’anni è iniziare ad avere la consapevolezza di saperlo accettare. Accettare che non puoi più immaginare di diventare un medico, un avvocato, un astronauta o un fantino di giraffe.

Certo, poi ti rammentano esempi di persone che prima dei trenta non avevano realizzato nulla nella vita e poi hanno avuto successo, tipo Joseph Conrad che il vero successo l’ha ottenuto dopo i 30 e a 20 anni non sapeva neanche parlare inglese (figuriamoci scrivere) o Jeff Bezos che ha avviato Amazon a 31, senza contare tanti altri che hanno anche superato i 40 e oltre prima di ottenere qualcosa. Il mio preferito resta il Sig. Momofuku Ando che inventò i noodles istantanei a 48 anni.

A prescindere di questi casi singoli, tu trentenne però devi fare i conti con la prospettiva che il lavoro che hai è forse la cosa migliore che potesse capitarti considerando che forse non sei affatto così speciale. E non puoi prendertela con qualcuno per avertelo fatto credere, perché magari speciale lo sei stato anche ma solo in un dato momento nel tempo e nello spazio poi conclusosi. Hai capito che non puoi dare la colpa alla maestra che ti portava in giro per le classi per farti leggere quel pensiero così creativo e intelligente che avevi scritto nel tema, cosa che ti gonfiava l’ego ma ti imbarazzava anche molto perché affrontavi gli sguardi beffardi e perfidi di altri bambini che non aspettavano altro che prenderti in giro solo perché avevi una stringa della scarpa slacciata. Per superare la tensione adottavi lo sguardo selettivo: trasformavi tutti gli altri in una macchia sfocata di colore bianco e blu e facevi finta di non vederli.

Adesso hai superato i trenta e hai compreso che non sei speciale perché avevi quel potere: ce l’hanno anche gli altri e sono in grado di farti sparire dal loro campo visivo quando vogliono per renderti invisibile.

Cacchio. Avere trent’anni è proprio brutto.

 

Il vocaboletano – #1 – L’arteteca

Questa sera inauguro un ciclo di post frutto di una collaborazione tra me me medesimo felino e la blu crisalide77, che ha avuto l’idea di iniziare questo viaggio didattico nel mondo del napoletano.

Ogni settimana, a turno, presenteremo un vocabolo e lo spiegheremo nelle sue accezioni e sfumature.

Al termine del corso – gratuito, sottolineo – grazie alle conoscenze linguistiche acquisite con Il vocaboletano sarete in grado di confondervi tra i Napoletani e passare inosservati!

Il vocabolo di questa sera è l’arteteca.

Come tanti termini in dialetto, non è traducibile in italiano con una singola parola. Indica “uno stato di frenesia di una persona che non sa star quieta”.
L’arteteca, quindi, non è. L’arteteca si ha.
Si è solito infatti dire che Chill ten arteteca, Quello ha l’arteteca, cioè non sta fermo.

È molto usata nei confronti dei bambini che, si sa, sono irrequieti.


O almeno quando ero bambino io era concesso essere irrequieti.
Oggi invece a un bambino vivace diagnosticano 4-5 disturbi comportamentali tutti insieme.


Anche a me da bambino hanno molte volte diagnosticato l’arteteca.

Essendo figlio unico e non avendo coetanei nelle vicinanze di casa ogni occasione di libertà era per me una opportunità di svago. Persino a scuola, anzi, soprattutto. Avevo difficoltà a rimanere fermo e composto sulla sedia (una delle forme di costrizione più violente per chi ha l’arteteca è quella di dover rimanere seduto) e appena suonava la campanella di fine ora saltavo come se sotto avessi avuto un sedile eiettabile.

La mia vivacità generava tal fastidio nelle maestre che più volte sono stato da loro eiettato fuori dall’aula.

Non che a casa fossi più tranquillo, anzi.
Ricordo una volta, che tal era forse l’arteteca che mi scorreva nelle braccia, che riuscii a staccare un cordolo di marmo dal balcone dei miei nonni, semplicemente tenendolo con le mani e spingendolo e tirandolo verso di me, lento e costante. Gutta cavat lapidem, si dice per indicar un lento lavorìo di logoramento. Braccia scassan balconem, aggiungo io.

Credo di averne prese così tante ma così tante che non ne ho più ricevute a lungo perché ne avevo consumato le scorte.

Forse da lì cominciai a guarire dall’arteteca e a diventare una persona più tranquilla.

Anche se, delle volte, sento che mi ritorna a scorrere nel corpo e avverto irrefrenabile il bisogno di muovermi, di toccare, di danzare, di correre, di saltare.

Etimologia
L’origine del termine arteteca non è simpatica e allegra come si può pensare. Deriva infatti dal latino arthritica, che indica la febbre reumatica che comporta, tra le altre cose, la comparsa nel soggetto colpito di spasmi involontari agli arti.

Ci sarà stato qualcuno che, un giorno, vedendo una persona irrequieta gli avrà detto Che hai? L’arteteca? riferendosi ironicamente alla malattia e da lì il termine ha perso il significato originario fino ad acquisire quello per cui oggi è conosciuto.

Non è che la recitazione sia l’aforisma di un sovrano

Tra i traumi infantili che mi porto dietro c’è quello legato alle recite scolastiche.
Uno strumento di tortura psicologica sui bambini a uso e consumo esclusivo del sadismo delle maestre, il compiacimento delle madri e il delirio di onnipotenza del dirigente scolastico che deve pur farsi ricordare in qualche modo.

Beniteso, il mio è solo il giudizio sprezzante tipico degli emarginati, di quelli condannati a vita a interpretare un albero o un cespuglio. Io ero ancora più indietro nella scala gerarchica: potevo aspirare al massimo a fare l’ombra del cespuglio.

Tra le recite vergognose ne ricordo, a sprazzi e frammenti, una molto particolare che non so da quale gran-de-mente addetto alla regia sia stata partorita. Quanto sto per raccontare è tutto vero. Neanche la mia perversa fantasia sarebbe arrivata a tanto.

La recita, che coinvolgeva vari plessi scolastici, credo fosse una sorta di allegoria dell’Italia gaudente di quegli anni (son quasi certo fosse il 1993), contenente varie sottotrame: ricordo un mio compagno di classe riccioluto che leggeva finti notiziari interpretando Enrico Mentana e un’altra, che si chiamava Carmen, che andava in scena nel ruolo di un’improbabile “Carmen Lacugina”*, bambine scelte tra quelle che delle quinte sembravano più grandi per impersonare ragazze di Non è la RAI, un balletto coreografico sulle note di What is love di Haddaway e, per restare in tema con l’attualità, Poggiolini e il suo famoso lingotto d’oro**.


* Carmen Lasorella, volto noto del giornalismo televisivo di quegli anni.


** Breve flashback sulla Prima Repubblica: Duilio Poggiolini era il n.1 della Commissione farmaceutica della CEE ed elemento di spicco all’interno del Ministero della Sanità. Fu coinvolto in episodi di corruzione e tangenti ricevute dalle case farmaceutiche, oltre a vari scandali tra cui quello del sangue infetto (sacche per trasfusioni messe in circolazione provenienti da soggetti a rischio). Viveva in apparente sobrietà ma quando le FdO perquisirono il suo appartamento trovarono un vero e proprio tesoro (lingotti compresi) nascosto negli armadi, nei materassi e nel pouf.


Mancavano solo OK il prezzo è giusto!, Guido Nicheli, il cocktail di gamberi e il campionario trash nazional popolare era completo.

Non so di quanti reati – a cominciare dalla pedofilia – e quanti processi su Facebook oggi si macchierebbe una simile rappresentazione. Per fortuna erano gli anni ’90 e anche i genitori all’epoca erano più tolleranti: erano di quella generazione che se dicevi loro che la maestra ti aveva dato uno schiaffo se ti andava bene le davano ragione. Se ti andava male, ne prendevi un altro.

Che parte avevo io in questo carrozzone?
Io c’ero e non c’ero: ero dentro lo show ma al di fuori di esso. Recitavo nell’intermezzo pubblicitario tra i due atti.

Rimanendo in linea con i tempi storici, si trattava di una parodia degli spot Melegatti e delle Ferrari che regalava in premio.


Anche la pubblicità occulta credo vada aggiunta alla lista di reati.


Desideroso di mettere in mostra le mie abilità recitative, mi esercitavo nella mia battuta ogni giorno. Stressavo qualunque parente avessi a tiro per chiedergli di aiutarmi nelle prove. Quando venni abbandonato da tutti, al suon del sbrigativo “Ora non ho tempo, ho da fare”, passai a esercitarmi davanti allo specchio.

Non ricordo affatto cosa dovessi dire, rammento soltanto l’attacco: alla vista dei due tapini che recitavano con me, con dei pacchi di pandori tra le braccia, dovevo iniziare, con enfasi, dicendo “Ma come, non avete preso Melegatti?!…”. Anche qui è evidente il citazionismo: era lo stile stalker del supermercato che appare all’improvviso e chiede alla massaia perché mai abbia scelto un prodotto invece di un altro.

Provavo differenti pose e intonazioni.


Si prega di leggere le frasi seguenti con tono diverso ognuna.


Ma come?!
Ma come?!
Ma come?!
Ma dici a me?

A una settimana dalla recita, le maestre cambiarono le battute dello sketch. Non le ricordo, ma l’attacco era ovviamente diverso.

Non fu un problema adattarmi, per un professionista del mio calibro.

Quando arrivò il fatidico giorno io entrai in scena titubante. Le gambe tremavano un po’ per la tensione un po’ perché lo spazio tra il sipario e la fine del palco mi sembrava esiguo e avevo paura di cadere di sotto.
Arrivarono i due tapini dal verso opposto al mio. Io inspirai, gonfiai il petto e dissi, spalancando le braccia:
– Ma come?!
oh cazz (esclamai nella mia testa)
– No! (gridai)
E mi diedi uno schiaffo in testa.

Poi ricominciai da capo, stavolta con la battuta giusta, ma ci furono risate, qualche buu e qualche fischio impietoso da parte di quelli delle altre classi presenti in platea.

E quello fu l’inizio e la fine della mia carriera teatrale.

Note allegoriche:

  • Lo spettacolo si concludeva con “Enrico Mentana” e Carmen Lacugina che annunciavano a reti unificate che tutto il mondo proclamava la pace sempiterna
  • Poggiolini regalava il suo lingotto a una famiglia indigente
  • Una povera bambina che impersonava la pace, o forse il mondo o forse la pace nel mondo, che durante la coreografia musicale doveva saltellare sul palco indossando una calzamaglia integrale di lana grezza che le starà ancora oggi provocando eritemi da prurito e che sotto i riflettori era trasparente e mostrava i suoi mutandoni della nonna e l’adipe sulle zinne
  • Alla fine c’era il coro, di cui feci parte seminascosto: indossavamo il saio da Comunione – un’altra geniale idea della regia – che a me andava larghissimo perché me l’ero fatto prestare. Mi faceva sembrare un misto tra un fantasma e uno del Ku Klux Klan
  • La SNAI per eccesso di giocate smise di accettare scommesse sulle bestemmie dei padri costretti a trovare parcheggio in pieno centro storico e a subire tutto questo scempio.

Non è che il disegnatore attraversi sulle strisce a fumetti

Ultimamente in mezzo ai blog che seguo o, più precisamente, in mezzo a quella che è la cellula più attiva, mi sento in preda alla sindrome da spogliatoio maschile.

Tutti artisti. Tutti cui io guardo di sfuggita, metaforicamente, il pene. Comparandolo col mio.
Alidivelluto mi ha sbattuto in faccia il suo pisello, per chiudere il cerchio!

Molti disegnano.

Io non ho mai saputo disegnare, fatta eccezione per le scuole elementari quando i miei disegni venivano elogiati dalla maestra perché, al posto di disegnare la classica casetta con l’alberello e il sole, io disegnavo una casa che si spostava sulle proprie gambe, un albero parlante e un sole che, poverello, si lamentava della propria soletudine.

Purtroppo il mio stile è rimasto quello di un bambino.
Io lo so che è soltanto un inganno della mente, che tutti potremmo disegnare (certo non diventare Michelangelo), basta semplicemente spegnere la parte razionale del cervello e iniziare a disegnare con quella creativa. Forse prima dovrei disegnarmi un interruttore per switchare.

Com’è come non è, io disegno brutto.

E lo so cosa pensate: che non avete nulla contro la bruttezza né contro i brutti, sono persone come le altre. Anzi, voi avete amici che fanno brutto. Soltanto che, magari, potrebbero non ostentare la bruttezza. Facessero brutto in privato. Perché poi come spieghi a un bambino un adulto che fa brutto?

Ebbene, io da oggi rivendico il mio diritto a esternare la bruttezza e viverla in libertà. Per strada, sui mezzi pubblici, al parco. Ovunque.

Pertanto, voglio inaugurare una mie serie di strisce a fumetti. Brutte, ovviamente. Non so quanto durerà perché tendo ad annoiarmi presto di ciò che faccio.

Brutte strisce #1

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Il dizionario delle cose perdute – La Biribiro

Più comunemente nota come la penna multicolore, era un costoso e inutile strumento a disposizione dello studente, che la sfoggiava di fronte ai compagni di classe come uno status symbol. Se poi però ce l’avevano tutti mi chiedo cosa ci fosse mai da sfoggiare.

Era poco utile per scopi didattici ma molto apprezzata per colorare il diario con disegni, scritte e ghirigori.

I colori erano profumati con essenze che richiamavano odori naturali ma che erano frutto di qualche intruglio chimico di cui oggi forse subiamo gli effetti a lungo termine.

Non ricordo quando cominciò a esplodere la mania di questa penna nella mia classe, alle elementari. Fatto che sta che cominciarono ad apparire questi enormi siluri nelle mani dei miei coetanei. Siluri scomodissimi. Provate a immaginare la manina di un bimbo che stringe a lungo un simile affare. Tendinite del polso e inibizione del pollice opponibile garantite.

A ciò aggiungiamo che le molle per far scendere le mine sovente si incastrassero.

Alle maestre non piaceva, tanto da arrivare a interdirne l’uso durante le ore di lezione pena il sequestro. Non ho ben capito per quale motivo fossero da vietare. Va tenuto però conto che la mia era ancora una scuola vecchio stampo, con maestre nate durante la Grande Guerra che non si tiravano indietro se c’era da darti uno scappellotto, senza che arrivassero le telecamere di Barbara d’Urso a parlare della “scuola degli orrori & della violenza”, probabilmente perché sarebbe giunto un ceffone anche a lei.

Un sistema formativo abbastanza doloroso, seppur efficace.

Io non ebbi mai una penna multicolor come quella dei miei compagni. I miei genitori erano contrari a sprecare denaro in costosi e inutili oggetti di moda.

Posso dire che io non ero mainstream prima che il non essere mainstream diventasse mainstream.

Per venirmi incontro, comunque, ricevetti una volta una penna a quattro colori (blu, nero, rosso e verde). Esistevano penne di questo tipo anch’esse di marca. Ricordo ad esempio la Bic ne produsse alcune.

Ovviamente la mia era invece una cinesata.

La sua anonimicità fu tale da consentirle di passare inosservata agli occhi della censura delle maestre, cosicché continuai a utilizzarla anche a lezione, soprattutto durante i noiosi esercizi di matematica.

La maestra infatti aveva introdotto la regola che le unità andassero scritte in nero (chiudendo un occhio se qualche reazionario utilizzava il blu), le decine in rosso e, quando arrivò la scoperta delle tre cifre, le centinaia in verde.

Durante gli esercizi di scrittura numerica era un continuo cambio penna. Il conformismo di stato introdotto in classe dalla nomenklatura volle che tutti finissero così:

Ma non io.

Io, l’anarchico, il Pëtr Alekseevič Kropotkin della sezione A, con la mia grigia e anonima 4 colori cambiavo colore senza dover posare e cambiare penna.

Finché un compagno bolscevico, probabilmente per ingraziarsi l’Apparato, non mi denunziò per uso improprio di colori, ponendo fine alla mia libertà.

Continuai a usare a casa in privato la mia 4 colori, che però divenne inutile quando il blu si scaricò prima degli altri, seguito poi dal nero. Non sapendo che farmene del colore rimasto, persi di vista la penna finché non sarà finita forse in una discarica, dove tra 5000 anni quel verde color vomito di fumetto sarà ancora lì.

Alle scuole medie era ancora in voga l’uso della Multicolor da parte dei miei nuovi compagni. Non era vietato dai professori, anche se restava un oggetto ovviamente più utile per cazzeggiare e disegnare che per altro.

Non ho mai capito cosa ci fosse di bello in quella penna e perché poi piacesse così tanto alle ragazze. Vero è che, le donne non me ne vogliano, le femmine sono più inclini ad appassionarsi a qualsiasi minchiata (non fatemi parlare dei ciucciotti di plastica colorati. C’è un limite al trash in questa rubrica).

Non voglio pensare che fosse la forma simil-dildo di quell’affare a piacere tanto, come colorata iniziazione sentimentale con sé stesse alle soglie dell’età puberale.

Non è che l’età avanza e tu puoi conservarla in frigo

Ci riflettevo questa sera dopo l’allenamento. Al corso ci sono dei ragazzi del ’96. 1996, non so se ci si rende conto della cosa. Da quand’è che sono maggiorenni quelli del 1996? Quando io facevo l’esame di maturità, presentandomi alla commissione con dei pantaloni hip hop enormi, un bracciale borchiato al polso e una catena al collo, costoro erano alle scuole elementari. Me li immagino, col grembiule, tutti un po’ impacciati coi loro zainetti colorati seduti in banchi minuscoli.

E ora pensare che in teoria io con una del 1996 potrei legalmente uscirci a cena.

Sì ma poi di cosa parleremmo? Degli 11 anni che si è persa perché non c’era? Io i primi miei 5 anni di vita non li ricordo mica bene.

Ricordo i festeggiamenti per il secondo scudetto del Napoli, che tra l’altro neanche avevo capito cosa fossero, pensavo si trattasse di una festa popolare o una sagra paesana o una festa paesana o una sagra popolare, insomma c’era questo sventolio di bandiere, fuochi d’artificio e gente per strada e tutto ciò che mi chiedevo era se si svolgesse ogni anno questa celebrazione perché le bandiere e i fuochi mi piacevano. Alla mia domanda Madre rispose “Se il Napoli vince pure l’anno prossimo, sì” e io tacqui ma non avevo mica capito bene cosa c’entrasse il Napoli con una festa di paese.

Ricordo il Muro di Berlino. Anche qui manco avevo compreso gli eventi e credevo che invece di buttarlo giù lo stessero costruendo.

Ricordo il mio primo giorno di scuola, in cui entrai in classe accompagnato da Madre che mi aveva istruito sull’importante prova cui ero chiamato: all’ingresso mi avrebbero detto “Come ti chiami?” e io avrei dovuto rispondere fornendo il mio nome e cognome. Insomma, come un gioco di spie, con frasi segrete e parole d’ordine. Ricordo mi si avvicinò questa signora occhialuta che mi ricordava un po’ Nonna Papera che si chinò e pronunciò la formula di rito, alla quale risposi evidentemente in modo corretto perché poi fece un segno su un foglio di carta. Pensai fosse una pensionata che faceva volontariato nella scuola svolgendo questi compiti di accoglienza – già da bimbetto avevo sviluppato il caustico cinismo che mi contraddistingue – ma poi scoprii che era la maestra di matematica ed era la più importante della triade di maestre che ci educava.

La maestra mi chiamava “chiapparié”: non ha nulla a che fare con le chiappe, tranquillizzatevi. I chiapparielli non sono altro che i capperi. Non so che cappero c’entrassi con i capperi io, forse sarà stato perché ero piccolino e scuro (poi con l’età mi son sbiancato, un po’ come Michael Jackson).

Dalla maestra ho ricevuto anche qualche scappellotto. Meritato, a dire il vero. Roba che oggi farebbe accorrere le telecamere del Tg5 nella “scuola degli orrori”, causerebbe il licenziamento della maestra e porterebbe le mamme a organizzare un flash mob al grido di “Nessuno tocchi il bambino”.

Dovrei raccontare questo a quelli del 1996? Manco sapevo della loro esistenza, pensavo ci fosse stato un blocco delle nascite negli anni ’90; dicono tutti che la popolazione invecchia ma io mica me ne sono reso conto di essere invecchiato.

Ho deciso, dall’anno prossimo cambio rotta, cambio stile, scopro l’anno bisestile.

E voi cosa raccontereste a quelli più giovani che si sono persi gli anni in cui non c’erano? O cosa vi fareste raccontare? O cosa mi raccontereste?

Non è che se dichiari guerra al trasporto pubblico puoi gridare “All’Atac!”

(si intravede dietro delle alte mura una grossa cupola) Ehi, dove siamo qui?
– Questa è S. Pietro, oh.
– Dai dai scendiamo qui, su (scrollandolo per le spalle).
– Oh? (infastidito)
– Sì dai – schioccando la lingua* – qui ci sono i marocchini e io devo contrattare per una borsa.


Perché mai nei libri, quando qualcuno parla, deve sempre schioccare la lingua? Voi schioccate la lingua spesso mentre parlate? A me non succede, sono forse anormale?
La ragazza comunque non ha schioccato la lingua, l’ho scritto per capire che effetto e che tono desse al discorso ma il risultato non è stato come speravo.


Quelle riportate sono le uniche parole che sono riuscito a comprendere. Il resto del tempo loro e altri due ragazzi hanno parlato esprimendosi in pugliese stretto. È una dialetto che economizza sulle vocali: in pratica è come recitare un codice fiscale.


DIDASCALIA LINGUISTICA
Credo sia inesatto da parte mia parlare di un dialetto pugliese, viste le varianti esistenti dal Gargano al Salento: credo che quello che parlavano i 4 fosse foggiano.


Non avevo mai considerato S. Pietro come meta di pellegrinaggio del falso. Si apprendono sempre cose nuove nei momenti inaspettati, come accadutomi alle 14 di un attivo lunedì pomeriggio.

I mezzi dell’Atac non sono stati, a dire il vero, molto attivi. La metro A era interrotta mentre gli autobus procedevano come una canzone di Tullio de Piscopo: ad andamento lento. Persone che inveivano, individui rassegnati, turisti smarriti che pretendono di fare il biglietto a bordo come se stessero a casa loro. Qualcuno mi pesta il piede e mi chiede scusa, io con un cenno della mano e un sorriso do la mia assoluzione: le mie dita sono diventate come le antenne delle lumache, appena percepiscono il pericolo si rattrappiscono all’interno della scarpa piegandosi su sé stesse ed evitando il pestaggio.

L’aumento della densità interna dei mezzi quest’oggi ha portato a un incremento di personaggi interessanti come i foggiani che ho citato sopra.

Una signora cinese si reggeva in piedi aggrappandosi con una mano alla maniglia e con l’altra al pantalone del marito, ad altezza del pene o quantomeno dove avrebbe potuto trovarsi se l’uomo avesse l’abitudine di sistemarlo da quel lato. Al che mi sono chiesto: la signora cercava il pene del marito? Sapeva oppure che quella zona fosse libera e riteneva lecito aggrapparvisi? In ogni caso il signore e i suoi pantaloni non facevano una piega, io intanto ho distolto lo sguardo attirato da un folle che, sceso dal mezzo, ha tirato un calcio contro una paratia non so per quale motivo.

Sull’autobus delle 20 un anziano signore ha cominciato a parlarmi dopo che gli ho ceduto il posto. Ha esordito spiegandomi dei problemi intestinali e circolatori che lo portano a dover camminare molto durante il giorno, per poi raccontarmi – dopo che avevo dato delle indicazioni a due turiste straniere – dell’importanza di conoscere le lingue. Ha concluso infine raccomandandomi di fare attenzione a ciò che scrivono sui libri perché non sempre dicono la verità: lui tutto ciò che sa l’ha invece appreso dalla gente e dalla strada, perché a scuola c’è stato poco. Mi ha spiegato che mentre era in terza elementare il suo istituto fu bombardato durante la guerra e non ci tornò più.

Tra i due autobus ho incrociato una ragazza inglese che su un polpaccio aveva il tatuaggio del Tardis del dr Who.


Se non sapete di cosa sto parlando, correte a farvi una cultura. Meglio Tardis che mai.


Infine, su un altro autobus ancora, il primo della giornata, tra la folla in attesa sulla banchina ho inquadrato una ragazza che ho ipotizzato potesse essere napoletana. Quando l’ho sentita parlare, ho avuto conferma: era napoletana.

Ciò mi porta a stendere (con un gancio destro) un’altra teoria estetica dopo quella delle nanerottole svampite: noi napoletani siamo un gruppo etnico a sé stante e siamo riconoscibili ovunque. Mi è successo in molti luoghi, a Roma, a Bologna, a Milano, a Parigi, a Londra e anche a Nikko (Giappone): quando inquadravo qualcuno ponendo una scommessa con me stesso sul fatto che fosse napoletano, indovinavo sempre.


È una delle poche scommesse che vinco con me stesso, perché per il resto ho accumulato pesanti debiti di gioco e non so come ripagarmi.


Mi chiedo se sono riconoscibile anche io. Ricordo a proposito della riconoscibilità la maestra alle scuole elementari mi diceva “ti fai sempre riconoscere” e io non capivo cosa volesse dire perché mi conoscevano già quindi per cosa avrebbero dovuto riconoscermi? Ma questa è una storia che non riguarda l’Atac quindi non la riconosco.

Non è che i dentisti che hai incontrato sono scarsi perché sono medici per-denti

Una volta alle elementari in classe tra noi maschi scoppiò la moda delle pistole-portachiavi. Alcune di esse avevano anche un tamburo funzionante dentro il quale inserire un colpo esplosivo, che faceva il botto e lasciava puzzo di polvere da sparo per una giornata intera.
Invidioso, perché il sentimento che più è diffuso tra i bambini è l’invidia, decisi che dovevo averne una anche io.


Un gruppo di bambini è come una comunità preistorica: nessuno desidera nulla, finché un giorno non arriva nel villaggio qualcuno con infilato un osso nel naso e da quel momento tutti vogliono l’osso da infilare nel naso.

A pensarci bene forse funziona così anche per gli adulti.


Dopo aver dato molto fastidio a casa per avere anche io un oggetto di così tanto valore simbolico, mi feci accompagnare al tabacchi vicino la scuola dove ne uscii con una pistola-portachiavi replica di un trombone da pirata, così grande che aveva spazio nel tamburo per ben tre colpi.

Il ‘ferro’ destò l’ammirazione dei miei compagni – uno esclamò Wà cu chest può accir’r n’ippopot’m! (Wow, con questa puoi uccidere un ippopotamo!) – e mi garantì ben 5 minuti di celebrità durante l’intervallo. Non bisogna sottovalutare quei 5 minuti in cui si è al centro dell’attenzione, perché rappresentano molto nella vita di un alunno delle elementari. La società bambinesca è una lama di rasoio sulla quale cammini ogni giorno. Un passo falso ed è game over: puoi squalificarti agli occhi altrui per un niente a causa di un brutto paio di scarpe o di una parola sbagliata. Uno per aver chiamato “mamma” la maestra – tipico lapsus freudiano – dovette sparire per qualche giorno dalla circolazione per la vergogna. Lui disse che era influenza, ma nessuno ci credette.

Ma capirete che è dura mantenere un proprio status sociale dignitoso quando gli eventi remano contro di te. Puoi contrattare con Madre i metri di distanza dal cancello della scuola cui lei deve rigidamente attenersi per salvaguardare la tua dignità ma è tutto inutile: all’orario di uscita, come un black bloc, lei ignorerà il cordone di sicurezza e si fionderà all’interno. Sono questi gli esempi che vogliamo dare ai nostri figli? Che i divieti non si rispettano?!

Aggiungiamo che, tra l’altro, ero anche il più piccolo essendo stato iscritto a scuola a 5 anni e mezzo. Quei 6 mesi in meno fanno la differenza, in 6 mesi ti possono anche spuntare baffi e basette. O i denti nuovi.

La permuta degli incisivi per me era un gap importante. Invidiavo i dentoni altrui, anche perché io manco più gli incisivi da latte avevo, avendo avuto un incontro ravvicinato muso-pavimento all’età di tre anni che mi ha fatto capire che non si salta sui divani.

In compenso negli anni successivi ho sempre avuto una dentatura perfetta, non ho dovuto mettere l’apparecchio e i denti del giudizio mi sono spuntati tutti senza problemi e quindi il tempo galantuomo mi ha compensato.