Non è che per Italo Svevo le chiacchiere stessero a Zeno

Nel momento in cui mi prometto di smettere di fare qualcosa, sto già iniziando a farlo di nuovo.

È un po’ come l’ultima sigaretta di Zeno Cosini.

Eppur non si tratta di fumo o bere o altri vizi concreti. Non mi è difficoltoso evitare una tentazione concreta.

Ma il cattivo pensiero, il sentimento negativo, l’atteggiamento pernicioso, stati persistenti che convivono in me, sono basati su automatismi che non riesco ad aggirare.

E quindi ogni metaforica ultima sigaretta non lo è mai.

Anche il fatto di voler smettere di far qualcosa è diventato un vizio.

A volte, quando osservo le persone, mi chiedo se anche loro stiano combattendo un vizio nel loro intimo.


Nel mio intimo c’è vizio!


E mi chiedo se stiano vincendo o perdendo o pareggiando ai tempi supplementari.

Non è che il vento per alzarsi necessiti della sveglia

Ogni giorno alle 17:35 circa – che possono essere le 17:40 a volte o anche le 18 – esco dall’ufficio e nel tragitto da Visegrádi utca alla fermata del tram di Nyugati cerco di ricomporre mentalmente il puzzle dei pensieri della giornata lavorativa e al tempo stesso proiettarmi in avanti per le riflessioni del resto della serata, riflessioni che il più delle volte (ma non sempre) si limitano a questioni materiali come il cosa mettere insieme per l’attività manducatoria programmata-leggasi cena.

Una digressione dalla premessa che stavo scrivendo è che l’abitudine a camminare con la testa tra le bubbole mi ha aiutato a sviluppare una sorta di pilota automatico, che mi consente di distrarmi senza inciampare negli ostacoli o urtare passanti che tendono a essere troppo noncuranti del mondo che li circonda, tanto da venirti addosso come un treno sui binari che non vede null’altro che la propria via davanti agli occhi.


A questo punto la digressione merita un’ulteriore specificazione e anche se mi dolgo dell’essere prolisso e dispersivo non posso far molto se non tentare di fare economia di parole.


L’attitudine allo schermare in modo selettivo il mondo circostante è un’abilità messa continuamente alla prova dalla realtà che si rende sempre più invadente e che quindi porta a un continuo inseguimento tra visibilità e invisibilità, come l’eterna lotta tra Wile E. Coyote e Beep Beep.

Stazioni della metropolitana e sottopassaggi sono ricovero di molti senzatetto.
Veramente tanti.
Ogni giorno migliaia di persone sfrecciano come dei treni alta velocità tra questi percorsi in mezzo a gruppi di esseri umani visibili ormai come né più né meno che complementi di arredo urbano.

I clochard sono quasi tutti cittadini ungheresi.
Il che spiega perché si costruiscano muri alle frontiere: che almeno i senzatetto abbiano delle pareti intorno.

Lungi da me esibirmi in critiche su un Paese che non conosco affatto; la riflessione generale che era nata in me e che mi ha accompagnato nel ritorno a casa – insieme alla decisione se perdere o no una serata intera per fare il sugo con le melenzane – è quale sia il parametro per la scelta delle battaglie  di civiltà della società.

In parole povere: cos’è che orienta il pensiero collettivo verso questa o quella tematica cui dedicare partecipazione emotiva? Meglio un cane maltrattato oggi o un senzatetto assiderato domani? Un naufragio collettivo o un’adozione singolare?

Una corrente continua di opinioni spesso caratterizzate da un livore indurito e acido che sferza il lettore/l’ascoltatore


Ma se tutti hanno opinioni da esporre, c’è ancora qualcuno che legge/ascolta?


come un vento di tramontana.


La questione del livore mi prende a cuore particolarmente perché tento sempre di ricostruirne l’origine, attività inutile in quanto molto spesso non c’è un momento fondativo dell’odio ma è semplicemente un incanalare delle pulsioni che, in assenza dell’oggetto dell’odio, troverebbero altro cui dedicarsi.


Come il vento di cui invece non so il nome che questa sera ho trovato uscendo dall’ufficio e che mi ha fatto invaginare ancor più in me stesso tra giubbotto e scaldacollo. La stessa reazione che causano su di me certe opinioni.


Invaginare.
Lo trovo di una bella portata evocativa. Non inteso in senso anatomico: la vagina era il fodero della spada, quindi invaginare è l’atto di inguainare, riporre nel fodero protettivo.


Non è ghe se non ho nulla da dire poi mi bloggo/Non è che il pescatore non abbia dei polpi da maestro

Leggo più blog di quanti io ne commenti o lasci un mi piace. Ognuno parla di sé in un modo: chi si racconta molto, chi poco, chi per niente, chi crede di non dire nulla e dice molto.

Io considero il blog come un diario e, quindi, racconto di me. Sono il tipo che può costruire un intero post sul fatto che è entrato in un Caffè. Ma non dirò che sono entrato in un Caffè, ma che sono entrato in un Caffè e ho fatto Splash!.

Perché questo è  il modo in cui io vedo la realtà: cioè io realmente quando entro in un Caffè penso Ehi, ho fatto Splash!.


A scanso di equivoci, so anche essere normale. Non penso cose deliranti tutto il giorno. Va bene che la stramberia oggi è cool, ma a tutto c’è un limite.


Anche se forse è passata di moda. Oggi è figo dire di avere l’ansia. Da ansioso chiedo: cosa ha di bello l’ansia? Perché forse non l’ho mai guardata con occhi giusti.


Non racconto proprio tutto tutto. Ad esempio, non scrivo di quante volte mi metto le dita nel naso al giorno.


E Dita von Teese le metterà le dita nel naso? Quindi sarebbe dita al quadrato (le dita di Dita)?


Non per pudore (non avrei problemi a dirvelo se me lo ricordassi), ma perché rientra in quelle cose di poco interesse perché facciamo tutti ma che fingiamo di ignorare. Un po’ come voi donne fingete di ignorare le cose ignobili che fanno i vostri uomini.


Sapete a che mi riferisco. Tipo che stanno sempre a grattarsi tra le gambe. Che io ho una mia teoria: non è per scarsa igiene (spero) o per indumenti scomodi (la grattata non va confusa con la sistematina, dovuta al fatto che le cose spesso non stanno ferme e, un po’ come un politico trasformista, possono passare da destra a sinistra al centro con facilità). È semplicemente come per gli animali che si strusciano sulle cose per spandere il proprio odore. Secondo me grattarsi lì sotto serve a liberare degli ormoni nell’aria. Tant’è che dopo l’uomo si annusa la mano, con vivo compiacimento.


A prescindere da quel che racconto, non vi sto comunque dicendo nulla.
È come mostrare una fotografia che mi ritrae a cavalluccio su un dondolo. Non è che la fotografia dopo non sarà più mia una volta che qualcuno l’ha vista oppure che qualcuno possa ricavare un’idea di me aderente alla realtà soltanto per quella foto. Lo stesso dicasi per il condividere un’idea, un pensiero, un ricordo o un’esperienza.

Lasciare tracce di sè è come distribuire delle molliche agli uccelli. Potrà il piccione ricostruire la forma del pane dalla singola briciola che ha ingerito? Tanto di becco se ci riesce, portatemelo questo volatile che poi mi ci scatto un selfie perchè oggi se non mi scatto non esisto.

Tutto questo preambolo (la conclusione sarà molto più breve, garantisco) è per dire che se questo vale per un blog, varrà anche per la vita reale. Le persone possono realmente conoscersi l’una con l’altra?

Ogni giorno interagiamo in contesti diversi e con persone diverse.
Il mio me stesso al lavoro, il mio me stesso a casa, il mio me stesso col partner, il mio me stesso in fila alla posta. Tutti questi noi stessi che lasciamo in giro come peli di gatto siamo noi stessi?

Vorrei conoscere il vostro pensiero.


Minchia, come ti è venuto questo pippone?
Semplicemente parlando di tentacle porn giapponese con la CR.
Dopo mi son chiesto che cosa poi potesse pensare lei: che sono uno dedito alla visione di tentacle porn? Avrò fatto una faccia sufficientemente disgustata mentre lei cercava esempi su Google immagini per dissuaderla dal pensare una cosa simile?
E poi ho pensato: me ne importa realmente qualcosa dell’immagine che possa formarsi in lei di me?


Siamo finiti a parlare di ciò discutendo di come i giapponesi siano repressi sessualmente ma, in contrasto, grandi pervertiti e dove l’industria del porno è sviluppatissima.
Un esempio è avere sviluppato tutto un filone pornografico sul porno coi tentacoli, partendo come fonte ispiratrice dalla famosa stampa di Hokusai Dream of the Fisherman’s wife.

Lei si è mostrata molto interessata e ha subito voluto cercare su internet esempi.


Siamo finiti a parlare di sessualità giapponese parlando di convenzioni sociali e morale pubblica, facendo considerazioni su come all’estero ti guardino male per determinate azioni, tipo non stare dal lato giusto della scala mobile ecc.


Non è che hai le idee di Michael Jackson solo perché riesci a schiarirtele

Sono uscito per la mia consueta passeggiata domenicale, questa mattina.
Anche se non so se due volte possano costituire una consuetudine: quand’è che inizia? C’è un momento in cui un agire diventa consuetudine?


Mi ricorda la storia del paradosso di Eubulide sul mucchio di sabbia: ne esistono varie versioni, in sostanza esse dicono che se tolgo un granello di sabbia da un mucchio, esso è ancora un mucchio, ne tolgo un altro e lo è ancora, ecc. ecc.. Quindi, quale è il momento in cui il mucchio non lo è più, considerando che IL granello non È il mucchio?


Uscendo di casa, ho constatato che il cortile interno del palazzo dove vivo ha un che di inquietante.

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Un tempo dovevano esserci delle attività commerciali lungo i lati e il portone doveva esser sempre aperto per il via vai di persone: c’è ancora lo scheletro di qualche insegna a ricordare il tutto.

La sedia a rotelle che si nota a sinistra è sempre lì. Giace abbandonata e impolverata.

Non incrocio mai gli altri inquilini, né li sento muoversi, parlare, agire. L’unico segno della loro presenza è costituito dai cassonetti della differenziata che si riempiono. A volte tutto il complesso sembra un luogo fantasma. Forse prenderà vita di notte.


A scanso di equivoci o di attacchi d’angoscia: non è così lugubre e la zona intorno è abbastanza viva.


Colto quindi da questi pensieri melanconici, mi sono recato nuovamente a Buda, deciso a percorrere stavolta vie che i turisti non battono neanche ai calci di rigore.

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Le persone mi trovano strano quando dico che, delle volte, amo le strade deserte, gli alberi spogli, il cielo grigio e l’orizzonte fumoso.


In pratica lo scenario che ho trovato oggi. Penso eleggerò questa strada a “mio” posto. Il “mio” posto è un luogo che, seppur frequentato da altre persone, è considerato dal punto di vista emotivo una proprietà personale, in quanto gli altri non ne coglieranno la stessa specificità.


Allora evito di raccontarlo per non apparir a-normale, ma è uno sforzo inutile in quanto la gente riuscirà sempre a trovarti addosso qualcosa di strano, come un poliziotto corrotto che durante una perquisizione ti infila in tasca una bustina di droga.

Ho poi incontrato una cornacchia lungo la strada.

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Volevo catturarla in una foto, ma ogni volta che le puntavo contro il telefono zampettava più avanti al momento dello scatto. Ha rifatto tre volte lo stesso gioco, poi si è fermata, mi ha lasciato scattare e dopo se ne è volata via.

Amo queste passeggiate perché concorrono a un percorso di deframmentazione della mente. Schiariscono le idee permettendo di compiere un check di tutto quello che si è accumulato, rimettendolo al posto giusto.

Quando cammino senza una direzione la mente è libera nel suo riordino in quanto l’attenzione non è focalizzata su essa.


L’atto di pensare che si sta pensando costituisce una limitazione del pensiero.


L’attività motoria della deambulazione è quindi un buon sistema di deconcentramento.

Quando infine l’umidità ha iniziato a esser eccessiva – me ne sono reso conto dai baffi che cominciavano a gocciolare – ho ritenuto opportuno rincasare.

Non è che un rugbista possa girovagare senza meta

È il mio ultimo mese di permanenza a Roma.
Per adesso.

Un po’ mi mancherà questa casa che tanti spunti per aneddoti interessanti mi ha fornito. Ultimamente però non ho altre curiosità da raccontare. A parte che la cinese ha passato lo scorso week end a Firenze con un “amico”: il fatto che abbia rimorchiato e sia partita per un w/e mi ha sconvolto.

Poi ho capito che si trattava di un altro cinese che va alla scuola di italiano con lei e la cosa mi è sembrata più normale, così come il fatto che in questi mesi il suo italiano sia addirittura peggiorato: se parla solo con connazionali, non fatico a crederlo.

Coinquilino invece in vista della mia partenza mi ha chiesto aiuto nel reperire un altro inquilino, chiedendo se io potessi sondare nel mio ambiente, perché vorrebbe in casa un altro che si occupa di cooperazione.

Una richiesta un po’ strana: è come se uno dicesse “Voglio affittare casa solo a un assicuratore”, oppure “A uno che progetta impianti termoidraulici” e così via.


Gli ho detto che gli avrei fatto sapere, la classica formula evasiva che uso quando in realtà non farò sapere un bel niente.


Perplesso, comunque, sono uscito per una passeggiata. Poco più in là di casa, degli operai stavano ritinteggiando la segnaletica stradale della fermata dell’autobus. La vernice si asciuga in pochi minuti: uno degli operai, per constatare la cosa, con la suola calpestava le strisce. Ho desiderato in quel momento di farlo anche io: l’operaio mi ha rivolto un’occhiataccia come se mi avesse letto nel pensiero e questa cosa mi ha preoccupato perché a volte ho proprio l’impressione che le persone mi leggano nella mente.

Ho girovagato senza meta.

A un certo punto non so perché sono entrato in un outlet non visibile dalla strada, cui si accede scendendo delle scale. Ero convinto di poter fare qualche affare, perché gli affari migliori li ho sempre fatti quando non avevo intenzione di comprare qualcosa.


O forse è una giustificazione per gli acquisti inutili.


Era una boutique per donne. O forse l’abbigliamento maschile era nascosto in un ripostiglio.


Comincia a infastidirmi questa cosa che nei negozi di abbigliamento i vestiti da donna siano all’ingresso e quelli da uomo o in fondo la sala o al piano superiore o, infine, a quello inferiore.


mara-carfagnaUn commesso che somigliava a Domenico Dolce mi ha guardato scrutandomi come fanno i poliziotti all’aeroporto. Una commessa che somigliava a Mara Carfagna – con il medesimo tipo di cranio che sembra si stia rimpicciolendo causando quella inestetica impressione che gli occhi stiano per uscire dalle orbite mentre forse è solo l’abuso di cocaina a renderli così – non mi ha nemmeno guardato.
Sono andato via.

Deciso a dare una seconda possibilità al mio istinto, sono salito su un autobus a caso. Ho assistito con vivo compatimento al tentativo di un paio di turisti tedeschi di obliterare il biglietto, fino a che non mi sono deciso a dirgli che la macchinetta credo fosse andata in tilt.

Sono sceso a Piazza del Popolo e poco più avanti ho trovato un negozio equo-solidale in cui mi sono infilato, per uscirne con paté al peperoncino e un infuso balsamico che non so quando utilizzerò perché le cose balsamiche mi nauseano. Faccio uno sforzo sovraumano per riuscire a sopportare una Halls, quando capita, nonostante la prenda a causa del naso otturato e la gola in fiamme.

Il proprietario equo-solidale mi ha trattenuto mezz’ora a parlare. Nel negozio c’era in diffusione La isla bonita di Madonna. Lui fa: “Qui dentro siamo rimasti agli anni ’80…”. “Vedo”, dico io, ridendo.

Da qui poi è iniziata una conversazione senza né capo né coda che è partita da un’apologia degli anni ’80, culminata con la visione dello spot del primo Macintosh del 1984 che il proprietario ci ha tenuto a farmi vedere su YouTube (lo spot, non il Macintosh), passando poi per lo spot Superga del 1997 con la musica dei Prodigy, attraversando riflessioni sull’arte come forma di comunicazione figlia del proprio tempo, per finire col proprietario che vuole aprire un outlet dove il vero proprietario – secondo lui – deve sentirsi il consumatore. Nel senso che il cliente entra nel negozio e deve sentirsi a proprio agio, si collega con lo smartphone alla rete del negozio e mette in diffusione la musica che vuole; se poi fa pubblicità al negozio sui social network, ottiene il 20% di sconto.


Ha detto anche altre cose sul suo progetto ma non mi dilungo.


Sono andato via contento di una cordiale chiacchierata ma chiedendomi, ancora una volta, perché io, dall’aspetto così taciturno e perennemente sulle mie, ispiri conversazioni agli sconosciuti.


Non è che ti possa bastare un’ascia per accettare il dolore

Come mi vedo

Martedì ho il colloquio con la Serbellons Mazzant Comesfromthesea. È una roba grossa, anche se poi tecnicamente lì dentro sarei rilevante quanto Jar Jar Binks nella seconda (in ordine di produzione)/prima (in ordine cronologico) trilogia di Star Wars.


Se non avete capito il mio esempio da una parte è un bene perché vi posso assicurare che l’idea che uno come George Lucas abbia pensato a un personaggio così ridicolo è difficile da accettare, dall’altra è un male perché vuol dire che non siete cultori di Star Wars e ciò mi spinge a guardarvi con sospetto.


Da sempre (probabilmente già da quando ero nell’utero materno, al pensiero di dover nascere), quando devo affrontare un evento importante (esami/colloqui/appuntamenti) tendo ad attraversare 5 fasi come quelle del dolore, applicate però all’ansia anticipatoria.

1. Sfiducia. La Sindrome di Charlie Brown.

2. Preoccupazione. Questa è la fase ossessivo-compulsiva, in cui la mente prova a pensare-pianificare tutte le cose da sapere/fare per prepararsi all’evento.

3. Ottimismo. A un certo punto, in maniera del tutto improvvisa e immotivata, come se fosse una scarica di endorfine arriva un picco di ottimismo.

4. Terrore. Quando si scarica l’ottimismo, arriva la voglia di fuga. Sarebbe bello se qui ci fosse un errore di vocale, ma purtroppo l’unico bisogno che avverto in questa fase è quello di fuggire e sottrarmi alla prova.

5. Menefreghismo. In un arco di tempo che può variare dalle 24 ore sino al minuto precedente l’evento ansiogeno, subentra il menefreghismo totale. Mi ucciderà questa cosa? No? E allora chi se ne frega.


Realizzare che le cose che facciamo non ci uccideranno né metteranno a repentaglio la nostra incolumità è un grande passo. È probabile che mi uccida un’auto mentre attraverso la strada per andare alla sede del colloquio, ma non certo il colloquio in sé: eppure la mente umana ha uno strano modo per scegliere le proprie priorità e preoccupazioni e sembra che la mia vita invece dipenda da ciò che avverrà mentre sarà seduto su una sedia a farmi valutare da una sconosciuta.


Il tizio (perché il mondo ruota tutto intorno a tizi e tizie) che fa da consulente che è riuscito a trovarmi questa opportunità, non è stato molto utile riguardo i dettagli. Non ha saputo dirmi a) chi fosse la tizia che mi fa il colloquio (una cosa risolvibile per lui con una telefonata o con un minuto su Google, come ho fatto io); b) a quale settore/dipartimento facesse capo; c) che figura nello specifico stesse cercando.

Lui, inoltre, le ha scritto in italiano; io le ho scritto in inglese visto il suo nome e cognome e considerato che è di oltre-oltreoceano (bisogna scavalcare due oceani per raggiungere casa sua, insomma): quando l’ho detto al tizio, lui ha fatto “Ah bravo, hai fatto bene, infatti volevo dirtelo”.
E perché non me l’hai detto? Pare che stai a fare un altro mestiere.

E quindi ho capito che se mai riuscirò a vincere le mie 5 fasi dell’ansia, da grande voglio essere un tizio. Uno che fa qualcosa ma che non si sa che cosa faccia.

I miei elenchi sono solo chiacchiere e distinzioni, direbbe De Niro / Conversano (Bari) è una città molto chiacchierata

Conversare con le persone a volte è un’attività faticosa. È difficile trovare qualcuno con cui parlare che sia sulla nostra stesse lunghezza d’onda e che, soprattutto, non ti innervosisca.

A me, ad esempio, danno molto fastidio quelli che quando ti parlano ti toccano. Ne esistono due categorie: quelli che ti tengono per il braccio e che sembra ti stiano minacciando e che io chiamo gli Estorsori, perché hanno lo stesso atteggiamento intimidatorio di uno che ti sta chiedendo il pizzo. Esercitano una pressione tale sul braccio da lasciarti i lividi. Poi esistono i Pugili, quelli che ti danno dei colpetti un po’ dovunque e sembra vogliano prenderti per sfinimento fisico.

Fin qui siamo a un livello base di conversazione e costoro sono dei principianti: le vere persone minacciose non hanno bisogno di toccarti. Ricordo più di una conversazione con soggetti Zidane, quelli che mentre ti parlano dondolano la testa avanti e sembra che siano lì per lì per volerti dare una capocciata. Ma la loro abilità sta nel non colpirti mai, ma nell’intimorirti al pensiero che possa accadere.

Ma quelli che temo di più sono i Wind of change: il loro alito può cambiarti la giornata. In negativo, ovviamente. E sembra che la mefiticità del loro alito sia inversamente proporzionale alla distanza con cui sentono il bisogno di parlarti.


Cioè legge di Murphy: più ha l’alito cattivo, più ti parlerà vicino.


E con questa seconda carrellata ho esaurito anche la fascia intermedia della classifica delle persone con cui evitare di chiacchierare: come si evince, costoro non sono il top della conversazione, in quanto le loro abilità fastidiose puntano tutte sull’area delle sensazioni fisiche e non si concentrano sul fondamento stesso della chiacchiera: la parola.

In questa categoria che definirei dei pesi massimi inserirei Le valanghe. Le valanghe sono inarrestabili: l’unico metodo per salvarsi è evitare di percorrere un sentiero pericoloso. Se avvistate un soggetto simile a distanza, cambiate rotta o vi investirà con una valanga di chiacchiere.

Il soggetto valanga ha un bisogno compulsivo di tenere le corde vocali a pieno regime. Se è costretto a stare zitto a lungo – ad esempio al cinema – soffrirà in maniera tremenda. Alla prima occasione riprenderà a parlare come fosse stato in silenzio per vent’anni invece che per un paio d’ore. I soggetti più abili, se interrotti, sono in grado di riprendere dal punto esatto in cui si erano fermati anche se è passata un’ora.

Esistono poi le valanghe che ti pigliano per i fondelli. Sono quelli che non solo non ti fanno dire neanche una parola perché sono così sovrabbondanti, verbosi e prolissi da riempire interamente la conversazione, non solo sprecano il tuo tempo, ma che poi alla fine ti dicono anche “Senti non dirmi niente ma sono di fretta, scusami, devo andare” come se fossi stato tu a far perdere loro il tempo.

Più o meno è questa la pacata reazione che mi viene in mente in queste occasioni.

All’estremo opposto c’è il soggetto Gioia di vivere. Qualsiasi cosa tu possa dirgli non lo smuoverà affatto, resterà impassibile e con lo sguardo spento dando l’impressione che non stia affatto ascoltando. Ogni tanto dà segni di vita con commenti elaborati quali ‘mh’, ‘ah’, ‘sì’. Se ha energie sufficienti potrà dire ‘capisco’, oppure ‘ho capito’ (anche se è più probabile si limiti a un ‘capito’ perché due parole in fila sono troppe per lui).

Se l’Universo tendesse alla perfezione, valanghe e gioiosi dovrebbero sempre accoppiarsi. Tanto i primi non hanno alcun bisogno che qualcuno partecipi al discorso. Se potessero, parlerebbero anche con una sagoma di cartone.

Ma i migliori sono gli Egocentrici. Quelli che mentre tu gli stai raccontando una cosa personale, interrompono dicendo “Eh sai pensa a me è successo questo…” e cominciano a parlare di cose che non c’entrano nulla con quel che tu gli stavi dicendo ma che servono all’egocentrico a riprendersi la scena che per un attimo sentivano sottratta dal tuo racconto personale.

Bisogna compatire costoro. Agli egocentrici è stata asportata la capacità di ascoltare. Cosicché non sono in grado di stare in silenzio a lungo mentre qualcuno parla.

C’è poi l’Egocentrico Esibizionista: costui non si sovrappone ai discorsi altrui, ma interviene in modo più subdolo quando meno te lo aspetti, come un attacco di colite. È l’individuo che vanta sempre competenze e capacità acquisite nel corso della propria lunga e produttiva vita. Tu sei lì che stai parlando di giroscopi a pedali e del loro funzionamento e lui esordisce con affermazioni del tipo “Eh io lo so, son stato in Chissandostan, patria dei giroscopi a pedali”. Magari poi in Chissandostan c’è stato giusto per fare scalo all’aeroporto, ma questo non lo menziona.

E poi mi si rimprovera perché sono asociale! Guardate che gente che c’è in giro, come si fa ad avere una conversazione normale?!

La perifrastica non è passiva per gusti sessuali, che si conosca almeno questo

– Ragazzi, ma a voi è capitato che dopo la laurea non abbiate più avuto voglia di aprire un libro?
Io ci rifletto su e mi dico che sì, dopo la laurea voglia di studiare ancora immediatamente dopo non me ne venne, né per concorsi né per master, volevo lavorare e basta. Prima che io articoli in parole tale pensiero, lui aggiunge:
– Cioè tipo vado all’edicola, compro la Gazzetta dello Sport e poi penso Noo, tutte queste pagine, chi ha voglia!

Ah. Capisco. Intendeva in questo senso.

Non mi stupisce. Anni fa, all’università, discorrendo di attualità e scoprendolo alquanto all’oscuro di alcuni fatti del mondo, sbottai dicendo:
– Ma lo apri un giornale, ogni tanto? (Vergognandomi poi del mio atteggiamento da maestrino che, purtroppo, non è affatto migliorato col tempo)
– Certo. La Gazzetta dello Sport!

Lo disse ridendo, ma son sicuro che diceva sul serio. Non fu una sorpresa, considerate le sue difficoltà con le doppie e con i congiuntivi. Una volta lo sorpresi a scrivere “abborto”, convinto che si scrivesse così.

L’esempio vivente che qualcosa che non funziona nel sistema universitario – ma anche in quello della scuola dell’obbligo – c’è.

Oggi pomeriggio riflettevo su queste cose e ho montato tra me e me una polemica. In fondo, a cosa serve conoscere l’italiano? È davvero necessario, al giorno d’oggi, sapere quando mettere un congiuntivo in una frase o avere un vocabolario ampio o conoscere il vero significato di un “piuttosto che” per non usarlo in modo barbaro a pene di segugio? A me sembra sempre meno rilevante.

A proposito di membri: mi è tornato in mente un altro aneddoto del periodo universitario.

Dovevamo, in vista di un esame, studiare una sentenza della Corte Suprema Americana, scegliendola da una rosa di documenti fornitici dalla docente. Mi cadde l’occhio su una sentenza riguardante un’accusa di sodomia. Dato che a volte soffro di regressione mentale sino allo stadio “seconda media”, ridacchiando dissi a un collega (non “abborto”, un altro):

– Ehi, perché non porti questa sulla sodomia?
– Ah ah ah!…Ehm, cos’è?
– Come cos’è?
– È il sadomaso? È quello?

Ecco, forse questo è uno di quei casi in cui conoscere l’italiano può servire e fare la differenza nella vita. Immaginate di trovarvi ospiti a casa di qualcuno, per una cena conviviale, due chiacchiere davanti a un buon vino, insomma in un’atmosfera molto tranquilla. Il vostro anfitrione, con garbo e gentilezza, vi propone a un certo punto:

– Le andrebbe un po’ di sodomia?
E voi, non conoscendo il significato della parola, per non deludere il padrone di casa risponderete una cosa simile
– Certo! Però giusto un po’, che devo guidare, non voglio fare tardi…

Magari poi può piacervi, ma almeno sappiatelo prima!

A parte queste amenità, ho ripreso a pensare alla mia polemica sull’importanza dell’italiano, provando a estenderla anche agli studi umanistici. Ne parlavo qualche giorno fa con una persona, che ha un’impronta di studi del tutto opposta alla mia. Così come io posso citare aneddoti su ateniesi e spartani, lei può dilettarsi a parlare di matematica e mitocondri. Io, premettendo che sono il primo a sostenere la necessità dello studio delle materie scientifiche, difendevo l’importanza degli studi umanistici per il contributo che portano alla costruzione mentale di un individuo.

Il caso dello studio del greco, contro il quale la mia interlocutrice puntava il dito,  è per me significativo: più che studiare la lingua per sapere come diavolo si coniughi un ottativo – esercizio che trovo fine a sé stesso -, la cosa che per me ha un valore è lo studio di un pensiero, di una cultura che ha influenzato i secoli a venire.

Sull’importanza di non mettere da parte la cultura umanistica la penso quindi come Umberto Eco e mi piace condividere questo articolo che riporta un dibattito tra lo scrittore e Andrea Ichino: Il liceo classico? Assolviamolo ma va riformato.

Per coincidenza, in questi giorni leggevo un libro di Tiziano Terzani. In Asia, si intitola, ed è una raccolta di suoi articoli dalla Guerra del Vietnam agli anni ’90, frutto di viaggi e periodi di soggiorno in vari Paesi asiatici. C’è un punto in cui mi ha colpito quando parla della dittatura militare in Birmania:

Il livello di educazione del Paese s’è abbassato notevolmente a causa della povertà. Secondo uno studio dell’UNICEF più di un terzo dei bambini dai cinque ai nove anni non va a scuola. Due terzi di quelli che frequentano abbandonano dopo le elementari. Il problema non sembra preoccupare i militari. Al contrario. I soldati sanno che è dagli intellettuali che viene l’opposizione al loro potere: è nelle università che sono nati i movimenti per la democratizzazione e la modernizzazione della Birmania. È per questo che le università, svuotate tre anni fa, sono ancora chiuse e occupate dall’esercito.
[L’aureola psichedelica, Pagan, febbraio 1991]

Ecco, l’ho trovato significativo. Credo che la cultura tutta contribuisca a modernizzare e democratizzare un Paese. Sembra un’ovvietà, ma fino a quanto lo è?

E poi aiuta le persone a trarsi d’impaccio quando parlan loro di sodomia, che non è poco!