Non è che serva essere allenati per fare sforzi di immaginazione

Sono stato un bambino dotato di molta fantasia.

Diciamo anche che non avendo fratelli e sorelle, abitando in una strada dove non c’erano famiglie con altri bambini della mia età, passavo molto tempo da solo. Giocavo sì con amici e compagni di scuola, ma non tutti i giorni. Per forza di cosa nei miei giochi lavoravo molto di immaginazione.

Col passaggio all’adolescenza e alla scoperta di ansie e seghe mentali la fantasia ha iniziato a esplorare le immense potenzialità del mandarsi in paranoia da solo col potere dell’immaginazione.

Ancora oggi, di fronte a una situazione nuova e/o una sfida (o sfiga) da affrontare, tendo a figurarmi gli eventi in una scala che va da figuraccia da imbarazzo totale – tipo uscire di casa senza pantaloni – a olocausto nucleare.

La chiamo la scala Merdalli. Fornisce la misura di quanto possa andare in merda una situazione.

Le mie fantasie non sono tutte negative o ansiogene, beninteso. Ne ho molte di positive. Troppe, forse. Tendo però a evitare di considerarle un rifugio onirico, una bella realtà alternativa in cui tuffarmi per ricavarne qualche dose di serotonina.

Sono uscito da una relazione in cui immaginare il futuro mi sembrava diventato un esercizio fine a sé stesso. Una via di fuga dal reale per confortarsi che, un giorno, “sarà diverso”.

Non ho mai cercato l’immaginazione a tutti i costi: per me si può anche vivere il qui e ora, ma, nel momento in cui si immagina, devo capire dove si sta andando. Se si sta andando.


Qua non sappiamo più quando stiamo andanto su questa Terra, qua non sappiamo più quando stiamo facento su questa Terra. (cit)


A un certo punto mi era sembrato di trovarmi in una situazione in cui era richiesto uno sforzo fideistico. Un po’ come credere al Paradiso: stai tranquillo, un giorno ci sarà. Purtroppo, da questo punto di vista mi sento molto un uomo di scienza – talvolta pure di coscienza talvolta di incoscienza – e non riesco a credere senza un qualcosa di visibile e concreto tra le mani.

Ma questo post, poi, l’avrò scritto realmente o soltanto immaginato?

Non è che la recitazione sia l’aforisma di un sovrano

Tra i traumi infantili che mi porto dietro c’è quello legato alle recite scolastiche.
Uno strumento di tortura psicologica sui bambini a uso e consumo esclusivo del sadismo delle maestre, il compiacimento delle madri e il delirio di onnipotenza del dirigente scolastico che deve pur farsi ricordare in qualche modo.

Beniteso, il mio è solo il giudizio sprezzante tipico degli emarginati, di quelli condannati a vita a interpretare un albero o un cespuglio. Io ero ancora più indietro nella scala gerarchica: potevo aspirare al massimo a fare l’ombra del cespuglio.

Tra le recite vergognose ne ricordo, a sprazzi e frammenti, una molto particolare che non so da quale gran-de-mente addetto alla regia sia stata partorita. Quanto sto per raccontare è tutto vero. Neanche la mia perversa fantasia sarebbe arrivata a tanto.

La recita, che coinvolgeva vari plessi scolastici, credo fosse una sorta di allegoria dell’Italia gaudente di quegli anni (son quasi certo fosse il 1993), contenente varie sottotrame: ricordo un mio compagno di classe riccioluto che leggeva finti notiziari interpretando Enrico Mentana e un’altra, che si chiamava Carmen, che andava in scena nel ruolo di un’improbabile “Carmen Lacugina”*, bambine scelte tra quelle che delle quinte sembravano più grandi per impersonare ragazze di Non è la RAI, un balletto coreografico sulle note di What is love di Haddaway e, per restare in tema con l’attualità, Poggiolini e il suo famoso lingotto d’oro**.


* Carmen Lasorella, volto noto del giornalismo televisivo di quegli anni.


** Breve flashback sulla Prima Repubblica: Duilio Poggiolini era il n.1 della Commissione farmaceutica della CEE ed elemento di spicco all’interno del Ministero della Sanità. Fu coinvolto in episodi di corruzione e tangenti ricevute dalle case farmaceutiche, oltre a vari scandali tra cui quello del sangue infetto (sacche per trasfusioni messe in circolazione provenienti da soggetti a rischio). Viveva in apparente sobrietà ma quando le FdO perquisirono il suo appartamento trovarono un vero e proprio tesoro (lingotti compresi) nascosto negli armadi, nei materassi e nel pouf.


Mancavano solo OK il prezzo è giusto!, Guido Nicheli, il cocktail di gamberi e il campionario trash nazional popolare era completo.

Non so di quanti reati – a cominciare dalla pedofilia – e quanti processi su Facebook oggi si macchierebbe una simile rappresentazione. Per fortuna erano gli anni ’90 e anche i genitori all’epoca erano più tolleranti: erano di quella generazione che se dicevi loro che la maestra ti aveva dato uno schiaffo se ti andava bene le davano ragione. Se ti andava male, ne prendevi un altro.

Che parte avevo io in questo carrozzone?
Io c’ero e non c’ero: ero dentro lo show ma al di fuori di esso. Recitavo nell’intermezzo pubblicitario tra i due atti.

Rimanendo in linea con i tempi storici, si trattava di una parodia degli spot Melegatti e delle Ferrari che regalava in premio.


Anche la pubblicità occulta credo vada aggiunta alla lista di reati.


Desideroso di mettere in mostra le mie abilità recitative, mi esercitavo nella mia battuta ogni giorno. Stressavo qualunque parente avessi a tiro per chiedergli di aiutarmi nelle prove. Quando venni abbandonato da tutti, al suon del sbrigativo “Ora non ho tempo, ho da fare”, passai a esercitarmi davanti allo specchio.

Non ricordo affatto cosa dovessi dire, rammento soltanto l’attacco: alla vista dei due tapini che recitavano con me, con dei pacchi di pandori tra le braccia, dovevo iniziare, con enfasi, dicendo “Ma come, non avete preso Melegatti?!…”. Anche qui è evidente il citazionismo: era lo stile stalker del supermercato che appare all’improvviso e chiede alla massaia perché mai abbia scelto un prodotto invece di un altro.

Provavo differenti pose e intonazioni.


Si prega di leggere le frasi seguenti con tono diverso ognuna.


Ma come?!
Ma come?!
Ma come?!
Ma dici a me?

A una settimana dalla recita, le maestre cambiarono le battute dello sketch. Non le ricordo, ma l’attacco era ovviamente diverso.

Non fu un problema adattarmi, per un professionista del mio calibro.

Quando arrivò il fatidico giorno io entrai in scena titubante. Le gambe tremavano un po’ per la tensione un po’ perché lo spazio tra il sipario e la fine del palco mi sembrava esiguo e avevo paura di cadere di sotto.
Arrivarono i due tapini dal verso opposto al mio. Io inspirai, gonfiai il petto e dissi, spalancando le braccia:
– Ma come?!
oh cazz (esclamai nella mia testa)
– No! (gridai)
E mi diedi uno schiaffo in testa.

Poi ricominciai da capo, stavolta con la battuta giusta, ma ci furono risate, qualche buu e qualche fischio impietoso da parte di quelli delle altre classi presenti in platea.

E quello fu l’inizio e la fine della mia carriera teatrale.

Note allegoriche:

  • Lo spettacolo si concludeva con “Enrico Mentana” e Carmen Lacugina che annunciavano a reti unificate che tutto il mondo proclamava la pace sempiterna
  • Poggiolini regalava il suo lingotto a una famiglia indigente
  • Una povera bambina che impersonava la pace, o forse il mondo o forse la pace nel mondo, che durante la coreografia musicale doveva saltellare sul palco indossando una calzamaglia integrale di lana grezza che le starà ancora oggi provocando eritemi da prurito e che sotto i riflettori era trasparente e mostrava i suoi mutandoni della nonna e l’adipe sulle zinne
  • Alla fine c’era il coro, di cui feci parte seminascosto: indossavamo il saio da Comunione – un’altra geniale idea della regia – che a me andava larghissimo perché me l’ero fatto prestare. Mi faceva sembrare un misto tra un fantasma e uno del Ku Klux Klan
  • La SNAI per eccesso di giocate smise di accettare scommesse sulle bestemmie dei padri costretti a trovare parcheggio in pieno centro storico e a subire tutto questo scempio.

How to train your Gintoki


Con la presente dichiaro chiusa la prima serie continua di titoli no-sense introdotti da “Non”.


Dovrei scrivere una bozza di budget e sono indeciso se scriverla durante questa notte e poi dormire in mattinata oppure dormire in mattinata e buttare giù (dal balcone) due sciocchezze nel tempo che mi resterà.

Ho già speso le mie energie mentali per risolvere un importante dilemma. Sulla pista di ballo c’è qualcosa di importante, oggi ne ho avuto conferma via mail. Chi mi ha mandato il messaggio mi ha pregato di scrivere alla Contessa Serbellons Mazzant Comesfromthesea (è anglofona), che leggeva in copia.

Dubbio: la Comesfromthesea è anglofona ma lavora in Italia. La mail che ha letto in copia era in italiano.

Le scrivo in italiano o in inglese? No, perché c’è una bella differenza.

Dopo essere andato agli allenamenti e non averci pensato affatto, tornato a casa ho deciso di scrivere in inglese.

Vedremo se il primo step è andato. Ne restano altri ed è difficile scacciare il demone del fallimento – che nella mia fantasia è impersonato da Charlie Brown – che mi dice Gin, ma tanto non ce la farai.

Charlie Brown e la sua sempiterna gioia di vivere

La cosa divertente è che se va in porto la cosa corro il rischio di trovarmi a essere seguito da un personaggio particolare che è entrato nella mia lista di personaggi particolari.

Tanto per cominciare, ha una certa somiglianza con l’ispettore Clouseau, giusto i baffi più folti. Sono rimasto però molto deluso quando ho fatto notare a tre persone la somiglianza e tutte e tre non avevano idea di chi fosse l’ispettore Clouseau. Ci sono rimasto male ma non perché non avessero compreso la mia battuta, ma per il buon ispettore che non capisco perché non debba essere ricordato.


Se anche voi, lettori, non avete presente chi sia e stavate aspettando una didascalia esplicativa, allora questa didascalia non vi fornirà informazioni didascaliche su di lui perché non le meritate, ecco.


La seconda caratteristica del personaggio è che parla in modo ampolloso e retorico e anche un po’ arcaico. Ad esempio, per dire che leggerà una frase da un libro, dirà che “Ho il piacere di condividere con voi questo passo che trovo pregevole”.

La terza caratteristica è che quando insegna ai corsi, dopo la prima lezione sceglie due volontari (i classici volontari involontari), uomo e donna, per far far loro delle flessioni. Terminata la performance, delizia anche lui il pubblico con delle flessioni.

Ed ha 65 anni, preciso.

La quarta caratteristica è che ha tre figli, uno adulto avuto dalla prima moglie, e due piccoli, di 4 e 8 anni, avuti dalla seconda.

Ed ha 65 anni, preciso.

Sono quindi inquietato e nell’insieme affascinato dall’idea di potermi trovare a gestire un qualsiasi tipo di rapporto professional-tutorale con un simile personaggio.

Ammesso che Charlie Brown sia d’accordo, anche se il fatto che sia un bambino lo costringe alla fine a soccombere. Sarebbe stato più complesso e ingestibile avere come demone del fallimento, non so, Darth Vader, Palpatine o Sauron, solo che loro non li associ al fallimento anche se poi alla fine perdono ma soltanto perché la lobby dei buoni ha deciso che deve essere così. Condividete se avete un lato oscuro!

Però delle volte in altri ambiti Charlie Brown vince lo stesso.

Anche l’ovvio vuole la sua parte

Sono tornato a Roma mi-costi-un-Capitale e, per non perdere le mie vecchie abitudini, ho ovviamente dimenticato delle cose a casa.

In particolare, tra l’altro, due oggetti importanti: accappatoio e pettine. E dire che quest’ultimo neanche lo uso per i capelli, visto che quando sono corti stanno fermi da soli e quando cominciano a crescere basta infilarci la mano come a voler sistemare un ciuffo inesistente.

Io il pettine lo uso per la barba e i baffi.
La gente ride quando ascolta questa cosa, quella stessa gente che mi fa i complimenti per la barba curata: forse credono che una barba si curi da sola? Magari di notte mentre dormo se ne va a passeggio come le scope di Fantasia e va a darsi una sistemata davanti lo specchio?


Quanto è bella la sequenza della danza delle scope? E dire che da bambino un po’ mi terrorizzava, un po’ per le scope che si animavano con braccia e pseudo-gambe (ma senza occhi né bocca!) e un po’ per la musica che era un crescendo di inquietudine.


E dire che sino a questa mattina ho continuato a mettere in valigia sino all’ultimo momento cose che ricordavo di aver dimenticato. E mentre infilavo dentro anche il mio fido borsello mi sono ricordato troppo tardi che avevo dimenticato di togliere dall’interno i confetti che mi aveva dato M.. È stata a un matrimonio, i confetti non le piacciono e quindi quando ci siamo visti lunedì me li ha rifilati. Dato che non piacevano neanche a me, li ho dimenticati nel borsello. Non è stato bello quando nel prenderlo sono rotolati giù sul pavimento, col gatto che giocava a fare il calciatore e con la zampa a cucchiaio (al grido di “mo te faccio er cucchiaio”) li infilava sotto il letto.

Il mio ritorno è stato contrassegnato, nel regionale da Termini a Stazione-prossima-a-Casa-Romana, da uno spettacolo teatrale. Nel vagone precedente il mio quattro passeggeri (o persone che sembravano tali prima di rivelarsi attori – probabilmente squattrinati – che cercano di farsi conoscere), hanno cominciato a dar vita a una rappresentazione tra i sedili, sotto lo sguardo curioso, un po’ perplesso, a tratti distaccato e accompagnato da qualche ventata di alitosi, degli altri passeggeri.

Quando mi sono alzato per scendere ho assistito all’atto finale e mi ha colpito ciò che ha detto uno degli attori: “il viaggio è il viaggiatore”. Gli altri tre hanno iniziato a ripetere la stessa cosa come un mantra: “il viaggio è il viaggiatore”. Forse mettevano in scena Pessoa o forse l’hanno soltanto citato, non lo so.

Mi sono interrogato su cosa potesse significare e sono giunto alla conclusione che è una di quelle cose ovvie cui non pensi mai, ma che quando realizzi pensi “certo, è così!”. È un po’ come quando in un giallo avete avuto il colpevole sotto gli occhi sin dall’inizio ma non avete mai puntato il dito contro di lui: quando viene rivelato, voi esclamate: “Ma certo, era lui!”.

In fondo, il viaggio siamo noi stessi. Non è detto che due persone che si spostano da un punto A a un punto B vivano le stesse esperienze, provino le stesse sensazioni, ricevano allo stesso modo gli input dall’esterno. Da persone diverse, viaggi diversi.

Inebriato da questa mia scoperta e sentendomi ispirato, ho provato a ri-scoprire altre cose ovvie. Come ad esempio scoprire il detto mai fidarsi delle apparenze: entrato in casa e non vedendo in giro la coinquilina cinese, né notando nel frigo la sua solita provvista di bibite gassate di ogni sapore, colore, colorante ed emulsionante, ho sperato che avesse levato le tende.

Pia illusione: dormiva. Alle ore 13 si è alzata dal letto e ha iniziato a fare i suoi vocalizzi lirici.


Riassunto delle puntate precedenti per chi non c’era e se lo fosse perso e per chi c’era ma non gliene fregava niente e anche se lo riscrivo non so se gliene fregherà: a Casa Romana c’è una cinese, astro nascente della lirica, che è qui per specializzarsi come soprano.


Vorrei concludere questo post con una nota di colore. Ho appreso soltanto oggi che qualche giorno fa il Papa si fosse recato da un ottico per cambiare gli occhiali, destando curiosità e stupore nei cittadini.


Non capisco le reazioni: un Papa non usa occhiali? E se li usa, dovrebbe mica fabbricarseli da solo?!


Ho provato anche io grande curiosità e stupore nel rendermi conto che l’ottico era lo stesso cui mi ero recato io per far sistemare i miei occhiali, quello simpatico e sovrabbondante di lettere ‘a’.

Ora, non so se nel negozio Sua Santità abbia incontrato lo stesso tizio con cui ho avuto a che fare io, ma ho provato a immaginare la scena:

PF: Mi scusi fratelo…sono aquì porqué coi miei occiali non vedo bene…
O: ‘a Francé: ma chi t’aaaa dato ‘ste lenti? Pure ‘na talpa ce vede mejo, mò t’aaaa dò io ‘na lente seria.
PF: Grassie…

Sì, più o meno sarà andata così.


ERRATA CORRIGE
Purtroppo non è lo stesso. Il mio era all’inizio di via del Corso (partendo da Piazza del Popolo), il Papa è andato in quello nella parallela, a via del Babuino.

E so anche il motivo: PF deve aver letto il mio post e deciso che quello dove sono stato non gli piaceva.


Se il mago non riesce a usare la bacchetta, è ansia da prestidigitazione

Mi fanno notare che cammino come un robot. Avanzo muovendo le gambe a scatti e calcando il piede sul suolo. Sarà per questo che consumo le suole delle scarpe più di un podista.

Eppure non sono pesante.
Porto in giro 73 kg scarsi di uomo fatti di ossa e pelle e tanti nervi infasciati o intrecciati. Non ho gangli nervosi: soltanti (soltanto tanti) nodi che nel complesso mi rendono rigido come una tavola di legno di abete.

Sembro la scopa animata da Topolino in Fantasia.

Sarà a causa di questa costituzione lignea che ho sempre dei tarli in testa. Il lato positivo di avere dei buchi nel cervello, però, è una mente sempre arieggiata dove poter stagionare pensieri.

Da bambino avevo la scatola gioco de L’Apprendista Stregone.

Passavo più tempo a fingere di giocare con le palline e il foulard e la bacchetta che a imparare i trucchi. Anche perché alcuni erano davvero ingenui, come la scatola magica (quella rossa con la picca nera) col doppio fondo:  quando la giravi il doppio fondo cascava e faceva rumore, svelando il trucco. Anzi, non c’era neanche necessità di svelarlo, lo spettatore lo intuiva da prima. Il brutto di voler mostrare i propri giochi agli adulti: devono rovinare sempre la magia (è il caso di dirlo) di tutto.

Eppure per un breve periodo sono stato convinto che nella vita avrei fatto il mago (tra le altre 1000 cose che avrei voluto fare). Ma non un mago da strapazzo di quelli che leggono le carte (sì…le carte da centomila che si facevano dare dai clienti…), ma un grande illusionista. E sottolineo grande, perché non ha senso immaginare di diventare qualcuno se questo qualcuno non è grande, no?

Comunque delle magie le so fare. Ad esempio:

  • far sparire velocemente del cibo dal piatto come un pitone fa con la preda
  • far morire una discussione e riportarla in vita
  • far calare il gelo
  • cambiare colore dall’imbarazzo
  • parlare con i gatti, infatti quando imito il loro miagolìo loro mi rispondono (magari dicendo Che gatto sfotti, imbecille?)
  • faccio spegnere i lampioni quando ci passo sotto

Mica male, no? E voi che magie fate?

Me lo direte dopo. Adesso sparisco: