Non è che porti una donna su un fiume bergamasco per prenderla sul Serio

Io sono una persona seria.

Sul serio.

Chi mi vede può dire che sia un tipo serio.

Oppure che mi stia rompendo i maglioni. A volte l’espressione seria e quella smaglionata si confondono. È per confondere l’interlocutore. Come disse Oscar Wilde: È meglio tacere e sembrare scoglionati che aprire bocca e togliere ogni dubbio.

Io sono una persona seria.

Anche se i jeans mi danno fastidio al pacco non mi toccherò mai lì per darmi una sistemata finché non sarò tra le mie quattro pareti dove ci sono solo io e a volte dove nemmeno io ci sono, perché io, il serio, dopo una giornata di serietà sono stanco e vado a dormire per primo.

Io sono così serio che poi non mi riconosco più di fronte alle persone.
Esse sono come uno specchio: in ogni individuo con cui interagisco vedo un me stesso.

E allora vorrei dire a chi mi sta parlando Scusa, mentre mi parli io penso che vorrei sistemarmi il pacco perché mi dà fastidio, ma non posso perché giusto un momento prima mi ha detto quanto fossi serio che non sono tipo da sconcezze allora mi sembra di deludere le idee altrui e finisco col riconoscermi ancor di meno tutto perché ho un jeans che forse non andava bene per me ma che porto con ostinata serietà.

 

Quelli che si fanno foto in campagna sono dei selfie della gleba?

Ho realizzato che dall’età infantile a quella dell’epoca digitale foto di me stesso sono assenti o rare. Il che forse non è un male, perché con lo sviluppo (non quello delle foto) per un periodo ho attraversato una fase in cui sembravo Milhouse, da cui ne sono uscito anni dopo.

Fino alle scuole medie ero un bel giovinetto, perennemente abbronzato perché passavo ore a giocare fuori. Poi son diventato più chiaro e miope, due cose che si potrebbero imputare entrambe ai computer.

Attualmente, nell’epoca del contagio digitale, esistono invece molte fotografie che mi ritraggono. Pur non avendo il culto della mia immagine – anzi, spesso quando vogliono ritrarmi esprimo tutto il mio vaffanculto – ogni tanto vengo colto dallo strano piacere del farmi catturare da un obiettivo, purché sia gestito da altri. Non amo gli autoscatti perché devo avere entrambe le mani libere e intente a far qualcosa di estremamente importante, come reggere il mento o la testa o un bicchiere o le tre cose insieme.


Reggere mento e testa insieme con una sola mano è molto semplice. Il pollice è sotto la mascella inferiore e non esercita pressione, il mento deve essere semplicemente poggiato ma non a peso morto: bisogna raggiungere la condizione di compiaci-mento, mentre indice e medio leggermente flessi indugiano sulla tempia. Le altre dita sono piegate su sé stesse. L’altra mano regge un bicchiere o è poggiata placidamente su un oggetto quale un sasso, un albero, un mobile, un soprammobile in vera finta porcellana. La posa va accompagnata da uno sguardo serio e pensieroso: non malinconico, non severo, soltanto serio e pensieroso. Per esercitarsi, basta figurarsi nella mente una domanda, quale Chi schiero al fantacalcio? o Che maglia metto su quel pantalone?. Esercitatevi su tutti gli esempi che ritenete opportuni.


A volte mi soffermo a pensare (con sguardo serio e pensieroso), cosa ne sarà di tale overdose di immagini che stiamo producendo.

Una volta – ancor oggi vedo che accade, a dir il vero – poteva capitare di trovare vecchie foto in giro per casa, in soffitta, in cantina.

Domani nessuno scaverà tra scatole e mobili e ne tirerà fuori per caso vecchie immagini: un mio discendente non rimarrà sorpreso esclamando Toh! Guarda il prozio Gintoki con lo sguardo serio e pensieroso!. Quando il mio hard disk passerà a miglior vita, io sparirò con esso. Magari resterò tra i meandri di un social network, ma a che pro se nessuno andrà a scavare per ritrovare il mio sguardo serio e pensieroso?

Ma poi avrà tanto importanza se sullo stesso schermo ci saranno 10-100-1000 altri sguardi seri e pensierosi confrontabili? La specificità del ritratto dovrebbe risiedere nella sua unicità: nel mobile di casa mia c’è il mio prozio, nel mobile di casa tua, il tuo.

Nel mondo digitale, saremo tutti con tutti nello stesso posto. E senza mobili.

Perderemo la mobiltà.