Non è che devi fare atletica per cogliere il testimone

Mi hanno detto di un prete che durante un funerale stava inciampando nel tappeto. La stessa cosa era avvenuta qualche decennio prima al suo predecessore, che pare però ebbe peggior sorte e inciampò sul serio, rimanendoci. Credo sia il caso di cambiare tappeto o di rimuoverlo.

Mi hanno detto anche di un tipo, che conosco tra l’altro, che ha l’abitudine di portarsi via fogli di carta dalle case altrui. Non è che li rubi, lui chiede della carta e poi se la tiene con sé. Non ho capito cosa ci faccia.

Mi hanno detto infine di un tipo che si presenta con il portabagagli dell’auto pieno di cassette di arance, arriva fuori un negozio dicendo che quelle sono arance che vengono direttamente dalla Sicilia e che lui vuole iniziare la sua attività vendendole e che vuole farsi pubblicità, quindi ne regala una cassetta al negoziante, che può così offrire arance fresche ai clienti. Poi spiega che regala la cassetta in cambio di denaro. Di fronte alle rimostranze dell’esercente (o è un regalo o vuoi vendermela, quale delle due?) quello si riprende la cassetta e se ne va, offeso.

Insomma, volente o nolente il mondo continua a essere strano e stravagante. Va da sé che in periodo di spostamenti limitati non riesco più a essere testimone delle storie e mi tocca affidarmi alla narrazione orale altrui.

Certo c’è da chiedersi se le testimonianze siano corrette. Lo storico Marc Bloch credo sia stato uno dei primi – ma forse ricordo male – a porsi il problema dell’analisi delle fonti.

Supponiamo infatti che abbiamo due testimoni che riportano la stessa versione di un fatto. Ingenuamente ci si potrebbe rallegrare per la concordanza. Ma se invece uno dei due ha semplicemente copiato l’altro, magari giudicando autorevole la sua versione?

Ancora: ci può essere un fatto considerato oggettivo, come la battaglia di Waterloo. Sappiamo tutti come è andata a finire. Ma ci possono essere modi diversi di raccontarla.


Tutti sappiamo infatti che a Waterloo Napoleone fece il suo capolavoro:


E qui sorge un altro problema: le testimonianze non è detto che per forza possono essere o soltanto vere o soltanto false. Una testimonianza vera può contenere dei fatti poco concordi con la verità. Bisogna scomporre i resoconti nelle loro parti e pesarle.

Perché mi pongo il problema delle testimonianze? Perché mi chiedo a volte se il come io ricordo un evento sia lo stesso modo in cui lo ricordano gli altri. Mi capita infatti a volte di non concordare con la versione dei fatti di un’altra persona. Mi fido molto della mia memoria, anche perché, focalizzandosi sulle immagini, essa associa l’accaduto a una fotografia mentale per fissarla nel tempo. Ma la mia presunzione di infallibilità può cozzare con quella di un altro.

Posso fidarmi sempre di ciò che ricordo?
Posso fidarmi di ciò che ricordano le altre persone?

Volevo concludere il post con una chiusura brillante ma non me la ricordo più.

Non è che per lo spacciatore non contino i fatti

C’è un’amica che lavora in una società che si occupa, tra l’altro, di cose di marketing&comunicazione. Prendono anche commesse da altre aziende, che affidano loro lo sviluppo di soluzioni creative per il loro business.

Capita venga anche affidato loro del servizio clienti non telefonico, quello insomma gestito tramite social e/o email.

Mi raccontava l’amica che il suo collega che gestiva queste funzioni era un tipo strano. Sembrava vivere l’ufficio in stato di isolamento dagli stimoli esterni: sprofondato per ore sulla sedia, con gli occhi sbarrati, si metteva lì a fare ticchiti ticchiti al computer come un automa rispondendo ai clienti di una grossa azienda che chiedevano informazioni o facevano reclami.

L’unico segno di un’attività cosciente era dato dal suo sbocconcellare, di tanto in tanto, un dolcetto che si portava da casa in un tupperware.

Un giorno la mia amica scoprì che quel dolcetto era fatto con l’hashish.

Il tale quindi non era una macchina da lavoro come un giapponese. Era semplicemente fatto come i Jefferson Airplane a Woodstock.

La prossima volta che vi interfacciate con un servizio clienti immaginate quindi che dall’altro lato potrebbe esserci un tipo allucinato che magari pensa di parlare con un unicorno spaziale.

Non è che visto che le patate hanno gli occhi puoi ipnotizzarle

Conosco un tale che pratica ipnoterapia. Non ne so abbastanza in materia, quindi non mi lancio in alcun giudizio di merito, sia chiaro.

Oggi mi raccontava che ha una tecnica per far crescere le tette alle donne tramite ipnosi. E afferma che le sue pazienti sono rimaste soddisfatte.

Non ho chiesto come funzioni in dettaglio, perché nel caso di persone che praticano attività inusuali temo che fare domande possa farli sentire autorizzati a riversare sull’interlocutore un torrente di chiacchiere. In genere si tratta di individui che magari non hanno modo di parlare dei loro interessi in discorsi quotidiani, quindi attendono sempre l’occasione buona per farlo. E questo tizio che conosco, che frequenta la libreria dove vado di solito (e che è diventata un ritrovo di personaggi eccentrici, tra cui mi ascrivo anche io) appartiene alla categoria.

Confesso che avrei voluto però capirne di più sulla pratica. Ipnotizza le clienti facendo loro credere che la taglia di reggiseno è aumentata? Oppure le ipnotizza convincendole a ritenersi soddisfatte anche se non è accaduto nulla? Vale anche per gli uomini ed è reversibile? Magari uno vuol farsi una giornata di relax a pastrugnarsi un paio di tette.

Ha detto che ha appreso anche la tecnica per ingrandire il pene. Ma non ha ancora richieste e quindi gli mancano pazienti su cui testarla.

Io nella mia testa pensavo che chi richiede un simile trattamento deve specificare bene cosa vuole: il rischio secondo me è essere fraintesi è finire come quello della barzelletta che si ritrova un pazzo di 30 cm*.


* Un tale entra in un bar stringendo tra le mani un sacco dove all’interno c’è qualcosa che si agita furiosamente.
Si siede al bancone e ordina da bere.
Il barista, perplesso, chiede cosa ci sia nel sacco.
«Guarda, lascia stare che è meglio» gli risponde il tale.
Il barista insiste e fa per aprire il sacco. Ne salta fuori un omino minuscolo che inizia a correre per il locale, imprecare e buttare cose per aria.
Con fatica lo richiudono nel sacco.
Il barista, stupito, chiede che diavolo sia quel che ha visto. Il tale spiega che è frutto dell’opera del genio della lampada il quale esaudisce ogni desiderio.
Il barista chiede se e’ possibile invocare il genio.
Il tale, mostrando la lampada, gli risponde di sì, spiegando che basta sfregarla per bene.
Il genio, evocato dal barista, appare in tutta la sua magnificenza dicendo:
«Quale desiderio posso esaudire?»
Il barista ci pensa un po’ e poi dice:
«Voglio un miliardo!»
Il genio, dopo essersi ben concentrato, fa apparire un bellissimo biliardo e poi sparisce di nuovo nella lampada.
Il barista, deluso, protesta:
«Ma io avevo chiesto un miliardo»
E il tale:
«Perché secondo te io avrei chiesto un pazzo di 30 cm?».


Non è che il pastore faccia solo battute pecorecce

– Posso entrare oggi, per recuperare domani che è chiuso?
– Guarda che domani è rosso sul calendario, non si recupera. Non si entra quando ci sono i giorni rossi. Noi vi facciamo recuperare i turni quando non potete venire per un problema vostro, questa volta ormai sei qua e va be’ ti faccio entrare ma di solito non si può
– Grazie.

Tu abbozzi e ringrazi con tanta umiltà perché ti sta facendo un favore dall’alto della sua magnanimità. Che non sai manco dirlo senza incartarti. Magnanimità. Vorresti chiedergli se fa tali questioni anche a quelli che sono conoscenti suoi che delle volte vedi passare senza manco passare la tessera sul lettore. Tutti sono clienti ma alcuni sono più clienti degli altri, è evidente. Ma tu devi abbozzare e ringraziare perché ti sta facendo un favore.

Vorresti fargli notare che si può entrare lo stesso anche nei giorni rossi, magari meglio mettere un asciugamano prima e lavarsi bene dopo, ma lui c’ha sempre l’aria funerea di uno cui è morto il rosmarino sul balcone – tra l’altro solo con te, perché puoi giurare di averlo visto ridere – e quindi qualsiasi battuta pecoreccia per rompere il ghiaccio sarebbe fiato sottratto all’attività aerobica.

Ti chiedi cosa tu gli abbia fatto per stargli così sul cazzo da non rispondere manco a un Buonasera ma probabilmente lo scoprirai solo tra diverse stagioni quando ti rivelerà che ti odia perché hai fatto cadere un penny bloccando le porte*.


* Se non capite la citazione problemi vostri.

 


Non è vero, sono buono e rivelo la soluzione.


Quindi puoi solo ricordare quel vecchio adagio che recita: Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia: e qualcuno la sta combattendo contro di te.

Non è che non ti puoi laureare in piedi perché si tratta di una seduta di laurea

Viviamo in un’epoca in cui cerchiamo sempre più certezze per la nostra salute: vogliamo sapere che i prodotti che acquistiamo sono 100% organic 100% bio 100% senza olio di glutine e per questo ci piacciono le confezioni con tante di queste scritte colorate.

Organizziamo varicella party perché anche una malattia esantematica ha diritto a divertirsi.

Sempre più italiani si curano con metodi alternativi. Sempre più alternativi si curano con metodi italiani.

È per questo che oggi vorrei parlare di una pratica di cui mi sono da tempo note le virtù terapeutiche: il facesitting.


Preciso che questo articolo non ha alcuna finalità di divulgazione scientifica, non essendo io medico: indi per cui non posso essere tacciato di essere al soldo di qualche multinazionale.

La seconda avvertenza è quella di praticare il facesitting solo in ambienti sicuri e con personale professionista e qualificato. A tal proposito, posso fornire su richiesta in via privata il contatto di qualche mistress che effettua sedute terapeutiche di facesitting. Il contatto viene da me fornito a titolo puramente personale e SENZA ALCUNO SCOPO DI LUCRO se non quello di ricevere una percentuale sul numero di clienti.


Facesitting letteralmente vuol dire facciasedendo, dalla formula di cortesia che un tempo si utilizzava per dar inizio alla pratica. La padrona, infatti, chiedeva umilmente al servo

– Potrei metterle il culo in faccia, mio buon servitore?

il quale rispondeva

– Prego mia signora, faccia sedendo.

Il facciasedendo o facesitting nasce in Inghilterra nel ‘700, come pratica ricreativa della classe gentry per svagarsi dalle ubriacature al pub e le partite di whist. Molto spesso le due attività si univano e non era raro che venissero giocate partite di whist mentre i giocatori praticavano facesitting sulla servitù.

Ben presto però ci si accorse che i servi su cui era praticato facesitting durante il weekend fossero sul lavoro più volenterosi ed energici nel corso della settimana successiva.


Per quanto si possa essere volenterosi ed energici nello svuotare pitali giorno per giorno.


Qualcuno pensò a una correlazione con la pratica ma qualsiasi discorso intorno al facesitting si arenò in modo brutale quando un uomo morì soffocato durante una seduta.

Lo scandalo fu che la vittima non fosse un semplice domestico o lacchè – non era raro infatti che qualche sguattero di cucina ci lasciasse le penne sotto le poderose natiche di qualche Madame – ma un lord gentleman molto noto e stimato nella sua comunità, mentre la donna proprietaria del culo non una contessina ma una “volgarissima cuoca”, come scrissero i giornali del tempo. Il caso finì sulla bocca di tutti – quella stessa bocca su cui, con tanta ipocrisia, fino a poco prima era poggiato un deretano – e arrivò a Corte. Re Giorgio III, l’allora Sovrano che sembrava non disdegnare usmare sederi altrui, con un editto dichiarò illegale “poggiare le proprie nude terga a contatto col viso di un altro essere umano”. Per questo intervento bacchettone e moralizzatore fu molto criticato e da Re Giorgio Terzo fu soprannominato Re Giorgio Terga perché si diceva a forza di praticare avesse assunto la faccia come il.

Caduta in disgrazia, la pratica finì quindi nel dimenticatoio e bisognerà attendere l’età vittoriana per la sua riscoperta. A dispetto della sua dichiarata austerità e sobrietà di costumi, l’epoca della Regina Vittoria fu, per usare parole degli storici*, “un’età di veri porcelloni e mandrilli”.


* Tra cui il Prof. Durbans dell’Università di Scarborough.


Sempre più professioniste del meretricio offrivano nella propria lista di servizi anche quello di una bella seduta in faccia, facendosi però definire, forse per qualche vaga eco degli antichi trascorsi in cui esisteva una rigida separazione sociale, “padrone” mentre ai propri clienti era riservato il ruolo di “schiavo”. Molti avventori di postriboli tornavano a casa corroborati dalla seduta, rilassati e bendisposti d’animo e più di uno avrebbe giurato di aver tratto beneficio da malanni vari e doloretti reumatici che lo perseguitavano.

L’editto di Giorgio III tecnicamente resta ancora valido a tutt’oggi non essendo mai stato abrogato ma sin dalla sua promulgazione era stato aggirato: dato che citava “nude terga”, alla padrona bastava tenere indosso un capo intimo qualsiasi. Ancora oggi non è raro, forse per abitudine, che le mistress non pratichino il facesitting a sedere nudo ma indossino della biancheria, se non, addirittura, jeans o pantaloni.

Oggi è riconosciuto che regolari sedute di facciasedendo, insieme a uno stile di vita salubre, una corretta alimentazione e una sana attività sportiva, migliorino la salute generale della persona.

Test clinici dimostrano che la pressione di un paio di glutei sul volto favorisca il rilassamento dei tessuti muscolari e, tramite le microtture dei capillari superficiali, una macro ossigenazione della pelle.

Io ho 33 anni e ne dimostro 26, a esser precisi 26 e un po’. Coincidenza?

La mia prima esperienza in assoluto di facesitting fu del tutto involontaria. Ero in seconda media, in classe ci si stava simpaticamente spintonando, mimando risse tra compagni maschi come si fa a quell’età per cementare il proprio spirito di gruppo e sudare pezzandosi l’ascella per spargere i propri afrori prepuberali.

d43a30c703c9b696c6c83d2fcc015eceNon so se fu una spinta di troppo o una mia scivolata avventata, fatto sta che in caduta falciai in tackle una mia compagna di classe, come neanche il buon Fabio Cannavaro di quei tempi. La poveretta volò all’indietro piombando col sedere proprio sul mio viso e facendomi dare una sonora craniata al suolo. Testimoni dicono che la mia testa sul pavimento produsse il suono di un campanaccio da vacca.

All’epoca non sapevo che una testata simile potesse uccidere né che un culo in faccia, soprattutto quello della mia compagna che indossava una tuta di acetato 100% antitraspirazione, potesse indurre il soffocamento e quindi mi salvai non riportando dannx cerebrbali a lung034f9id02304ew0e45dlsl’scl”e’4”02303ì’ììì

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Pregevole stampa illegale d’epoca (XIX sec.) che mostra una coppia durante una seduta terapeutica

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Stampa didattica giapponese che invita le mogli a praticare facesitting ai mariti e consiglia alle figlie di osservare per apprendere i segreti della tecnica

Non è che il tennista lavori in un pub per fare il servizio

Non ho più memoria della prima volta che ho messo piede in quel che da anni è il posto di ritrovo post serale solito nella mia città.

Si è così consolidato in una piccola piega del tessuto urbano-sociale da avere assunto connotati da cliché. Basterebbe guardare il contenitore portadolci accanto la cassa per rendersene conto: pasticcini impastati dalle mani della moglie del proprietario, che stazionano lì per anni come semplici oggetti ornamentali, stile Luisona di Benni.

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Lo spezzatino avanzato dal ragù della domenica può essere infilato in un panino. Foglia di alloro compresa. Uno dei tanti esempi culinari del ritrovo tipico.

Ricordi inoltre non ho di quando abbiamo cominciato ad avere un rapporto complicato con le cameriere. Complicato forse è un po’ troppo, diciamo che ci sentiamo sempre guardati un po’ male quando osiamo alzare il dito per chiedere, accolti con un grugno che sembra dire Se cercate guai li avete trovati.

La vita da cameriera in un pub è un inferno. Avanti e indietro, ordini che arrivano, ordini che non arrivano, clienti da tenere a bada.

Capisco che spesso ci sia poco da esser gioviali.

D’altro canto – e non lo dico perché sono la parte in causa – credo di appartenere alla schiera di clienti meno complicati del mondo. Sono anni che io e il mio compare ci accomodiamo chiedendo la stessa identica cosa: due Bass Scotch medie. Al massimo, un posacenere di contorno. Non sporchiamo, non strepitiamo, non chiediamo variazioni strane dei menù come panini alla segale cornuta ma senza la cornuta e senza il panino.

Non pretendiamo il posto a sedere: se non c’è beviamo in piedi fuori.

Ci scansiamo come Neo quando le vediamo passare cariche di piatti di trigliceridi esausti.

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Se è porno, cavoli vostri.

Il problema forse risiede proprio nella nostra discrezione e invisibilità: non abbiamo mai creato un rapporto umano con loro. Siamo forse gli avventori anomali, rispetto ad altri che ho visto scambiar qualche battuta con le cameriere e, addirittura, averle fatte sorridere.

Non che io non ci abbia provato a porre le basi di un minimo di contatto civile. Ammetto però tutta la mia incapacità per riuscire a portar a casa un successo.

Ricordo un’estate di due anni fa, in cui – in maniera improvvisa e inspiegabile – il pub divenne fino alle 22-23 di sera meta preferita di famigliole con bambini al seguito che correvano tra i tavoli, si lanciavano cibo, correvano tra il cibo e si lanciavano tavoli.

Sconcertato da tutto ciò, mentre la cameriera puliva il nostro tavolo decorato dai bambini da spruzzi di maionese e ketchup che ricreavano motivi di Pollock, per esser simpatico esclamai

– Certo però che questo una volta era un posto per adulti
– Eh.

Fine della nostra conversazione.

Lo riconosco, la socialità non è arte mia. Un piccolo aiuto dall’altra parte però sarebbe richiesto.

Ieri sera, evento eccezionale, una cameriera mentre riordinava i tavoli fuori in vista della chiusura ci ha rivolto la parola.

Poverina, è nuova: non ha capito o forse non le hanno spiegato che siamo dei paria.

Ci ha chiesto aiuto su come dovesse fare per bloccare scheda e cellulare, visto che nel pomeriggio aveva subito una rapina.

È simpatica. Sarà ancor più doloroso il momento in cui comincerà a lanciarci occhiate di rancoroso disprezzo come le altre sue colleghe.

Non è che l’informatico sia salutista solo perché usa la fibra

Cerco sempre di essere gentile con gli operatori dei call center.

Li ritengo vittime di un sistema perverso, incattiviti dalla necessità di mantenere il posto da parte di altre persone incattivite dalla necessità di mantenere il posto da parte di altre persone che forse non sono incattivite ma solo un po’ stronze.

Un esercito di lavoratori che per fortuna non legge Marx né ha una coscienza di classe: non vorrei ritrovarmi nella dittatura del customeriato (cioè di chi non possiede null’altro che i propri clienti).

Nell’interagire con costoro cerco, quando possibile, di mettermi nei loro panni. È facile che si trovino spesso a parlare con persone difficili, scontrose, maleducate. Essendo la negatività un virus – inventato dalla lobby delle case farmaceutiche, ovviamente –  arrivano a fine giornata dello stesso umore delle persone con cui hanno interagito.

Dato che non voglio essere io responsabile di tal cattivo umore, ho sempre qualche parole di cortesia pronta. Buongiorno, grazie mille, buona giornata e buon lavoro.

In generale mi sento portato a comportarmi bene con gli estranei. Questo non in virtù di un qualche precetto etico metafisico.

Ho poche convinzioni nella vita, come quella che nell’amatriciana ci voglia il guanciale. Tra queste certezze, c’è che non mi sento in obbligo di rispettare il prossimo e il remoto solo perché mi osservano.

D’altro canto, paradossalmente, penso che nel fare un torto al prossimo poi mi torni indietro un conto da parte del karma.

Il karma è come un boomerang: ovunque, torna indietro.

Peggio ancora, inoltre, ho il timore che io possa creare un qualche effetto farfalla o effetto domino o effetto farfalle che giocano a domino: magari se sono scortese con l’operatrice questa tornerà a casa nervosa, troverà il figlio che rompe i coglioni e lei, spazientita, quella sera gli mollerà un ceffone e lui, qualche anno più tardi, diventerà rancoroso e ostile verso la società.


Non sono contrario a uno scappellotto ben circostanziato, come forma educativa di trasmissione dei valori incisiva ed efficace, seppur dolorosa.

Gli scappellotti fuori luogo o fuori tempo possono però esser dannosi e generare individui perniciosi per la società. Credo ad esempio che personaggi come Vittorio Sgarbi o Selvaggia Lucarelli o Maurizio Belpietro o Beppe Grillo o tutti gli adepti di Sesso Droga e Pastorizia e pagine affini o quelli che minacciano di morte il prossimo dalla trincea di un monitor o tutta tutta tutta e dico tutta quella parte di umanità che sa dare il peggio di sé siano frutto di ceffoni non dati quando era necessario e dati quando non era necessario.


Questa settimana ho parlato con due operatrici che esprimevano una strisciante acidità senza causale.

Avevo segnalato l’assenza di connessione in casa.

Mi chiamano da un call center TIM. L’operatrice prima mi chiede conferma della segnalazione del guasto, poi vuol farmi passare alla fibra.

– Senta ma se al posto del modem TIM ne utilizzassi uno mio
(stizzita) Eh no non può usare il modem adsl con la fibra, non funziona
– Intendo, un modem mio per fibra
(sempre stizzita) Se vuole può farlo ma poi non ha l’assistenza per la configurazione perché bla bla bla

Avevo smesso di ascoltare.

Le ho detto Sì va bene, attivate e fate le vostre cose. 5 minuti dopo tramite l’assistenza clienti su facebook ho disdetto l’attivazione: nella mia immaginazione lei avrà trovato una vendita in meno e forse riflettuto sul suo modo di fare.

Beata ingenuità.

Ho parlato poi con un’altra operatrice per quanto riguardava il precedente problema di connessione:

 – Da noi qui non risulta nulla all’esterno, il problema è interno la sua abitazione, forse è il modem
– Ho capito
– Deve controllare lei, noi da qui non possiamo vedere
– Ma potrebbe anche essere un problema di filtri?
(stizzita) Potrebbe, io non ho mica detto che per forza il modem è guasto

Mi sono trattenuto dal mandarla a fanculo. Nella telefonata di controllo successiva, le ho dato un feedback negativo.

Adesso sono responsabile di altri due casi di persone ostili nella società.

Il Vocaboletano – #9 – La capera

Come ogni mercoledì, torna l’appuntamento col vocaboletano!


Come recitava un popolare stornello, Sarà capitato anche a voi…: in questo caso, di avere a che fare con una capera.

Una figura talmente nota che Verga le dedicò un romanzo: il famoso Storia di una capera.

Io, ad esempio, ne ho un esemplare in ufficio. Si chiama Mitja, detto Minchia da quando una volta, sentendo appunto esclamare “minchia!”, si voltò pensando di essere invocato. Non c’è affare che non lo riguardi, non c’è cosa in cui non si senta autorizzato a mettere il becco.

Se arriva un pacco, lui zampetta verso di voi per scrutare cosa abbiate acquistato, se state pranzando lui entra nel cucinino a guardarvi nel piatto. Se qualcosa su di voi è sfuggito all’attenzione degli altri, lui glielo riferirà.

A questo punto dovrebbe essere chiaro cosa sia una capera. È l’impiccione inveterato, che non si interessa dei propri affari ma di quelli degli altri. È a conoscenza di tutti i pettegolezzi e spiffera peggio di una finestra rotta.

E dire che per le strade di Napoli quello della capera, un tempo, era un apprezzato mestiere. Trattavasi infatti della parrucchiera a domicilio (da capa, lat. volg. per testa, quindi la capera è colei che lavora con la testa), che, degna interprete della nobile arte di arrangiarsi, conosceva tutti i trucchi e gli strumenti a poco prezzo atti a valorizzare le capigliature delle clienti.

Pur non avendo una moderna piastra per capelli, ad esempio, di quelle per chi non si accontenta, riusciva a lisciare i capelli con mollette d’osso scaldate.

Come accade anche oggi, la parrucchiera è anche persona con cui scambiar qualche parola e concedere confidenze. Inoltre il viaggiar di casa in casa permetteva alla capera di mettere occhi e orecchie dappertutto.

È così che la nostra pettinatrice era in pratica la depositaria di tutti gli i gossip, gli inciuci, i pettegolezzi cittadini. Le capere, da semplici acconciatrici, divennero ben presto persone di compagnia cui le clienti volentieri affidavano, oltre alla propria testa, anche le proprie confidenze intime. Le parrucchiere più brave e ricercate erano quelle che, oltre ad avere conoscenze in fatto di acconciature, erano in grado di sapersi adattare a contesti diversi e alle conversazioni più disparate.

Alcune di essere erano così autorevoli da essere consultate per fornire consigli medici o d’amore. O anche entrambe le cose, visto che il mal d’amore veniva spesso curato con vere e proprie pozioni medicinali casalinghe.


Anche se i “farmaci” non venivano assunti dalla “malata d’amore”, ma dal malcapitato oggetto delle attenzioni. A sua insaputa.


L’unico difetto – ammesso che si voglia considerar tale, visto che molte clienti apprezzavano ascoltare i segreti altrui – era che la parrucchiera non sapeva tener per sé le confidenze e i segreti di cui veniva a conoscenza.

Ed per questa caratteristica che, oggi, chi fa la capera, uomo o donna che sia, è chi si comporta da grande impiccione e pettegolo.

Non è che l’impiegato nella galleria d’arte sia un “quadro”

Tanto tempo fa, almeno un paio di anni – che nel mondo di internet equivalgono a un’era geologica, giusto ieri infatti ho rinvenuto un fossile di MEDITATE GENTE MEDITATE del 2015 nel cranio di un imbecille -, su questo blog mi ero specializzato in liste.

Liste di persone, categorizzate in base alle loro specificità per identificarle e, se possibile, evitarle. Tutto questo per offrire un servizio pubblico, visto che c’è tanto bisogno di liste nella società.

Per riprendere le vecchie abitudini e offrire sempre di più al lettore, ho qui pronta una lista di individui che è possibile ritrovare, volenti o nolenti, come colleghi di lavoro.


L’Uomo Ombra
Non lo si vede mai. Forse non esiste nemmeno. Eppure se ne avverte la presenza oscura. Appone la sua firma sui documenti mentre voi vi assentate alla macchina del caffè. Contatta clienti anche se il suo telefono è impolverato dal 1990. Appare fisicamente soltanto se c’è un rinfresco aziendale, fa sparire qualche pasticcino e poi ritorna nell’ombra. Nessuno conosce il suo nome, l’amministrazione stessa ogni fine mese quando controlla le buste paga si chiede “Ma chi è questo qui che abbiamo a libro paga?”.
Frase tipica: – (nessuno l’ha mai sentito parlare).

Gola profonda
Colui o colei che tiene sempre aggiornati gli altri riguardo le proprie avventure sessuali, spesso con tal dovizia di dettagli che 50 Sfumature sembra un fumetto di Topolino. Di tali resoconti i colleghi farebbero ovviamente a meno, in particolare mentre stanno mangiando oppure revisionando un documento così importante e delicato che in caso di errori vedrebbero la propria testa finire su una picca. A Gola profonda tutto questo però non interessa, perché tutto ruota intorno al suo Ego.
Frase tipica: Ah, ti ho raccontato di…?

Il Dottor Stranodore

Il Dottor Stranodore ha sviluppato un efficace sistema di difesa della propria bolla prossemica. Spargendo nell’aria afrori molesti, come alito di gyros con cipolla e paprika, scarpa da tennis annata McEnroe ’79, ascella da autobus dell’Atac in sciopero bloccato a Corso Vittorio Emanuele, avrà la certezza di non essere avvicinato da nessuno. Il problema sorge quando è lui ad avvicinarsi agli altri.
Frase tipica: Ma sentite anche voi una puzza? Devono essere i lavori alle fogne qui di fianco.

Adolf
A dispetto dell’appellativo, l’Adolf non è una persona aggressiva. Ha soltanto il piccolo difetto di avere una concezione estrema di Lebensraum, ovvero di spazio vitale. Sentendosi troppo stretto all’interno dei confini della propria scrivania, l’Adolf comincerà a ritagliarsi spazio a danno dei vicini. I malcapitati, magari poveri stagisti posti come cuscinetto strategico intorno a lui, vedranno le proprie postazioni invase dalle sue carabattole. L’Adolf a volte è invadente anche a livello sonoro, costringendo gli altri a subire l’ascolto delle sue telefonate private o della musica che diffonde dalle casse del computer. Quest’ultima è una tattica di logoramento per costringere gli avversari alla resa e a concedere spontaneamente un Anschluss.
Frase tipica: Scusa, mica ti do fastidio se appoggio questo qui?

Occhio di falco
All’Occhio di Falco non sfugge niente, anzi le sue doti sono direttamente proporzionali ai vostri tentativi di occultamento. Più cercherete di tener nascosto quel pacchettino minuscolo che avete ricevuto poco prima di entrare in ufficio, più la sua vista si acuirà per individuare
– l’oggetto
– la forma
– il colore
– il costo
Come qualsiasi supereroe, l’Occhio di Falco è però geloso della propria identità e ci tiene invece a tener celate le cose che lo riguardano. Reagirà in maniera violenta ai vostri tentativi di intromissione nella sua privacy.
Frase tipica: Che cos’hai lì?

Ciccio di Nonna Papera

Probabilmente non è umano. Forse il suo stomaco contiene un buco nero. Con l’energia creata dal movimento continuo delle sue mascelle si potrebbe fornire elettricità a una città. Con le quantità di cibo che ingurgita si potrebbe sfamare una Nazione. Il Ciccio, nei cassetti non ha documenti e materiale da cancelleria ma provviste di cibo. Il suono che proviene dalla sua postazione durante le otto ore è soltanto quello di un crunch crunch continuo.
Frase tipica: Lo finisci quello o posso mangiarlo?

Legge 626
Risponde al telefono: lesione al timpano guaribile in giorni 30.
Finestra aperta: colpo di vento e dolore cervicale per una settimana.
Sposta il mouse: infrazione carpale con prognosi di venti giorni.
Suono delle sveglia: emicrania lancinante per giorni tre.
Il tutto sempre corredato da certificati rilasciati da un sedicente medico curante che in realtà ha il diploma da geometra. Acquistato online.
Frase tipica: Oggi non mi sento tanto bene…

Quinto Fabio Massimo ovvero Il Temporeggiatore
Per lui il tempo è un concetto talmente relativo che Einsten al confronto è un dilettante. Procrastinatore inveterato, qualsiasi cosa gli venga chiesta, qualsiasi cosa vada fatta, lui risponderà sempre con Poi vedo/Poi lo faccio/Poi telefono/Poi correggo.
Frase tipica: …(poi la scrivo).

Viaggi di nozze/Una mamma per amica
Viaggi di nozze è la classica collega che sta preparando il matrimonio. Comincia a fracassare le palle ai colleghi con questo argomento 2 anni prima delle nozze, ma probabilmente sta solo ripetendo discorsi che già faceva quando era bambina. Un giorno parlerà del vestito, un altro del luogo della cerimonia, un giorno del menù, un giorno del vestito di lui…per poi cominciare ciclicamente da capo perché nel frattempo saranno sorti imprevisti o saranno emerse cose nuove, anche se, gira e rigira, non si sa come alla fine tornerà sempre alle idee di partenza.
Attenzione: l’esemplare Viaggi di nozze non si spegne con il matrimonio e il resoconto del seguente viaggio. Un giorno si trasformerà in Una mamma per amica e qualsiasi suo discorso verterà sui figli e, in casi gravi, tale processo può durare fino a che il figlio non va all’università.
Frase tipica: Guarda questa/o che carinaaaaaaa/ooooooo (mostrando, a caso, foto di abiti da cerimonia, case, hotel, spiagge, neonati a caso, cucine, girarrosti, creme per arrossamenti anali…)

Dead man walking
Il contratto a progetto reclutato per coprire quello che è partito per un giro intorno al mondo di tre mesi. Lo stagista cooptato grazie a Fondi Regionali+Borsa di studio+Bollini spesa Coop+Sovvenzioni genitoriali, insomma a gratis, che spera di essere assunto anche se l’azienda non firma un contratto dal 1980. Il tempo determinato che non verrà rinnovato perché la ditta è in crisi. Insomma, quello cui è meglio non affezionarsi perché tanto alla fine muore. Ma tanto in fondo se deve succedere, meglio a lui, è giovane, a 35 anni ha modo di fare esperienza.
Frase tipica: Beh dai almeno fa curriculum…

Non è che il gattaro pensi solo ai gatti propri

Tra gli incontri che trovo più sgradevoli, più di quelli con una volante o con dei predicatori religiosi, c’è quello con gli inquisitori. E non mi riferisco a membri del clero dediti al contrasto all’eresia con metodi ‘discutibili’.

Penso a persone che ti mettono all’angolo ponendo domande e che non vengono placati dalle risposte ricevute. Sono mossi da un bisogno compulsivo di venire a conoscenza dei fatti altrui.

Sono anni che conosco un individuo del genere. Quando gli salta l’uzzolo seguita a incalzare l’interlocutore, lo scruta stringendo un occhio e inclinando il capo di lato. “Confessa! Confessa!” sembra dire il suo sguardo. Il tutto gli conferisce un aspetto vagamente gufesco.


Qualcuno non sarà d’accordo e replicherà che i gufi sono animali simpatici. Sono d’accordo, ma se un gufo mi tempestasse di domande non lo troverei più simpatico per il solo fatto di esser un gufo, passerebbe in secondo piano rispetto al suo esser rompicoglioni.


Ricordo una volta, vari anni fa, in cui mi fece

– Ma la tua ragazza dov’è?
– Eh no ci siam lasciati…
– Come mai?
– Eh le cose non andavano più bene
– Cioè?
– Beh si arriva a un certo punto in cui tendono a ripetersi delle dinamiche e non c’è più una crescita
– Perché?
– Perché quando non si ricevono più stimoli in entrambi i sensi non c’è più uno scambio, il rapporto di coppia si inaridisce
– E quindi?

A quel punto intervenne un terzo
– Non te lo vuole dire, basta

Che mi salvò dal dirgli Hai rotto il cazzo.

Quando mi capita di incrociarlo per strada mi attengo sul formale e il generale, in ogni modo non credo di rientrare più tra i suoi interessi. Mi chiede a volte di terzi in comune. Io glisso sempre con un Non so niente.

Oggi mi ha scritto all’improvviso

– Lo sai ho incontrato Tizio. Te lo ricordi?
– Sì, a volte lo incrocio per strada
– L’ho visto strano. Gli ho chiesto Tutto bene? e lui mi sembrava nervoso ma ha detto Sì tutto bene
È sempre stato un po’ schivo [E tu gli facevi schivo mi sa]
– Ma sta lavorando?
– Non lo so [Perché non l’hai chiesto a lui?]
– Ma sta sempre col cellulare in mano, ma una donna ce l’ha?
– Non lo so [Magari scrive a una donna, che ne sai. Dubito rincorra i Pokémon a quarant’anni]
– Anche dalle sue foto, zero. Capirai, comunque, parla poco e niente come se poi a noi interessasse qualcosa
– [Infatti, uno che gli va a spulciare pure le foto su facebook è un tipo discreto] Ma sai, è schivo…
– Secondo me ha qualcosa da nascondere e non lo vuole far sapere
– Scusa devo andare a dare le pillole al gatto


NOTA STORICO-ANTROPOLOGICA
Un individuo del genere da queste parti si può qualificare come capéra. In origine, nell’Ottocento, la capera era la parrucchiera a domicilio, che sistemava le teste (le cape) delle donne. È noto che tale mestiere porta a entrar in confidenza con i propri clienti, ancor oggi è così. La capera veniva così a conoscenza di tutti i fatti altrui e, per avere argomenti di conversazione, riportava confidenze e pettegolezzi da una cliente alle altre, creando un giro di gossip di quartiere. Oggigiorno essere una capera equival a esser quindi pettegoli e ficcanaso.


Sarebbe bello se le lavanderie mondassero coscienze, ma sai che spreco di detersivo?

Questo non è un aneddoto che riguarda direttamente Madre, ma una sua collega di lavoro. La tal signora, che chiameremo s. (più avanti spiegherò per cosa sta s.), ama indossare la pelliccia, anche quando non si gela ma c’è quel clima che non è inverno ma neppure primavera. Purtroppo, capita in quest’occasione di ritrovarsi sudaticci e di dover procedere a far lavare il pregiato capo d’abbigliamento, come raccontava s. a Madre: il tutto tenendoci a sottolineare l’inconveniente dell’afrore di sudaticcio che impregna la pelliccia.

Fino a qualche tempo fa, la signora s. si rivolgeva a una determinata lavanderia, prima di scoprire che nel suddetto esercizio vi si recavano anche “i neri” a far lavare i propri capi sporchi (che stranezza! Io in lavanderia invece porterei capi puliti!) e che i gestori poi lavassero tutti insieme i vestiti dei clienti.

Non è per discriminare, eh – precisa s. – ma non voglio che mischino i miei panni con quelli sporchi che portano i neri”.

A proposito de “i neri” della mia città. Da qualche anno si sono trasferiti qui dei ragazzi provenienti dall’Africa subsahariana, dei rifugiati politici arrivati anche loro come tanti con dei relitti galleggianti sulle nostre coste. Ne conosco uno, fa il cameriere nel pub dove vado sempre, un altro faceva il turno di notte come benzinaio poi il distributore ha chiuso, un altro fa il tuttofare – nel senso che sistema i carrelli, sposta casse e scatoloni, porta la spesa ai vecchietti – in un supermercato. Qualcun altro non so, altri ancora, non trovando lavoro, sono andati via e non so dove siano.

Io di lavanderie son poco pratico, ma non credo che le pellicce vengano lavate insieme alle canottiere e ai pantaloni, di questo son quasi certo.

Sul fatto di lavare tutti insieme i capi dei clienti, non lo so perché come ho detto non frequento lavanderie, ma lo trovo un fatto normale per ottimizzare tempo e risorse e per giustificare quelle enormi lavatrici che vidi una volta da bambino e che mi spaventarono alquanto(a meno che non siano lavatrici per taglie XXXXXXL)! Se io portassi un calzino dovrei aspettarmi che lo lavino singolarmente?

A questo punto posso quindi anche rivelare che s. sta per “stronza”, perché la signora secondo me è di etnia stronza.

Non è per offendere, eh. Non cominciamo. Oggigiorno non si può dir nulla che si viene accusati di essere offensivi. Ma se uno dice un dato di fatto, è per caso un’offesa? Se io dicessi “quello è moro, quello è alto, quello è biondo e quello è basso” starei offendendo? Come ci sono delle persone alte e basse così ci sono delle persone stronze, ma non ho nulla contro di loro, anzi, io ne conosco un sacco di stronzi.

Riflettendo, comunque, credo di aver capito il ragionamento della signora. Deve aver frainteso il concetto di separare i bianchi dai neri quando si fa il bucato.