Non è che il panettiere vada in Tibet a fare esercizi di lievitazione

In questi giorni va di moda un’applicazione che invecchia le fattezze. Io non so che fretta abbia la gente di invecchiare o di vedersi vecchia. In questo stesso periodo riflettevo sulla necessità per me di investire su un fondo pensione o un’assicurazione di questo tipo, dovendo per forza di cose confrontarmi con la dura realtà di un sistema pensionistico che, stando così le cose, mi porterebbe un giorno, cessata l’età lavorativa, credo a far la fame.

Ecco, il solo pensare a tutto ciò, alla vecchiaia, agli stenti, mi ha gettato in angoscia e ansia cosicché ho smesso di pensarci distogliendo la mente per il momento, dedicandomi a esercizi di l’evitazione.

L’evitare è una pratica antica che, se eseguita in modo sapiente, può dare grande soddisfazione e senso di leggerezza.

Tanti anni fa io ho praticato l’evitazione ma nel modo sbagliato. Ero agli inizi del liceo, intorno ai 14-15 anni. Rispetto ai miei amici, avevo il coprifuoco molto prima. Dato che mi dava peso e vergogna dovermene sempre scappare via nel mezzo della serata, a volte lasciando i soldi sul tavolo in pub o in pizzeria, presi a l’evitare. Non uscivo più, a volte dicevo Sì sì vengo – pur sapendo che non ci sarei andato ma non volevo dar spiegazioni – ci vediamo lì e poi non mi presentavo.

Questo non è il modo giusto di praticar l’evitazione.

L’evitazione non si pratica in modo disonesto, anzi, è una forma di giustizia e raddrizzamento dell’equilibrio karmico dell’universo. Il l’evitante non cerca di abusare della buona fede altrui né usa la pratica in modo indiscriminato.

Forse starò generando confusione in chi mi legge, mi sia d’aiuto allora un reperto fotografico esplicativo:

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Questo sono io qualche giorno fa mentre pratico l’evitazione. L’evitazione della fatica. Notare la leggerezza che traspare da ogni singola parte del corpo. Cosa importante, io l’evito la fatica ma senza arrecar nocumento a persona alcuna.

Forse sarò eccessivo con questi ammonimenti, ma devo diffidare il principiante dall’esagerare con l’evitazione, pena il rischio che gli si ritorca contro. L’evitante savio sa quando è d’uopo darsi alla pratica e quando no. È colui che sul posto di lavoro sa quando l’evitare una incombenza ingiusta può sollevarlo dallo stress e quando invece è opportuno tornare con i piedi per terra e rimboccarsi le maniche. È l’individuo angariato da un postulante o da un seccatore e quindi l’evita, mentre non solleva se stesso dall’aiutare chi lo cerca bisognoso di un aiuto.

Certo di aver offerto qualche chiarimento opportuno, spero quindi che altri come me si concentrino sulla nobile arte di l’evitare.

 

Non è che il professore di matematica non possa soffrire i calcoli

È da qualche mese che la signora che assisteva mio nonno se ne è tornata nel suo Paese d’origine. Confesso un po’ mi manca: non so perché m’avesse preso molto in simpatia, quando mi vedeva mi abbracciava sempre soffocandomi nel suo prominente petto e mi chiedeva un sacco di cose su di me. La nuova signora che ha preso il suo posto invece a stento mi saluta e mi guarda con sospetto.

Gli entusiasmi e la cortesia sono sempre o eccessivi o scarsi.

Ho avuto un esempio di entusiasmo eccessivo l’altro giorno.

Ho una ex che da 3/4 anni a questa parte, cioè da quando è entrata nel cimitero (allegorico) delle ex, mi scrive a puntuale cadenza semestrale per chiedermi Come va?. In genere la conversazione si conclude – o la lascio cadere io – dopo qualche breve scambio di frasi. L’altro giorno invece in occasione del suo contatto ormai calendarizzato mi son trovato a chiederle se conoscesse una buona piscina – una volta lei gareggiava – , visto che quella dove vado ha chiuso in anticipo per lavori.

– Io ne conosco solo una, che fa gli ingressi liberi, di fronte a dove mi sono trasferita, dove vado in palestra
– Ah
– Se vuoi t’accompagno a vedere
– …Ok

Ci troviamo lì, dopo un paio di saluti formali mi presenta alla tizia delle reception, la quale sul foglio con il programma dei corsi mi scrive un problema di trigonometria che sto ancora cercando di risolvere:

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Non ho capito nulla delle opzioni che mi ha descritto, anche perché non mi interessavano: volevo soltanto sapere se potessi avere 6 ingressi da qui a fine mese.

Espletata questa pratica, Ex poi mi fa:

– Ci pigliamo un caffè, aperitivo, qualcosa?
– Beh se
– Sennò anzi il caffè ce lo pigliamo sopra tanto io abito qua, ti faccio vedere casa

Non mi aveva dato tempo di rispondere. Comunque salgo da lei, mi fa fare il giro turistico della casa e a ogni cosa che mi mostra io fingo meraviglia e ammirazione anche se guardare case altrui mi annoia.

Poi mi fa accomodare, mi offre da bere, chiacchieriamo. Ogni tanto guardo l’orologio ma sembra non cogliere questi miei segnali non verbali. Così a un certo punto dico:

– Dai, ora ti tolgo l’ingombro

Che è la formula che uso sempre per dire che me ne voglio andare via ma per non sembrare maleducato nel desiderare di andare via allora mostro che sono molto educato nel non voler essere d’impiccio.

– Ma no dai figurati, non ti preoccupare, anzi possiamo pure andare a cena al pub qua vicino, oppure puoi cenare qua andiamo al supermercato a fare la spesa oppure guardiamo in frigo e vediamo cosa c’è

Il passaggio ceniamo fuori->usciamo a comprare da mangiare->non usciamo proprio e restiamo chiusi qui mi ha fatto colare delle gocce di sudore dalla nuca, dove finiscono i capelli, al collo, raccoltesi sul cordino del ciondolo e colate poi sul davanti seguendo il medesimo cordino fino a confluire verso lo sterno dove mi si è formata una pozzetta di disagio liquido.

Mi sono ricordato di essere arrivato lì con l’auto del lavoro e ho pensato di usarla come scusa.

– Eh sai com’è sto con l’auto aziendale…non voglio tenerla in giro la sera…poi se la vedono…oppure magari succede qualcosa…sai com’è
– Se vuoi puoi andare a posarla e poi tornare qua con la tua ti aspetto
– Devo scappare mi dispiace comunque l’invito lo ritengo valido per un’altra volta ciao.

Così sono fuggito perché francamente quella sorta di frenesia che avvertivo in lei nell’avermi a casa sua mi procurava una vaga sensazione di soffocamento, oltre che di trappola.

E poi avevo un problema di trigonometria da risolvere che mi aspettava!

Non è che il tennista lavori in un pub per fare il servizio

Non ho più memoria della prima volta che ho messo piede in quel che da anni è il posto di ritrovo post serale solito nella mia città.

Si è così consolidato in una piccola piega del tessuto urbano-sociale da avere assunto connotati da cliché. Basterebbe guardare il contenitore portadolci accanto la cassa per rendersene conto: pasticcini impastati dalle mani della moglie del proprietario, che stazionano lì per anni come semplici oggetti ornamentali, stile Luisona di Benni.

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Lo spezzatino avanzato dal ragù della domenica può essere infilato in un panino. Foglia di alloro compresa. Uno dei tanti esempi culinari del ritrovo tipico.

Ricordi inoltre non ho di quando abbiamo cominciato ad avere un rapporto complicato con le cameriere. Complicato forse è un po’ troppo, diciamo che ci sentiamo sempre guardati un po’ male quando osiamo alzare il dito per chiedere, accolti con un grugno che sembra dire Se cercate guai li avete trovati.

La vita da cameriera in un pub è un inferno. Avanti e indietro, ordini che arrivano, ordini che non arrivano, clienti da tenere a bada.

Capisco che spesso ci sia poco da esser gioviali.

D’altro canto – e non lo dico perché sono la parte in causa – credo di appartenere alla schiera di clienti meno complicati del mondo. Sono anni che io e il mio compare ci accomodiamo chiedendo la stessa identica cosa: due Bass Scotch medie. Al massimo, un posacenere di contorno. Non sporchiamo, non strepitiamo, non chiediamo variazioni strane dei menù come panini alla segale cornuta ma senza la cornuta e senza il panino.

Non pretendiamo il posto a sedere: se non c’è beviamo in piedi fuori.

Ci scansiamo come Neo quando le vediamo passare cariche di piatti di trigliceridi esausti.

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Se è porno, cavoli vostri.

Il problema forse risiede proprio nella nostra discrezione e invisibilità: non abbiamo mai creato un rapporto umano con loro. Siamo forse gli avventori anomali, rispetto ad altri che ho visto scambiar qualche battuta con le cameriere e, addirittura, averle fatte sorridere.

Non che io non ci abbia provato a porre le basi di un minimo di contatto civile. Ammetto però tutta la mia incapacità per riuscire a portar a casa un successo.

Ricordo un’estate di due anni fa, in cui – in maniera improvvisa e inspiegabile – il pub divenne fino alle 22-23 di sera meta preferita di famigliole con bambini al seguito che correvano tra i tavoli, si lanciavano cibo, correvano tra il cibo e si lanciavano tavoli.

Sconcertato da tutto ciò, mentre la cameriera puliva il nostro tavolo decorato dai bambini da spruzzi di maionese e ketchup che ricreavano motivi di Pollock, per esser simpatico esclamai

– Certo però che questo una volta era un posto per adulti
– Eh.

Fine della nostra conversazione.

Lo riconosco, la socialità non è arte mia. Un piccolo aiuto dall’altra parte però sarebbe richiesto.

Ieri sera, evento eccezionale, una cameriera mentre riordinava i tavoli fuori in vista della chiusura ci ha rivolto la parola.

Poverina, è nuova: non ha capito o forse non le hanno spiegato che siamo dei paria.

Ci ha chiesto aiuto su come dovesse fare per bloccare scheda e cellulare, visto che nel pomeriggio aveva subito una rapina.

È simpatica. Sarà ancor più doloroso il momento in cui comincerà a lanciarci occhiate di rancoroso disprezzo come le altre sue colleghe.

Non è che devi dire alla gente di scansarsi prima di lanciare un prodotto sul mercato

Il marketing è tra le cose che mi affascinano di più.

La genialità sta nell’andare sempre incontro ai bisogni della gente, di prevederli o anche, come sosteneva Stefano Lavoro, di crearli laddove non ce ne sono.

Così, quando qualcuno ha iniziato a diventare oliodipalmafobico, sono iniziati a comparire prodotti senza tal ingrediente.

Quando ha preso piede la follia collettiva del mangiare senza glutine pur non essendo celiaci, i supermercati hanno raddoppiato gli scaffali di prodotti gluten free.


Almeno questo è un bene per i veri celiaci, ovviamente: 15 anni fa ricordo che una mia compagna di classe, celiaca, doveva andare a comprare il cibo a 20 km di distanza. Su ordinazione.


Il cibo gourmet. Passi quello preparato da uno chef stellato, ma che il pub di Giggino il zozzoso serva un panino 5 piani hamburger, bacon fritto, anelli nuziali di cipolla, cheddar esausto (il famoso cheddar una volta…) funghi tribolati (hanno subìto maltrattamenti) con soppalco (abusivo ma poi condonato) di parmigiana di melanzane con totale di 1500 calorie – contorno di patate fritte nell’Agip Sint 2000 escluse – e me lo faccia pagare 13 euro perché “è gourmet” mi sembra un po’ una truffa.

La guerra dichiarata da alcuni anni alle taglie 40 e ai modelli di fisico troppo distanti dalla realtà ha indotto molte case di moda a utilizzare modelle di taglie superiori e/o non ritoccate con Photoshop.

Anche in questo caso, può essere visto come un bene e un piccolo passo di civiltà. Io non posso fare a meno di vederlo come un semplice tentativo di crearsi e/o esplorare altre fette di mercato, con buona pace della civiltà.

Non voglio comunque entrare nel merito di ciò, anche perché c’è già tanta gente che dibatte su quale utilizzo fare del corpo femminile. E quelli che dibattono, tipo me, non hanno neanche un corpo femminile. Alcuni non hanno neanche un corpo ma solo una testa di cazzo.

Tutti gli esempi che ho fatto sono soltanto propedeutici alle mie riflessioni su come entrare nel mondo del marketing, in quanto prima o poi debbo decidere cosa fare da grande.

Ho pensato quindi a delle idee che, forse, in futuro potrebbero ispirare nuove linee di prodotti appositi dopo una adeguata campagna di sensibilizzazione sociale.

Il gluteo-free: secondo uno studio dell’Università di Baden-Baden, nel Baden-Württemberg (Baden-Germania, Baden-Europa Centrale) la costrizione continua dei muscoli delle natiche ad opera dei capi di abbigliamento (in particolare i jeans) sarebbe collegata all’insorgenza di patologie. A prescindere da quali esse siano, se c’è una patologia e si indossano dei pantaloni, il collegamento è immediato anche se i grandi marchi di abbigliamento tendono a negare.

Sarebbe quindi consigliabile indossare capi che lasciano le natiche scoperte. Tra le star questo stile di vita è già noto e tra le prime a proporre il vestiario salutista fu, in tempi non sospetti, Christina Aguilera, qui in una diapositiva durante una convention gluteo-free:

Il gluteo-free è una filosofia perfettamente compatibile con la propria vita, come dimostra questo distinto signore che si reca al lavoro in scooter:

– Un altro studio, comparso sulla rivista di divulgazione scientifica Confidenze (che confida nel fatto che tu non lo dica ai Poteri Forti), ha invece illustrato i vantaggi della dieta Vegana.

Il corpo umano, infatti, seppur celebrato come macchina perfetta, si presenta alquanto debole e fragile.

Ne sa qualcosa Actarus, che per difendere i Terrestri dai forti nemici guidati dal Re Vega, deve ricorrere a un’astronave-robot. Che cosa mangiavano mai i Vegani per essere così grossi e temibili?

Vegani soddisfatti dei loro fisici possenti frutto di una corretta alimentazione.

D’altro canto, Goldrake sconfiggeva i Vegani mangiando libri di cibernetica e insalate di matematica, quindi secondo alcuni dissidenti il segreto di longevità sarebbe una dieta contro-Vegana!

– Il Professor Vlad dell’Università Carpatica della Transilvania, infine, ha illustrato il suo punto di vista sulla dieta del gruppo sanguigno.

Secondo il Professore, una dieta ben bilanciata deve contenere la giusta alternanza tra A, B, AB e 0.

Non d’accordo con lui il Professor Van Helsing, ma quest’ultimo è pagato dalla lobby dei venditori di aglio.


Questo post non intende offendere o deridere coloro che, per scelta o obbligo di salute, seguono un regime alimentare particolare. Ha invece l’intento di offendere e deridere coloro che si auto-prescrivono regimi alimentari secondo gli orientamenti del webbe.


Se non sono riuscito nell’intento di offendere e deridere coloro che si auto-prescrivono ecc. mi emendo.


Non è che forse “figli di buona famiglia” vada inteso come “figli di buona donna”?

È notizia di ieri che sono state arrestate 5 bestie per aver violentato una ragazza.

I commenti al fatto di cronaca erano che fossero “Cinque ragazzi normali”.


Un po’ vaga e lacunosa come definizione. Andrebbe spiegato come invece violenta una donna un ragazzo anormale. I media avrebbero il dovere di informare riguardo ciò, cosicché si possa poi riconoscere un anormale a prima vista.


Il TG Regionale si è spinto oltre, definendoli “Insospettabili” e “Di famiglie bene”.

Mi interrogo sempre su cosa sia una famiglia bene. Ho chiesto a Madre:

– Madre, noi siamo una famiglia bene?
– Tuo padre bestemmia da quando apre gli occhi fino alla sera quando li chiude, secondo te?

Il Sindaco del Comune dove è avvenuto il fatto, intervistato, ha detto di essere scioccato, la loro “È una comunità bene”.

Qui le cose cominciano a complicarsi: non è ben chiaro come qualificare una comunità bene e se per caso esista una sorta di Denominazione di Origine Controllata per distinguerle dalle finte comunità bene Made in China.

Per fortuna il Primo Cittadino ha poi aggiunto che “[È una comunità] di gente che lavora”, che è invece una esauriente specificazione.

Sono passato quindi a farmi un piccolo esame di coscienza: non ero neanche preparato, quindi sono andato giusto a tentarlo.

È da tempo che io infatti vorrei commettere un reato.


Credo che ognuno nel proprio bagaglio di esperienze debba averne uno, per vantarsi con gli amici al pub o per usarlo come arma politica invocando una persecuzione giudiziaria.


Non sono orientato su cose turpi e/o aberranti e/o violente.
Penso più a un qualcosa di artistico, come una rapina in banca o in appartamento degna di Lupin o Diabolik.

Ma prima di fare questo passo, devo pormi una domanda: avrei i requisiti giusti per non essere poi etichettato come un criminale della peggior specie, bensì come “Un ragazzo normale”, “Un insospettabile”, “Uno come tanti che vuol bene alla mamma e sognava di fare l’astronauta il calciatore”?


Credo gli astronauti come popolarità siano un po’ in ribasso, basti guardare gli insulti su internet a Samantha Cristoforetti, il fatto che andare nello spazio costa soldi quando invece potremmo investirli in tangenti sulla Terra, o le questioni sul fatto che il Mondo sia piatto e il cielo una cupola chiusa.


1) Innanzitutto c’è il problema di ottenere il riconoscimento di “famiglia bene”. Dovrò informarmi se c’è un ente preposto a tale scopo.

2) C’è la questione del salutare i vicini tutti i giorni, che sembra sia importante. Io rispetto l’obbligo in parte: c’è una famiglia, che abita nel palazzo di fronte casa, con cui ci si ignora in modo freddo come tra blocchi geopolitici sotto Cortina di ferro. C’è poi la vicina nella casa di fianco, che semplicemente se ti vede fugge via.
Costoro potrebbero costituire un problema e danneggiare la mia immagine nel caso venissero intervistati dalle telecamere di Barbara D’Urso.

3) Il lavoro è il vero nodo spinoso. Nel mio curriculum ci sono dei buchi temporali tra le varie esperienze. Potrei dare la colpa alla congiuntura economica, al governo, alle scie chimiche, a tante cose: ma il messaggio che passerà all’opinione pubblica – e io l’opinione pubblica la osservo bene e so come ragiona – sarà che io non ero un gran lavoratore perché non lavoravo sempre.
Dovrei forse mentire sul cv, allungare qualche esperienza, aggiungerne un’altra qua e là.

4) È necessario assumere un’aria rispettabile ed eliminare qualsiasi oggetto personale che possa essere utilizzato per fornire interpretazioni sulla propria personalità a qualche opinionista: come ad esempio le mie fantastiche camicie che, come dimostra il seguente reperto fotografico, vengono anche copiate:


Io son quello di destra e la risposta è no, io e l’altro tizio non ci eravamo messi d’accordo.


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Mi sono quindi reso conto che è veramente difficile oggigiorno riuscire a passare per un criminale insospettabile. Quindi almeno per il momento il crimine dovrà fare a meno di me.

Tanto sembra che in giro ci siano tanti ragazzi perbene pronti a prendere il mio posto.

L’ossessione alimentare ci renderà lottatori di consumo

Durante l’adolescenza credevo il mondo ruotasse intorno al sesso.
O forse ero io a crederlo, avendo tutti i giorni davanti i fondoschiena delle mie compagne di classe che finivano col monopolizzare la mia attenzione anche quando non erano davanti a me.

Comunque mi sbagliavo.
Il mondo – quello occidentale – ruota intorno al cibo. Ho l’impressione che ne siamo invasi e ne consumiamo troppo.

O forse la summa è il cibo + sesso. O anche il sesso col cibo, dipende dai gusti di alcuni.

Non accendo mai la tv eppure finisco indirettamente per essere invaso da programmi di cucina di cui non comprendo più l’utilità, la funzione e la credibilità.


Anche se confesso che Chef Rubio, l’ex rugbista divenuto cuoco, mi è simpatico.


Non comprendo come sia possibile che in giro ci siano programmi come quello di quel tale che va in giro a cercare i posti dove il cibo viene servito a metro: panini di dieci piani con venti tipi diversi di formaggio fuso e pizze con strati geologici di ingredienti che per esplorarli tutti servirebbe Alberto Angela.

Spegnere la televisione e uscire con altre persone significa molto spesso stare intorno a un tavolo. E stare intorno a un tavolo vuol dire mangiare. Anche solo arachidi e patatine San Carlo, ma bisogna mangiare perché si deve ingannare il tempo – che non si sa cosa di male abbia fatto ma va preso per il culo in ogni caso.


A proposito, mi chiedo sempre se le ciotole di arachidi salate non terminate dai clienti vengano svuotate, oppure vengano riproposte ad altri tavoli. Pensate, la prossima volta che infilate la mano dentro, alle mani altrui nella medesima ciotola.

Apprezzo in questo senso il pub dove vado sempre, che ti butta a tavola manciate di arachidi ancora nel guscio.

Probabilmente il gestore ruba i sacchi per gli elefanti allo zoo.


Una volta uscendo la sera per strada ciò che sentivo era puzza di ascella e scie di profumo lasciate da qualcuno a cui si era evidentemente rotto lo spruzzatore. Oggi ogni afrore è coperto da kebab, patate fritte, olii vari bruciati e generici odori di cose cucinate (spesso male). Anche se per quanto riguarda l’ascella come si suol dire l’odore vince sull’olio.

Salumerie e pescherie di sera diventano pub e sfizioserie.
Che è come se un nightclub di giorno fosse un ambulatorio ginecologico.

E poi la gente fa foto al cibo.
Sono stato con una persona che prima di mangiare doveva fare una foto al piatto. Questa doveva essere la prova che non fosse sana di mente, eppure ho ignorato il segnale di pericolo e ne ho pagato le conseguenze.


La persona in questione potrebbe dire di me che non sono sano di mente e potrebbe anche addurre delle motivazioni.
Ma io non faccio foto al cibo e ciò mi pone in vantaggio.


Infine, credo che quelli che si credono esperti di diete abbiano portato a una progressiva riduzione dell’integrità del sacco scrotale. Quelli che “sapete che non bisogna mangiare questo? Sapete quanto fa male quest’altro? Sapete cosa mettono qui dentro?”. Una volta quelli alimentari erano consigli da rivista da parrucchiere, oggigiorno grazie a internet sono diventati tutti quanti esperti da parrucchiere e mi chiedo se ciò abbia portato a una crisi delle riviste da parrucchiere.

Per carità, anche io predico bene e Ruzzle male: seguo anch’io una dieta, quella macroidiotica.

La dieta macroidiotica si basa sul fatto che fino a quando qualcosa non ti fa male, si può mangiare. Ci vogliono anni di prove per sviluppare tale consapevolezza. Ad esempio, prima di giungere alla conclusione, durante l’adolescenza, che litri di bevande gassate mi facessero male, ho passato lunghe notti a meditare sul grande trono di ceramica.

E ancora imparo cose nuove.

È difficile essere macroidiotico oggigiorno, in quanto le multinazionali, le nazionali e pure le regionali cercano sempre e comunque di contrastarti.

La dieta macroidiotica ha un limite: dovendo testare ciò che mangi prima di sapere se e quanto puoi mangiarlo, rischi di ingerire qualcosa che ti faccia molto molto male.
In quel caso, principio della macroidiotica sui cibi sconosciuti è quello di far provare prima qualcun altro.

Perché, ricordate, il macroidiota è colui che può essere pericoloso per sé stesso me anche per gli altri.

Un buon regista dovrebbe saper girare l’angolo


Nel post sono presenti inserimenti di prodotti a fini commerciali (o promozionali).


Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 nella mia città non c’erano molti posti dove i giovani potessero radunarsi ed esprimere la propria giovinosità.

Capitava che, quindi, si radunassero tutti “all’angolo”, che non era il nome di un locale ma un angolo di strada vero e proprio: un incrocio chiuso su tre angoli da palazzi di due-tre piani e su un quarto da una villa (tra l’altro di proprietà del sindaco) che coi suoi muretti offriva supporto ai deretani (fasciati dai jeans sensibili Wampum) dei giovani e costituiva “l’angolo” vero e proprio.

Col senno di Poe (Edgar Allan) credo che lì girasse l’eroina. O forse sono rimasto traumatizzato dagli spot “Chi ti droga di spegne” che comparivano anche su Topolino.

Poco più in là c’era una sala giochi, frequentata anche dagli amici di mio padre che tra i 30-40 anni erano ancora scapoli. Quando bimbetto e passavo lì davanti con i miei genitori scrutavo da fuori per capire a cosa stessero giocando. Non mi era concesso entrare. Purtroppo da fuori si capiva bene poco, inoltre la coltre di fumo di sigaretta era così densa che all’interno era consigliato indossare abiti sgargianti per risultare visibili. Ci voleva un fisico bestiale.

A turno, uno degli amici di mio padre mi offriva un gelato. La sala giochi era fornita solo di Sammontana, la mia preferita era la coppa all’amarena anche se ogni confezione puzzava di nicotina e questo influiva sul mio godimento dell’estate italiana con Sammontana.

L’angolo si è spopolato a metà degli anni novanta, quando i giovani dell’epoca sono diventati meno giovani e altri giovani hanno iniziato a esprimere la loro giovanilità (e qualcuno ha espresso anche del giovanilismo) altrove.

Mi incuriosiscono sempre le dinamiche di spostamento del branco.

Ci ripensavo questa sera quando sono uscito per andare in un posto diverso della solita birreria che uso come punto di ritrovo, perché chiusa di mercoledì. Tale posto diverso si trova in una piazza che fino a pochi anni fa era deserta. Un bel giorno (ma brutto per gli abitanti del quartiere) aprì un pub, seguito poco tempo dopo da un altro locale. Poi sono arrivati il kebab, le patatinerie e altri rivenditori di colesterolo. In poco tempo qualsiasi buco libero che facesse da contorno alla piazza era stato riempito da una attività: uno stanzino minuscolo fronte strada, così piccolo che potrebbe abitarci soltanto una famiglia di cinesi, da un giorno all’altro diventava adibito a cicchetteria.


Ovviamente sono arrivati anche i parcheggiatori abusivi e gli spacciatori: sono loro a certificare la rilevanza di un posto.


Finché la gente arriva, è giusto approfittarne. La piazza è gremita ogni fine settimana, al confronto l’angolo sembrava una riunione della bocciofila.

Ma la mia domanda è: come e quando arriva la gente?
Vorrei conoscere il primo esemplare di giovane che mette piede in un posto e che dà inizio alla transumanza e chiedergli se è conscio del suo essere un novello Mosè, che contrasta gli egiziani (e anche i siriani, i libici, gli eritrei e tutti quelli che attraversano il Mediterraneo), dà fuoco ai cespugli (e anche ai bidoni dell’immondizia) e poi parla con dio ma solo dopo aver comprato l’MDMA.

Sarebbe bello se le lavanderie mondassero coscienze, ma sai che spreco di detersivo?

Questo non è un aneddoto che riguarda direttamente Madre, ma una sua collega di lavoro. La tal signora, che chiameremo s. (più avanti spiegherò per cosa sta s.), ama indossare la pelliccia, anche quando non si gela ma c’è quel clima che non è inverno ma neppure primavera. Purtroppo, capita in quest’occasione di ritrovarsi sudaticci e di dover procedere a far lavare il pregiato capo d’abbigliamento, come raccontava s. a Madre: il tutto tenendoci a sottolineare l’inconveniente dell’afrore di sudaticcio che impregna la pelliccia.

Fino a qualche tempo fa, la signora s. si rivolgeva a una determinata lavanderia, prima di scoprire che nel suddetto esercizio vi si recavano anche “i neri” a far lavare i propri capi sporchi (che stranezza! Io in lavanderia invece porterei capi puliti!) e che i gestori poi lavassero tutti insieme i vestiti dei clienti.

Non è per discriminare, eh – precisa s. – ma non voglio che mischino i miei panni con quelli sporchi che portano i neri”.

A proposito de “i neri” della mia città. Da qualche anno si sono trasferiti qui dei ragazzi provenienti dall’Africa subsahariana, dei rifugiati politici arrivati anche loro come tanti con dei relitti galleggianti sulle nostre coste. Ne conosco uno, fa il cameriere nel pub dove vado sempre, un altro faceva il turno di notte come benzinaio poi il distributore ha chiuso, un altro fa il tuttofare – nel senso che sistema i carrelli, sposta casse e scatoloni, porta la spesa ai vecchietti – in un supermercato. Qualcun altro non so, altri ancora, non trovando lavoro, sono andati via e non so dove siano.

Io di lavanderie son poco pratico, ma non credo che le pellicce vengano lavate insieme alle canottiere e ai pantaloni, di questo son quasi certo.

Sul fatto di lavare tutti insieme i capi dei clienti, non lo so perché come ho detto non frequento lavanderie, ma lo trovo un fatto normale per ottimizzare tempo e risorse e per giustificare quelle enormi lavatrici che vidi una volta da bambino e che mi spaventarono alquanto(a meno che non siano lavatrici per taglie XXXXXXL)! Se io portassi un calzino dovrei aspettarmi che lo lavino singolarmente?

A questo punto posso quindi anche rivelare che s. sta per “stronza”, perché la signora secondo me è di etnia stronza.

Non è per offendere, eh. Non cominciamo. Oggigiorno non si può dir nulla che si viene accusati di essere offensivi. Ma se uno dice un dato di fatto, è per caso un’offesa? Se io dicessi “quello è moro, quello è alto, quello è biondo e quello è basso” starei offendendo? Come ci sono delle persone alte e basse così ci sono delle persone stronze, ma non ho nulla contro di loro, anzi, io ne conosco un sacco di stronzi.

Riflettendo, comunque, credo di aver capito il ragionamento della signora. Deve aver frainteso il concetto di separare i bianchi dai neri quando si fa il bucato.

Il tifo è una brutta malattia

È ricominciato il campionato di calcio, purtroppo o per fortuna (ai poster attaccati al muro l’ardua sentenza!) e son tornate ad aggirarsi tra di noi, se mai si fossero nascoste, le specie animali vittime del tifo che vado di seguito a elencare.

Il Carbonaro – Come l’appartenente a una setta, pratica il tifo di nascosto quando la propria squadra affronta periodi bui. Se glielo si chiede, mostrerà scarso interesse o addirittura negherà la propria fede calcistica. Quando invece la squadra a cui tiene salirà agli onori della ribalta, romperà i maglioni a tutti in maniera irruente esibendosi in spudorate esultanze e manifestazioni di gioia.

Mastella – Degno del miglior trasformismo politico cambia casacca con una regolarità disarmante. Per lui non c’è gusto a stare con chi perde, quindi si allena con costanza nella specialità olimpica del salto sul carro del vincitore. Ogni volta, ovviamente, dirà che in realtà sotto sotto ha sempre tifato per quei colori.

Tutto il calcio minuto per minuto – Lunedì: risultati del fantacalcio. Durante la settimana, coppe europee e messa a punto delle puntate da fare da Eurobet. Venerdì, formazione del fantacalcio. Week-end: campionato, of course. Nel tempo libero si dedica a lavoro e famiglia. Quando si ricorda di averli.

“È rigore!”

Dr Jekyll & Mr Hyde – L’uomo che durante la settimana ha l’aspetto placido e tranquillo di un impiegato del catasto sotto cloroformio ma che quando gioca la propria squadra si trasforma in Hulk. Urla, si agita, grida indicibili improperi, le vene del collo gli si gonfiano come palloncini sul punto di esplodere. La Meliconi ha creato apposta per lui dei gusci per il telecomando che resistono anche al lancio contro il muro. Nella trance agonistica potrebbe divorare il televisore dalla rabbia. Terminate le ostilità, poi va in chiesa a confessarsi per le bestemmie che si è lasciato sfuggire.

Il finto disinteressato – Il finto disinteressato sembra non seguire lo sport. Sembra, per l’appunto. Le sue orecchie riescono a intercettare meglio dell’NSA: se qualcuno intorno a lui sta discutendo di calcio, lui orienta il proprio udito per captare ogni singola parola. Si avvicina fischiettando e con nonchalance introduce l’interessata domanda “Ma com’è finita la partita…?”. Altro suo superpotere è l’occhio da camaleonte: quando si trova in un luogo dove una tv trasmette la partita, riesce a seguire l’incontro con la sua vista in grado di ruotare a 360° senza farsi scoprire da nessuno.

Il pluripentito – Quello che afferma di essere stanco del calcio, perché non è uno sport, non ha valori, vi gira troppo denaro intorno e poi non è concepibile che per una partita di calcio si scateni una guerra. La domenica successiva sarà di nuovo a seguire gli incontri, salvo poi pentirsene un’altra volta e così via per il resto dell’anno.

Pessimismo cosmico – Lo scontento perenne di come vanno le cose per la propria squadra: guarda la campagna acquisti estiva e dà già per certa la retrocessione, si lamenta di continuo della dirigenza e auspica la vendita della società a un ricco magnate (o magnaccia) russo o a un petroliere arabo: evento molto probabile, il mondo è infatti pieno di sceicchi che sognano di acquistare la A.S.D. (Associazione Sportivi Disperati) Vergate sul Membro Football Club. Ogni domenica chiede la testa dell’allenatore e l’allontanamento di una decina di calciatori per scarso impegno.

Il Lord – Quello che segue solo calcio inglese, sogna di intonare cori ubriaco in un pub di Liverpool, ama il gioco maschio e le entrate a gamba tesa al limite della scomunica. Nel 99% dei casi uno stadio inglese l’ha visto solo in foto.

Quello che la fa fuori dal vaso – A luglio è convinto che il prossimo sarà l’anno buono, che non ce ne sarà per nessuno; va in giro a dire agli altri di prepararsi a nascondersi perché “quest’anno vi facciamo neri”. Ad agosto comincerà ad avere qualche perplessità ma continuerà a esternare ottimismo e a esibirsi in spacconate. A settembre sarà già depresso e comincerà a dire “quest’anno  è così ma vedrete il prossimo…”.

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“Aaah!  Dobbiamo segnare dall’altro lato!”

La fidanzata del tifoso – Buuh, i soliti luoghi comuni! Anche le donne seguono il calcio! Ci sono donne più competenti degli uomini!
Calma.
È vero, ma è anche un dato di fatto (e test clinici lo dimostrano) che si annidi sempre da qualche parte una fidanzata del tifoso. Quella che, pur di stargli vicino, si interessa – o finge interesse – delle passioni calcistiche del partner, tanto da fargli compagnia durante la visione della partita. In genere l’interesse della fidanzata dura i primi dieci secondi dopo il calcio d’inizio: il tempo di chiedere Da che parte dobbiamo segnare?, poi la sua attenzione calerà. Se ci sono altre donne (altre povere fidanzate), chiacchiererà con loro.  Se non ci sono altre occupazioni, ogni tanto proverà a mostrare il proprio impegno nell’interessarsi ponendo domande come Perché è fuorigioco? o Perché passa la palla invece di andare a segnare? oppure esibendosi in incitamenti inutili verso i giocatori quando magari il pallone è fuori o il gioco è fermo.
La fidanzata esordiente che fa il proprio ingresso ufficiale nell’ambiente sportivo per la prima volta la si riconosce da una domanda dal vago sapore esistenziale, cioè: Noi chi siamo?, magari posta a metà secondo tempo, quando si accorgerà di aver tifato per tutta la partita per la squadra opposta.

La moglie del tifoso – Se gli resiste abbastanza a lungo vicino, la fidanzata del tifoso diverrà una moglie del tifoso. Dalla prima si distingue perché, avendo ormai conquistato il proprio uomo, non deve più fingere interesse per le cose che fa. Anzi, ritrovandosi in casa una tal specie di fastidioso ominide, vivrà gli appuntamenti calcistici come un momento di libertà e di respiro: due ore (e anche più, se va allo stadio) senza il coniuge tra i piedi in casa. Momenti di difficoltà si vivranno purtroppo invece durante le partite serali in settimana, quando lei vorrebbe vedere come va a finire la puntata di Un posto al sole e lui si è già sintonizzato sul prepartita con le immagini trasmesse direttamente dagli spogliatoi dei calciatori che si infilano i calzini ai piedi e le dita nel naso.

L’esteta – Quella che tifa una squadra perché c’è un calciatore figo che le piace. Quando l’oggetto del desiderio cambierà squadra lei cambierà fede calcistica: in ciò è molto simile al Mastella, tranne per il fatto che non è che le interessi proprio vincere. Vorrebbe solo trombare.

Generazione ribelle – Quello che se il padre è milanista, lui è interista, se è romanista lui è laziale e così via. Il figlio bastian contrario che fa sì che stare a casa di domenica sia un’attività amena e tranquilla come trovarsi al confine di una zona di guerra.

Personaggi e cose che non sapevo dove collocare #1

Quelli che seguono sono alcuni dei materiali di risulta delle mie liste di categorie che sono rimasti privi di una collocazione specifica e che ho quindi raccolto in questo post.

La pasionaria
Impegnata politicamente e anche al Monte di Pietà, professa come culto religioso l’indigenza. Per tale motivo si arrabatta facendo la cameriera in un pub, unico mestiere serale moralmente accettabile che può svolgere, perché di norma dorme fino alle 6 del pomeriggio. Si nutre di nicotina e sangria ottenuta dalla fermentazione dei propri ex fidanzati. Il suo vocabolario è limitato a poche espressioni chiave, quali
Cioè
Ma perché
Insomma
Capisci?
In che senso, scusa?

Dall’aria perennemente stanca e sbattuta, copre le occhiaie con strati geologici di eyeliner che le donano un aspetto vagamente da affresco egizio.

Il benzinaio
Il benzinaio è un essere che vive soltanto all’interno di un distributore. Nessuno ha mai visto infatti un benzinaio al di fuori del turno di lavoro.
Non ha grandi capacità comunicative, in genere si esprime a grugniti e mugugni. Un grugnito vuol dire Buongiorno, un mugugno vuol dire Arrivederci. Due grugniti e un mugugno vuol dire “Più avanti”, perché nessuno si ferma mai nell’esatto punto che vuole il benzinaio.
Il suo nemico è il self service, che ne sta causando la marginalizzazione in favore della figura del gestore, ossia quello che se ne sta seduto su una sedia di plastica bianca monoblocco degli anni ’80 tutto il giorno.

Sezione vecchietti
Il vecchietto da bar
È un complemento d’arredo: chi avvia un’attività da barista riceve in usufrutto almeno un vecchietto da sistemare all’esterno. Il principale compito dei vecchietti da bar è scrutare con aria torva i forestieri o chiunque si trovi a passare lì davanti per la prima volta. Quando è ora di chiudere, vengono riposti in uno sgabuzzino.
A volte capita che un vecchietto muoia nell’esercizio delle proprie funzioni e che passino mesi prima che ce ne si renda conto.

Il vecchietto da poste
Arriva inveendo contro il governo, con in mano le bollette e con l’altra i soldi. Deve ricordarsi in che mano ha messo le une e in che mano gli altri, perché l’ultima volta ha causato una coda chilometrica con tamponamenti a catena per aver dimenticato dove tenesse il denaro. Ha inveito contro il governo per questo.
Va via con la sensazione di essere stato truffato, inveendo contro il governo.

Il vecchietto da barbiere
Quello che la moglie sbatte fuori casa mandandolo a fare un giro per toglierselo un po’ dai piedi e respirare. Occupa per ore il salone del barbiere, magari per farsi giusto spuntare un baffo o tagliare i peli del naso, che si farà restituire perché se li appiccicherà la sera per farseli togliere il giorno dopo. Il resto del tempo nel salone lo occupa monopolizzando le conversazioni tra clienti ed entrando in competizione con altri vecchietti da barbiere. Un salone ne può infatti ospitare più di uno, ma un occhio attento coglierà subito chi è il leader: in genere è quello che introduce il discorso  con locuzioni del tipo “Avete sentito cosa è successo” o “Avete visto cosa hanno combinato”, adattabili a qualunque argomento, dal calcio alla politica alla cronaca nera. Mentre parla si girerà ogni tanto verso di voi, cercando il vostro assenso a suon di “È giusto?”, “Non è così?”. Dopo quattro-cinque volte cederete e vi ritroverete coinvolti nel discorso vostro malgrado.

Sezione turismo
Il turista straniero
Il turista straniero è riconoscibile dalla divisa regolamentare da turista che è costretto a indossare, pena l’allontanamento alla frontiera. Consta di polo o magliette bianche, cappello di paglia, pantaloni color senape scaduta e sandali.
La pelle del turista straniero è bianco obitorio all’arrivo in Italia, ma il primo contatto col sole nostrano gli donerà un invidiabile colorito rosso eczema da ortica.
Si aggira con la Reflex a tracolla e il marsupio pieno di banconote da 100, il tutto bene in vista, perché bisogna anche pur dare lavoro agli scippatori.
Il turista straniero cammina con la bocca costantemente aperta, per due motivi:
– gli enormi incisivi che dragano l’asfalto impediscono la corretta chiusura della mandibola;
– la respirazione avviene tramite la bocca: il naso, in particolare nei francesi, è una mera barriera architettonica.

Il turista italiano all’estero
Il turista italiano è riconoscibile dagli occhiali da sole, che indossa anche in Paesi dove il sole è evento più eccezionale del passaggio della cometa di Halley.
Se si tratta di un maschio tornerà sicuramente raccontando di funamboliche avventure con puledre di un metro e ottanta (solo di gambe), alle quali basta dire di essere italiano per vedere accendersi nei loro occhi il fuoco della passione. Sembra che nei Paesi esteri, infatti, girino branchi selvaggi di donne che quando avvertono l’odore di un italiano tendono a circondarlo e a spolparlo vivo.
L’italiano all’estero è colui che viene improvvisamente colto da un senso di patriottismo, che esprimerà andandosene in giro con una maglietta della Nazionale comprata al mercato dai cinesi. Tuttavia, tornato in patria comincerà a decantare di quanto all’estero funzioni tutto meglio e come per strada non si trovi una carta per terra. Il tutto mentre sputa la cicca sul marciapiede, gettando il fumo in faccia a una donna incinta.

I locali tipici
I locali tipici sono quelle attività che, soprattutto nelle città d’arte, vanno salvaguardate dall’avanzata di kebabbari e ristoranti cinesi, in nome della difesa dell’identità nostrana dei centri storici, ben rappresentata invece da Zara, l’Occitane e un Foot Locker che fanno angolo a una piazza del ‘300.
Un locale tipico è quella salumeria con la porta di legno ricavato da una bara che vende salame di capra della Gran Bernarda e prosciutto stagionale della Val Porcia, specie uniche che vengono ancora uccise come 1000 anni fa: un paio di bastonate e qualche bestemmia in vernacolo.
Il locale tipico, sia che ci si trovi ad Aosta che a Lampedusa, espone in vetrina il tipico limoncello e la pasta tricolore, che pare sia tipicamente italiana, infatti non manca mai sulle tavole a quadretti rossi del BelPaese.
Esiste poi il ristorante tipico: anch’esso, da Nord a Sud e dai monti alla spiaggia propone le immancabili tagliatelle con i funghi porcini, che possono oscillare di prezzo dai 6 ai 15 euro, a seconda della distanza percorsa dal camion frigo carico di funghi dell’Est Europa. Quella del ristorante tipico è un’istituzione antica, pare che anche Cesare, prima di varcare il Rubicone, si fosse fermato in un’osteria tipica nei pressi di Forlimpopoli, uscendone però non molto soddisfatto per la qualità del cibo e per il conto. Pare che lì abbia esclamato la frase “Tu, cuoco, Brute fili mi!” invitando il proprio protetto da quel momento in poi a far da mangiare a tutti. Bruto, come si sa, non la prese molto bene e covò un discreto rancore.

Meglio morir di vodka che di tedio (?)

Non amo l’odore di kebab per le strade. È paradossale, perché il kebab mi piace molto, invece. Lo prendo sempre farcito di tutto, pur conscio che dopo sembra di aver inghiottito Muhammad Ali perché hai l’alito che stende anche i pesi massimi.

Una volta, in questa città, non c’erano tanti posti dove rifocillarsi. Ricordo la paninoteca storica con i due leoni all’ingresso che esiste ancora oggi, sorta quando appunto questi posti si chiamavano ancora paninoteche e non pub. Vi passavi davanti la mattina e venivi investito da una zaffata di olio rancido della sera prima, potevi avvertirne la consistenza, come entrare in una nube lattiginosa. Ancora oggi il tanfo è rimasto lo stesso, penso che tra 1000 anni gli archeologi che disseppelliranno l’edificio verranno investiti dagli stessi afrori e diranno “Questo era l’odore del XX secolo!”. Mi piacerebbe far la solita battuta dell’olio che viene cambiato solo ogni 20mila chilometri, ma io temo che lì l’olio sia sempre lo stesso e se lo tramandino di padre in figlio.

Nel tempo, dagli anni ’90 ad oggi, sono sorti altri posti dove mangiare un panino e bere una birra, fino ad arrivare all’avvento del kebabbaro. La particolarità degli ultimi anni, invece, è che sono cominciati a spuntare posti dove bere e basta. La loro caratteristica è l’ottimizzazione degli spazi: in un localino delle dimensioni di una stanza singola di un albergo mezza stella, c’è tutto il necessario per prendere da bere. Drink away. La specializzazione è il cicchetto: non è raro trovare il menù con le offerte del momento per spappolarsi il fegato con massimo un paio di euro alla volta.

Non vengono inaugurati solo posti “mini”, comunque: anzi, all’angolo di una delle più importanti (non esageriamo, mò) arterie urbane , ha aperto un mega bar gestito da un noto pregiudicato. Nella villa comunale, invece, in quella che per anni è stata solo una gabbia di ferro e plexiglass di bassa qualità partorita dalla mente perversa di un architetto che pensava di essere un incrocio tra un Renzo Piano e un Calatrava (un Calapiano?) ora è sorto un “coso” abbastanza chic, un club tamarrissimo che credo non sopravviverà all’inverno perché se durante la bella stagione la villa va bene per passeggiare e infrattarsi con la propria metà, durante i mesi freddi è più simile a una brughiera inglese. Con la differenza che però non siete in Inghilterra, non ci sono ampi paesaggi e non c’è Sherlock Holmes. Quindi non definitela brulla, come se foste in un romanzo. No no, fidatevi: è brutta, non brulla.

Questi che ho sommariamente presentato sono solo gli ultimi posti di cui si è riempita questa città e che offrono l’unico svago possibile la sera: bere.

Sì, perché in questa città non c’è un cazzo di altro da fare.

C’è solo un posto in cui si potrebbero organizzare serate con gruppi a suonare, perché attrezzato bene. Peccato che il proprietario sia un incompetente. Il suo unico sforzo è chiamare 3-4 volte all’anno sempre le stesse persone perché solo quelle conosce. Poi c’è stato il periodo delle cover band, ha sparato diverse cartucce consecutivamente.

Io vorrei dire una cosa. La cover band a mio modesto parere ha già poca ragione di esistere, però fin quando è una cover band coi controcosiddetti, ogni tanto ci può stare. Ma se chiami una cover band dei Subsonica, con tutto il rispetto che ho per Samu, Boosta &soci, stai messo male, secondo me.

“Aò, ho fatto scuola”

Il resto delle serate di questo locale è occupato dai dj set (che ormai ne ha fatti così tanti che saran diventati ott, nov, diec…) del dj del locale: un tizio che secondo me si crede Skrillex, ha i capelli tagliati uguale e porta gli stessi occhiali. Peccato che abbia almeno 10 anni di più (10 anni in più sprecati) e quando mixa una volta mi è sembrato di sentire una carica di elefanti, il suono era simile.

Come antidoto alla noia qui non c’è altro. Quindi meglio morir di vodka che di tedio, come avrebbe detto Majakovskij? Sembra che per molti sia l’unica opzione possibile.