Non è che per forza se uno rompe poi gli devi lasciare dei cocci (e farglieli pagare)

Mi sta accadendo di non riuscire più a dedicarmi a scrivere post qui sopra come facevo un tempo. Non che mi manchi voglia di raccontare, ma non mi riesce più di poter dedicare mezz’ora in assoluta tranquillità al blog.

Anche adesso che la febbre post terza dose mi ha dato una giornata di nullafacenza non mi riesce di articolare un discorso organico e quindi procederò più per punti.

Ho la febbre, dicevo. Il “Moderno”, come sento chiamarlo in giro – giustamente per chi le dosi precedenti le ha ricevute da altri vaccini è qualcosa di nuovo, moderno per l’appunto – si è fatto sentire. Ho scritto al medico questa mattina – vuole solo contatti Whatsapp – per avere un giorno di malattia e lei mi ha risposto di venire in ambulatorio. Chiaramente, la prassi corretta sarebbe appunto a) visita b) certificato c) comunicazione al datore di lavoro. Tralasciando però il fatto che ho la febbre quindi non dovrei spostarmi né accedere a luoghi pubblici, mi ha fatto ridere la motivazione che ha aggiunto: dato che non ci siamo mai visti – ho cambiato medico di base quest’anno – vorrebbe prima conoscermi.

Morale: prima di richiedere prestazioni invitate almeno per un caffè il vostro medico!

Il collega Rompino che ho in ufficio continua invece a non volersi vaccinare. Lui è un naturologo e da qualsiasi cosa che non sia bio e che invece puzzi di chimica se ne tiene alla larga.


Poi va a cenare in una nota paninoteca della mia città. Sicuramente come sapori sarà buona, ma io fatico sempre a credere che un posto abbia Marchigiana e/o Chianina pura da servire per 200 coperti ogni sera. Praticamente ci sarebbe bisogno di un Pianeta a parte popolato solo da bovini per soddisfare tutte le paninoteche gourmet esistenti solo qui in provincia.


A me poco interessa di cosa fa o non fa. Evito ormai con le persone argomenti come politica, religione, vaccini, schivandoli come Neo coi proiettili. Quel che vorrei invece è che lui non fosse un rompino, ma come si fa? Non sarebbe Rompino, per l’appunto.

Un esempio: dove lavoriamo non ci sono i termosifoni ma i diffusori a soffitto solo nelle stanze. I corridoi, quindi, d’inverno sono gelidi. Un giorno particolarmente freddo avevo alzato di un paio di gradi la temperatura. Lui arriva tutto imbacuccato, dal freddo esterno e lamenta di percepire un’aria calda e soffocante (strano, se non ti togli berretto, cappello e piumino). Ok, spegniamo.

Lui nel frattempo apre la finestra. Arriva una tempesta. Chiude.

Io riaccendo l’aria.

Dopo un po’ lamenta di nuovo di sentire aria opprimente. Abbasso la temperatura del riscaldamento riportandola come ai  livelli soliti. Lui riapre la finestra. Arriva una grandinata. Chiude.

Infine dopo un altro po’ dice invece di sentire freddo e mi chiede allora di ri-alzare la temperatura.


Beninteso, aerare una stanza ogni tanto è importante. Magari però non mentre fuori infuriano gli elementi.


A casa, intanto, a proposito di riscaldamento, i nostri continuano a darci problemi.

Uno ha iniziato a perdere copiosamente da un punto di giunzione.

Un altro, la cui valvola era stata appena cambiata dall’idraulico inviatoci dal padrone di casa (un vero artigiano della qualità), pure ha iniziato a perdere. Dalla stessa valvola sostituita.

Ovviamente questi problemi si sono verificati la sera del 23 dicembre.

Mi ricordo quando all’IKEA M. comprò delle ciotole e io pensavo che in casa già ce ne fossero abbastanza. Adesso che le utilizziamo per raccogliere le perdite, mi sembrano poche.

Mai mettere in dubbio la saggezza e la lungimiranza femminile.

Non è che il giocatore di poker per fare il galante regali Fiori

Lo studio ti accoglie con dei colori molto neutri e opachi. Bianco, beige, sabbia. Guano. C’è una musica plin plon ovattata in diffusione. Un profumatore d’ambiente in un angolo in basso a destra sparge una fragranza floreale. Di fronte, un vaso con dei veri fiori finti.

Non ho mai capito – e mi fa strano anche un po’ – l’esposizione di fiori di plastica. Secondo me chi li usa per decorarci ambienti è un po’ psicopatico.


Ora son sicuro che tra chi mi legge ci sarà qualcuno che ha fiori di plastica in casa; mi piacerebbe dire No guardate non parlo di voi ma in realtà forse sto parlando proprio di voi: è ora che qualcuno vi dica la verità sui fiori di plastica, mi spiace.


Si dirà che i fiori veri hanno durata breve: fa nulla. Trovo abbia più senso e una certa sua bellezza una rosa secca che una finta. Senza contare che il suo smaltimento non produce rifiuti.

Non è che io voglia fare il Decadente con l’immagine del fiore appassito o che io sia un patito del rigorosamente tutto bio-natural-organic-verde-rotoliamoci nel muschio e facciamo l’amore con le piante.


Questo mi riporta alla mente quella ragazza inglese – storia vera – che afferma di essere innamorata di un albero e di farci anche del soddisfacente sesso. E si tratta di un caso non isolato.

Ora, io mi chiedo perché ciò non sia considerato violenza: se un albero è un essere vivente e se tagliarlo, bruciarlo, vandalizzarlo è reato, perché non lo è anche farci all’amore?

Ma soprattutto, tecnicamente, non è un po’ scomodo, irritante, se non doloroso, averci dei rapporti sessuali, che sia per sfregamento o per penetrazione?

Poi per carità, ognuno dei propri orifizi ne fa l’uso che ritiene opportuno: e questo mi riporta alla mente un’altra storia – poi la chiudo qui perché questo post non parla di abitudini sessuali -, quella di un tizio negli US che un giorno del 2005 decise di farsi sodomizzare da un cavallo, mentre un amico lo riprendeva con la videocamera. La storia non finì bene: il buontempone morì dissanguato. O lacerato. O entrambe le cose. Ma il risvolto “positivo” è che ha dato il via al dibattito per una legge contro gli abusi sessuali sugli animali.

Quindi chissà che non si arrivi a una regolamentazione anche per il sesso con le piante.


La mia è più una constatazione estetica: quelle corolle impolverate – perché essendo fatte per durare ovviamente la loro funzione alla fine diventa quella di pratici raccogli polvere da soggiorno – coi bordi zigrinati le trovo veramente brutte.

E anche un po’ ingannevoli perché da lontano ti sembrano fiori veri poi ti avvicini e scopri la realtà: da qui deriva la mia tesi della psicopatia dell’esporli. Chi li acquista lo fa infatti per far sembrare la casa decorata da fiori veri – sennò non li sceglierebbe con cura scartando quelli dozzinali che sembrano ritagliati con delle vecchie forbici – producendosi in un inganno e incurante poi del fatto che poi tale inganno verrà irrimediabilmente scoperto, anzi, dando a qualcuno anche l’idea di comprarli a sua volta, perché il kitsch è virulento.

Non è che la fatica di trovar prodotti genuini ti faccia imprecare bio

Sagre e feste di paese sono diventate ormai infrequentabili. Da habitat storico di rozzi villici e ubriaconi ora sono la meta alternativa di cittadini annoiati che vogliono riscoprire i sapori della tradizione e provocarsi il diabete senza sensi di colpa perché tanto è tutto genuino e sano.


È difficile spiegare che pur essendo km0 la pancetta fritta nello strutto non giova comunque alle coronarie.


Alcuni indizi che dovrebbero farti capire che la tua sagra paesana non sarà un Eden di prodotti tipici ma un Inferno di gomitate nello sterno e di pestoni agli alluci:

1)  Ai lati di una statale di campagna immersa nel buio c’è una lunga fila di auto parcheggiate metà sull’asfalto metà in un canale di scolo e una transumanza di pedoni che camminano a centro strada mentre il paesino della sagra ancora non si vede in lontananza. Fiducioso provi a tirar dritto finché troverai la strada chiusa dal vigile part-time – è anche macellaio e cavadenti – del paese. Tornerai indietro e nel frattempo la fila di auto sarà aumentata di un chilometro.

2) Gli stand del cibo avranno sempre una coda che neanche il primo giorno del nuovo Iphone. Arrivato finalmente al bancone troverai un foglio scritto col pennarello con scrittura obliqua che tende a rimpicciolirsi perché lo spazio stava terminando: “Munirsi di scontrino alla cassa”. La cassa sarà due isolati più in là, con una fila lunga il doppio. Nel frattempo le cibarie che avevi adocchiato saranno terminate e dovrai accontentarti della solita salsiccia grigliata in mezzo a due fette di pane raffermo.

3) Tra i piatti proposti ce ne sono alcuni che andrebbero mangiati con forchetta e coltello ma tu sei in piedi con un bicchiere di vino in una mano e un piatto nell’altra quindi l’unica alternativa è mandar giù tutto per intero come Fantozzi con il tordo.

4) Ti trovi in una località di mare e la sagra è dedicata al tartufo e al porcino oppure in una località di montagna e la specialità è la zuppa di cozze.

5) Da Gaeta in giù in tutte le manifestazioni di questo tipo c’è qualcuno che suona musica popolare per tutto il tempo. Musica popolare vuol dire la tammorra. Tammorra vuol dire che qualcuno per ore suonerà la stessa, identica, ritmica che fa tutuntata tutuntata tà tà tà tutuntata tutuntata tà tà tà. Tralasciando che lo strumento si può suonare anche in modi diversi – se ovviamente qualcuno li conoscesse – si può anche dire che la musica popolare ha rotto il cazzo.

6) Ai bambini non frega niente di queste cose. I genitori li portano lì per farli sgroppare in piazza, correre tra le persone urtandole e rovesciando loro piatti e bicchieri, giocare a freccette con i cani randagi usando gli spiedini degli arrosticini. In genere poi socializzano e si mischiano con altri coetanei, cosicché a fine serata c’è sempre qualcuno che si porta a casa i figli di un altro.

7) L’uomo furbo che vuole bere sceglie di saltare le code chilometriche e infilarsi nel bar del paese per prendere un’economica Peroni a 1€. Peccato che prima di lui ci saranno stati altri uomini furbi che avranno fatto lo stesso svuotando il frigo e quindi il barista gli rifilerà – senza metterlo in guardia – una birra calda.

8) Le vie strette dei borghi comprimono la massa di persone cosicché ci si ritrova costretti – talvolta trascinati a forza – a seguir la fiumana giocoforza. Volevi fermarti ad acquistare un barattolo di miele e invece ti ritrovi allo stand di un artigiano del posto che realizza statuine con i gusci di noce e che ha intrapreso l’attività quel giorno stesso per comprarsi un po’ di fumo.

9) A gestire il gazebo dei prodotti solidali Peruviani barra dei Nativi Americani barra Tibetani c’è uno che sembra un Tibetano barra Nativo Americano barra Peruviano ma viene in realtà da Barra (Napoli).

10) A fine serata dirai Mai più ma il giorno dopo nel gruppo Whatsapp dove si organizzano le scampagnate qualcuno condividerà la foto del manifesto della sagra del turacciolo ubriaco con la didascalia Andiamo???? e tu accetterai rendendo palese che a quel punto non sono le feste di paese il problema ma sei tu stesso.

Non è che pensi che un’auto usata sia a km0 perché l’hanno prodotta dietro casa tua

A Milano apre una nota catena internazionale di caffetterie. Le persone commentano. Chi è entusiasta, chi storce il naso, chi dice che vendere caffè in Italia sia come vendere il ghiaccio agli Eschimesi.

Dissento. Dagli Eschimesi il ghiaccio cresce in casa, mentre nel mio giardino non prosperano piante di caffè.

Quando ero al liceo ero pro boicottaggio. Di qualsiasi cosa avesse un marchio. Ero così contro nomi ed etichette che ho boicottato anche il nome di famiglia sul citofono. Non scherzo: la vecchia etichetta era sbiadita da tempo. Ci penso io, dissi credo nel 1997. Non ci ho più pensato né io né i miei per 20 anni.

Adesso non me ne importa niente dell’essere contro.
Disapprovo sempre l’omologazione culturale e la brandizzazione delle città: camminare per le vie centrali di Milano, di Parigi, di Copenhagen, di Berlino o di Budapest non fa differenza. Trovi sempre gli stessi negozi e le stesse merci. Ora a mano che non mi convincano che gli straccetti venduti da H&M – lo dico da acquirente straccione di quegli stracci – siano un prodotto tipico locale, io resto delle mie idee.

Penso anche però che la gente debba poter fare quel che le pare e scegliere cosa preferisce. Difendere e cercare qualcosa di alternativo è giusto e doveroso, inseguirlo a tutti i costi può innescare meccanismi perversi.

Per dire, la ricerca del buono, della qualità, del km 0 ci ha portato ad avere le paninoteche gourmet. È civiltà, questa?

Che a me dovrebbero spiegare se sull’hamburger ci metti strati di bacon, di mostarda, di cipolla indorata e fritta, di strutto, dell’anima de li ‘tacci del cuoco, per un totale di calorie pari al fabbisogno di una settimana, come fai ancora ad avere il barbaro coraggio di definirlo gourmet.

Comunque sono sempre pronto a cavalcare l’onda e lanciarmi in nuove iniziative. Quindi dopo l’invasione di locali bio, vegan, organic, io vorrei aprire una nuova attività: il ristorante anaerobico.

Lo sapete che l’ossigeno fa male? Sapete perché il ferro si arrugginisce? È il prodotto della combinazione, spontanea, del ferro con l’ossigeno, che insieme formano l’ossido di ferro.

Se una lastra di metallo può ridursi in pessime condizioni, pensate cosa può fare al cibo che ingerite! Noi mandiamo giù veleno! Condividete prima che cancellino!

Nel mio ristorante anaerobico potrete gustare il cibo come dovrebbe essere appena prodotto, senza la fastidiosa e imbarazzante intrusione dell’ossigeno.

Tempo di permanenza: dipende dalle vostre capacità di apnea.

Non è che non ti puoi laureare in piedi perché si tratta di una seduta di laurea

Viviamo in un’epoca in cui cerchiamo sempre più certezze per la nostra salute: vogliamo sapere che i prodotti che acquistiamo sono 100% organic 100% bio 100% senza olio di glutine e per questo ci piacciono le confezioni con tante di queste scritte colorate.

Organizziamo varicella party perché anche una malattia esantematica ha diritto a divertirsi.

Sempre più italiani si curano con metodi alternativi. Sempre più alternativi si curano con metodi italiani.

È per questo che oggi vorrei parlare di una pratica di cui mi sono da tempo note le virtù terapeutiche: il facesitting.


Preciso che questo articolo non ha alcuna finalità di divulgazione scientifica, non essendo io medico: indi per cui non posso essere tacciato di essere al soldo di qualche multinazionale.

La seconda avvertenza è quella di praticare il facesitting solo in ambienti sicuri e con personale professionista e qualificato. A tal proposito, posso fornire su richiesta in via privata il contatto di qualche mistress che effettua sedute terapeutiche di facesitting. Il contatto viene da me fornito a titolo puramente personale e SENZA ALCUNO SCOPO DI LUCRO se non quello di ricevere una percentuale sul numero di clienti.


Facesitting letteralmente vuol dire facciasedendo, dalla formula di cortesia che un tempo si utilizzava per dar inizio alla pratica. La padrona, infatti, chiedeva umilmente al servo

– Potrei metterle il culo in faccia, mio buon servitore?

il quale rispondeva

– Prego mia signora, faccia sedendo.

Il facciasedendo o facesitting nasce in Inghilterra nel ‘700, come pratica ricreativa della classe gentry per svagarsi dalle ubriacature al pub e le partite di whist. Molto spesso le due attività si univano e non era raro che venissero giocate partite di whist mentre i giocatori praticavano facesitting sulla servitù.

Ben presto però ci si accorse che i servi su cui era praticato facesitting durante il weekend fossero sul lavoro più volenterosi ed energici nel corso della settimana successiva.


Per quanto si possa essere volenterosi ed energici nello svuotare pitali giorno per giorno.


Qualcuno pensò a una correlazione con la pratica ma qualsiasi discorso intorno al facesitting si arenò in modo brutale quando un uomo morì soffocato durante una seduta.

Lo scandalo fu che la vittima non fosse un semplice domestico o lacchè – non era raro infatti che qualche sguattero di cucina ci lasciasse le penne sotto le poderose natiche di qualche Madame – ma un lord gentleman molto noto e stimato nella sua comunità, mentre la donna proprietaria del culo non una contessina ma una “volgarissima cuoca”, come scrissero i giornali del tempo. Il caso finì sulla bocca di tutti – quella stessa bocca su cui, con tanta ipocrisia, fino a poco prima era poggiato un deretano – e arrivò a Corte. Re Giorgio III, l’allora Sovrano che sembrava non disdegnare usmare sederi altrui, con un editto dichiarò illegale “poggiare le proprie nude terga a contatto col viso di un altro essere umano”. Per questo intervento bacchettone e moralizzatore fu molto criticato e da Re Giorgio Terzo fu soprannominato Re Giorgio Terga perché si diceva a forza di praticare avesse assunto la faccia come il.

Caduta in disgrazia, la pratica finì quindi nel dimenticatoio e bisognerà attendere l’età vittoriana per la sua riscoperta. A dispetto della sua dichiarata austerità e sobrietà di costumi, l’epoca della Regina Vittoria fu, per usare parole degli storici*, “un’età di veri porcelloni e mandrilli”.


* Tra cui il Prof. Durbans dell’Università di Scarborough.


Sempre più professioniste del meretricio offrivano nella propria lista di servizi anche quello di una bella seduta in faccia, facendosi però definire, forse per qualche vaga eco degli antichi trascorsi in cui esisteva una rigida separazione sociale, “padrone” mentre ai propri clienti era riservato il ruolo di “schiavo”. Molti avventori di postriboli tornavano a casa corroborati dalla seduta, rilassati e bendisposti d’animo e più di uno avrebbe giurato di aver tratto beneficio da malanni vari e doloretti reumatici che lo perseguitavano.

L’editto di Giorgio III tecnicamente resta ancora valido a tutt’oggi non essendo mai stato abrogato ma sin dalla sua promulgazione era stato aggirato: dato che citava “nude terga”, alla padrona bastava tenere indosso un capo intimo qualsiasi. Ancora oggi non è raro, forse per abitudine, che le mistress non pratichino il facesitting a sedere nudo ma indossino della biancheria, se non, addirittura, jeans o pantaloni.

Oggi è riconosciuto che regolari sedute di facciasedendo, insieme a uno stile di vita salubre, una corretta alimentazione e una sana attività sportiva, migliorino la salute generale della persona.

Test clinici dimostrano che la pressione di un paio di glutei sul volto favorisca il rilassamento dei tessuti muscolari e, tramite le microtture dei capillari superficiali, una macro ossigenazione della pelle.

Io ho 33 anni e ne dimostro 26, a esser precisi 26 e un po’. Coincidenza?

La mia prima esperienza in assoluto di facesitting fu del tutto involontaria. Ero in seconda media, in classe ci si stava simpaticamente spintonando, mimando risse tra compagni maschi come si fa a quell’età per cementare il proprio spirito di gruppo e sudare pezzandosi l’ascella per spargere i propri afrori prepuberali.

d43a30c703c9b696c6c83d2fcc015eceNon so se fu una spinta di troppo o una mia scivolata avventata, fatto sta che in caduta falciai in tackle una mia compagna di classe, come neanche il buon Fabio Cannavaro di quei tempi. La poveretta volò all’indietro piombando col sedere proprio sul mio viso e facendomi dare una sonora craniata al suolo. Testimoni dicono che la mia testa sul pavimento produsse il suono di un campanaccio da vacca.

All’epoca non sapevo che una testata simile potesse uccidere né che un culo in faccia, soprattutto quello della mia compagna che indossava una tuta di acetato 100% antitraspirazione, potesse indurre il soffocamento e quindi mi salvai non riportando dannx cerebrbali a lung034f9id02304ew0e45dlsl’scl”e’4”02303ì’ììì

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Pregevole stampa illegale d’epoca (XIX sec.) che mostra una coppia durante una seduta terapeutica

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Stampa didattica giapponese che invita le mogli a praticare facesitting ai mariti e consiglia alle figlie di osservare per apprendere i segreti della tecnica

Non è che Dante a una donna middle class avrebbe detto “Tanto gentry e tanto onesta pare”

L’altro giorno Kit Harington, che di mestiere interpreta L’uomo che non sa niente, era a Napoli per girare uno spot per una nota coppia di stilisti dallo stile coppole e machismo.

Credo che anziane & babà non facessero parte della coreografia dello spot.

Confesso che a volte mal tollero l’esagerato macchiettismo di noi napoletani nel modo di vivere la città e la sua cultura. Qualsiasi cosa qui è “come da nessun’altra parte”, perché tutto è

– bello
– caloroso
– festoso
– gioioso
(continua ad libitum)

Neanche vivessimo in un sambodromo perenne, cosa che non è affatto vera.

D’altro canto guardando immagini come quella testé postata ci si rende conto che certe cose realmente siano possibili soltanto qui.

Io me lo immagino KH se fosse andato invece a Milano.
Ce lo vedo nell’aperibar aperto a orari casuali – solo su invito nel gruppo segreto su facebook – a mangiare sushi finger style, con gli XX in sottofondo e il dj resident (ma con domicilium sul divano di un suo amico) che muove una levetta che aziona una poetessa iconoclasta che fa performance artistiche facendosi il segno della croce con la mano storta, mentre su un divano un tizio che vive di caffeina e onanismo lavora al nuovo logo di una ditta di spurghi&clisteri sul suo MacBook, cosa che potrebbe anche fare a casa propria ma lì non si farebbe notare. Il tutto al modico prezzo di 20 euro (solo l’entrata per dare una sbirciata all’interno per vedere com’è la tizia abbordata su Tinder che ama i gatti asiatici, le fotografie scolorite e il sesso con la frutta ma solo con la buccia perché fa bene) + consumazione (di un atto sessuale nei bagni perché oggi con l’indietronica si rimorchia).

Una coppia con stile che condivide ansia tramite cloud

La gentryfication non è comunque un fenomeno di cui Napoli è esente.

Ho visto apparire anche qui bar che servono frullati e centrifughe vegane/km0/bio/no additivi, su sgabelli di pallet che d’estate con le gambe scoperte ti lasciano schegge di legno nella pelle. Ma puoi star tranquillo perché è legno bio friendly.

Dovrebbero spiegarmi cosa sia un frullato vegano: non ho mai visto servire frullati di carne. Magari esistono. Madre mi propinava dei beveroni strani quand’ero piccolo, perché ero un bambino piuttosto gracilino: quando disegnavo uno stickman lo scambiavano per un autoritratto fedele.


Lo so che “vegano” in senso esteso riguarda tutto ciò che è compatibile con questa visione, un frutto vegano è un prodotto coltivato senza arrecar danno all’ambiente e ad altri esseri viventi, quindi per transizione un frullato vegano non ha arrecato danno a nessuno, a parte il tuo portafogli.


 

Non è che non sai quel pregiato caffè quanto mi sia tostato

Qualche volta dovremmo prendere un caffè insieme.

Intendo proprio un locale, coi tavolini e le sedie e tutto.

Io e te.

Il posto si chiamerà proprio Io e Tè. Con buona pace del dizionario. E della Crusca. La useremo per qualche beverone salutare per Vegane.

Purché dimostrino la reale appartenenza a Re Vega. Non chiameremo Actarus.

Ordineremo prodotti biologici certificati e garantiti. Per chi è religiosamente devoto a bio.

Avremo poi caffè equo-solitario. Per chi ha bisogno di sedersi a riflettere da solo.

Unica regola: non produrremo caffè fatto coi chicchi d’orzo. Non voglio rendermi complice dell’aborto di una birra.

A metà pomeriggio serviremo spuntini. Di riflessione.

Ci saranno libri da reggere. Per chi ha poco tempo per la palestra.

Gli scrittori in erba avranno un angolo dove leggere i propri scritti. Purché lascino l’erba a casa perché, purtroppo, non siamo in Olanda.

Sarà concesso criticare, non demolire. Altrimenti chi demolisce dovrà ricostruire tutto con le proprie mani.

Ci sarà il wifi ma si potrà utilizzare soltanto se ci sarà una risposta convincente alla domanda Why-fai così? È proprio necessario che tu stia connesso ora?.

Ci dovrà essere un’adeguata musica in diffusione in sottofondo. Mi assumerò tutti i dischi del caso.

Dei gatti gireranno in libertà nel locale. A chi non piacciono, non saranno gatti che lo riguarderanno. Gatti chiari, micizia lunga.

Ho cambiato idea. Lo chiameremo Starmeows perché suona più internazionale e attira turisti.

Ne faremo una catena. Di S. Antonio. A chi pubblicizza il locale ad almeno 10 amici, un caffè omaggio.

I turisti verranno e non se ne vorranno andare più. Diverranno tu-resti?.

Gestirai tu i conti. E tutti gli altri nobili che verranno.

Sì, dai. Prendiamoci un caffè.

Ne avrei bisogno.

Questa storia dell’olio ha rotto le palme

Sottotitolo: la Cina è in cucina.

Mio nonno diceva sempre che bisogna scegliersi le proprie battaglie.
Non è vero, non me l’ha mai detto, ma avrebbe potuto farlo mentre mi insegnava a fare il vino o le conserve di pomodori.

Oggigiorno il mondo sembra impegnato in tante battaglie. Uno dei nemici odierni che ho scoperto recentemente, più dannoso del Da’ish*, più infestante della cellulite e più noioso di un comizio elettorale, a quanto pare è l’olio di palma.
* acronimo di al-Dawla al-Islāmiyya fī al-ʿIrāq wa l-Shām, Stato Islamico di Iraq e Grande Siria.

A prescindere da come la si pensi in merito, credo che al giorno d’oggi se si vuol esser certi di cosa si stia consumando bisognerebbe ritirarsi in un rettangolo di terra con un paio di animali e un orticello.

Ci ripensavo quando sono entrato l’altro giorno in un negozio bio e ne sono uscito bestemmiando contro bio per i prezzi da gioielleria che ci sono all’interno. La qualità si paga così come si paga la quantità di lavoro che c’è in quel prodotto, certamente. Ma se volessimo essere tutti bio ci vorrebbero stipendi da ingegneri (ingegneri non italiani perché ho visto ingegneri qui lavorare gratis o a 1000 euro al mese). Quindi tocca accontentarsi delle confetture industriali che costano meno e che sull’etichetta scrivono “con vera frutta!” come se fosse un valore aggiunto**
** Il che apre considerazioni inquietanti: sulle altre c’è della finta frutta? Mi ricorda quando comprai uno yogurt Muller. “Alla ciliegia” era scritto sulla confezione. Poi leggo l’etichetta e c’era scritto “con 33% di frutta (di cui 39% ciliegie)”. E quindi il 39% di ciliegia su un 33% di frutta (ripeto, non il 39% sul 100% di prodotto, ma il 39% del 33!) ne farebbe uno yogurt “alla ciliegia”? Più che fate l’amore con il sapore, è fate sesso con gli sconosciuti.

D’altro canto ammesso e non concesso che i costi fossero accessibili, mi chiedo se di prodotti naturali e non industriali ce ne sarebbe abbastanza per tutti. Mi piacerebbe, ad esempio, che il resto d’Italia sapesse quanto è buona una Margherita col pomodoro datterino giallo***, ma credo che se tutta Italia volesse pizze col datterino giallo neanche se ci limitassimo a un pomodoro a testa ciascuno la produzione basterebbe a soddisfare la richiesta.
*** chiamato anche Lemon Plum, è una varietà di pomodoro dal colore giallo ambrato-arancio coltivata secoli fa e che si riteneva scomparsa.

A proposito di pomodori, a Casa Romana sono arrivate due cinesi. Una è una vecchia amica di Coinquilino, insegnante di canto, che accompagna la sua discepola, futuro astro nascente della lirica del celeste impero che è a Roma per perfezionarsi. A quanto pare Astro Nascente resterà a lungo qui, anche se non so quanto.

Ebbene, Maestra e Astro Nascente hanno portato con sé in valigia due barattoli di salsa di pomodori cinesi. Forse pensavano di non trovarne in Italia?

E voi, mangereste pomodori cinesi?****
Io no per diversi motivi, ma forse sono vittima di luoghi comuni.
****Magari ne ho/avete già mangiati a mia/vostra insaputa in un ristorante italiano o in una pizzeria.

È un luogo comune quello che mi faceva ritenere le cinesi tutte graciline e piccoline. Poi ho visto Astro Nascente e mi son reso conto che al confronto sembro io il cinese. I cinesi stanno crescendo.

Io non sono così piccolo, anzi, fossi cresciuto una-due generazioni fa sarei probabilmente stato considerato alto.

Il problema delle generazioni odierne è che sono grosse, troppo. Mi hanno detto che per colpa loro hanno anche ridefinito le taglie delle scarpe. Non so se sia vero, ma fino a una decina d’anni fa io compravo sneakers numero 44/45. Poi un giorno provandolo in negozio il 45 ha cominciato a farmi l’effetto delle scarpe di Pippo. Oggi porto 43.

Dev’essere colpa di tutti gli ormoni che hanno assunto col cibo. Io ricordo alle scuole medie le mie compagne erano piatte, a parte due-tre sviluppate e una che invece era veramente molto avanti. Quest’ultima aveva anche una cotta per me, pare, ma a 12 anni purtroppo pensavo al fantacalcio e non alle fantatette.

È impossibile controllare ciò che assumiamo, ergo, e ciò apre delle questioni: un mio futuro figlio nascerà già dotato di baffi e fluente barba? Se sì, esistono camicie a quadri per neonati? È un problema notevole, qualcuno dovrebbe interessarsene.

Nego l’ozio, mi apro un negozio

Ieri sono entrato in un negozio bio-vegan-gluten free. Non per mia iniziativa. Ma ho trovato del tè e della marmellata bio che non sono affatto male.

L’impressione che mi ha fatto il negozio non è stata delle migliori. Ho trovato più allegria nei Mangiatori di patate di Van Gogh.

In uno spazio che potrebbe contenere comodamente un minimarket c’erano dieci prodotti in croce. Il negoziante, smunto ed emaciato*, aveva la stessa energia e vitalità di un personaggio di un romanzo russo ottocentesco.
* confesso la mia stupidità e cattiveria interiore, guardandolo ho pensato “e mangiatela una bistecca, che diamine!”

(Se non avete presente un romanzo rosso ottocentesco, vi basti sapere che, almeno una volta per capitolo, c’è un personaggio che, dopo uno sfogo, una forte emozione, un eccesso d’ira, non regge lo scompenso e sviene davanti a tutti finendo a letto per giorni con una febbre cerebrale. Fateci caso, è matematico)

Avevo il timore che mentre illustrava le qualità dei prodotti all’improvviso finisse lungo per terra con le convulsioni. In ogni caso non fatico a capire il perché quel negozio non fosse frequentato.

Credo che riuscire a far ingranare un’attività commerciale sia tra le cose più difficili da fare, anche perché ci sono tanti fattori che possono remare contro: cattivo posizionamento, concorrenza, pubblicità, costi, eccetera.

A prescindere da ciò, conta anche l’abilità del commerciante. Vorrei elencare alcune caratteristiche negative di un negoziante che non mi invogliano a tornare in un negozio la volta successiva.

L’insistenza – Credo che un video valga più di mille parole

Immaginate una scena simile.
– Serve qualcosa?
– No, grazie. Guardo un po’ in giro e magari chiedo.
– Io sono qui se serve qualcosa.
– Sì, grazie.
– Abbiamo i nuovi arrivi da questa parte.
– Sì, grazie.
– Quello lì è taglia unica.
– Sì, grazie.
– Se vuole provarlo…
– No! Comunque grazie.

La dissuasione – Entro chiedendo un frullino a pedali, ma il negoziante vuole a tutti i costi propormi uno spremiagrumi a energia eolica, perché ormai i frullini a pedali sono superati, non li producono più, si rompono facilmente, mentre uno spremiagrumi eolico può essere sempre utile in casa. In realtà sta semplicemente nascondendo il fatto di non avere ciò che gli ho chiesto, cercando di vendermi altro per non farmi uscire a mani vuote. Ma se io ho chiesto un frullino a pedali, voglio un frullino a pedali e basta!

L’indolenza – Lui se ne sta dietro al bancone a condividere trattori su Farmville, non alza neanche lo sguardo per salutare. Sembra che  l’arrivo di un cliente sia per lui come la venuta di un esattore, quindi ritiene opportuno non alzare neanche un sopracciglio perché costerebbe solo fatica inutile.
– Mi scusi, ci sono dei giroscopi a gettone?
– Lo scaffale in fondo.
– Non ci sono.
– Allora sono finiti.
– Si possono ordinare?
– Sì.
E il silenzio cala inesorabile.
– Va be’ magari ripasso, eh.

L’approssimazione – Ovvero quello che non conosce neanche ciò che sta vendendo.
– Scusi, ha delle viti in tungsteno con il collo a V?
– Certo. Dovrebbero stare qui…no qui no. Allora laggiù…Vediamo se ci sono…Un attimo eh!
– Certo, si figuri.
(passano interminabili secondi)
– Ecco, veda se sono queste (nel frattempo incrocia le dita sperando di averla imbroccata)
– Sì, sono queste. Senta, vanno bene anche per riparare le mototrebbiatrici?
– Sì…dovrebbero…Dovrebbe esserci scritto…ah non c’è scritto…Va be’ se non vanno bene le riporta indietro!
– Ah. Va bene, grazie.

Il piazzismo – Quando vogliono venderti l’intero negozio. Compri un paio di scarpe e cercano di rifilarti, nell’ordine:
– I lacci di ricambio
– La soletta per migliorare la postura e profumare l’ambiente
– Lo spray igienizzante disinfettante diserbante
– La spugnetta per pulire le scarpe
– Il lucido per le scarpe
– Il calzascarpe

In tutto ciò il commesso ti starà per tutto il tempo appollaiato sulla spalla come un’arpia.

Ovviamente tutto questo discorso non tiene conto di un fattore imponderabile ma ben noto al commerciante, col quale dovrà fare i conti ogni giorno: cioè il cliente cagacazzo.