Non è che puoi utilizzare lo Scottex durante le mestruazioni solo perché è carta assorbente

In questi giorni si è tornato a parlare della questione dell’iva sugli assorbenti. Vorrei prendere spunto dal tema per parlare di un argomento correlato: la corsa da parte degli uomini nel dare indicazioni alle donne sul tema mestruazioni e prodotti alternativi da utilizzare. L’ho notata nei dibattiti televisivi, mi è rimbalzata davanti nei commenti online, insomma c’è tanta voglia – come sempre – di dare consigli alle donne su cosa debbano fare con i propri corpi.

Su questo devo denunciare una grande ingiustizia.

Le donne, lasciatemelo dire, non sanno proprio cosa voglia dire essere grate e ricambiare.

Almeno io personalmente, ma i miei amici maschi potrebbero dire lo stesso, non ho mai ricevuto da parte delle donne alcun consiglio, indicazione, raccomandazione o direttiva su cosa fare del mio corpo.

Certo, Madre mi diceva come vestirmi, di non mettere le dita nel naso, di non grattarmi le orecchie con l’alluce. Ma si trattava di normali indicazioni che dà una madre al figlio.

Anche qualche ragazza con cui sono stato mi avrà detto qualche volta non metterti quelle scarpe, lascia a casa la maglietta con la pezzatura da mucca, eccetera, ma, anche qui, si trattava di un rapporto strettamente confidenziale e personale in cui le indicazioni al massimo riguardavano l’abbigliamento.

In generale, nei discorsi delle donne, non è mai emersa alcuna direttiva su come utilizzare, per esempio, le mie gonadi o il mio seme.

Tutto ciò è profondamente ingiusto.

Forse capita solo a me, ma io credo che sia una cosa comune e generale.

Uno si prodiga tanto per dire alle donne come essere donne, come trattare le proprie pelvi, come gestire il proprio apparato riproduttivo e da loro neanche un grazie o un consiglio allo stesso modo.

Che mondo ingiusto!

Non è che l’amante dei cani metta nel presepe pure un pastore tedesco

Sono passato davanti a un negozio che vende articoli da cartoleria, strumenti per hobby come il decoupage e la pittura, decorazioni e amenità varie. Le vetrine sono state abbellite per le festività. In bella mostra al centro c’è un presepe. Vi ho dato uno sguardo di sfuggita passandovi davanti. Qualcosa ha colto la mia attenzione e mi sono fermato a osservare meglio.

Il presepe è di quelli classici napoletani. Case che si innestano le une sulle altre, vita varia che si snoda tra gli anfratti, tra un pizzaiolo che inforna e una donna che si affaccia al balcone e che sembra Sophia Loren.

Al centro non c’è la Natività: a essa è affidata un anfratto in un angolo. Le linee di convergenza della struttura presepiale conducono invece verso una scalinata. Sui gradini è seduta una ragazzina. Bionda, una lunga veste rosa. Le ginocchia ravvicinate al petto, le braccia appoggiate sopra le rotule. Lo sguardo è triste e fissa un punto nel vuoto, in basso.

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Il vetro e le luci della vetrina purtroppo non hanno consentito una testimonianza fotografica migliore

È lei ad aver attirato la mia attenzione: cosa ci fa lì in mezzo? Perché nel contesto del clima festoso lei è triste? Perché è giusto lì al centro? Qualcuno vuole comunicarci qualcosa?

Perplesso, ho provato a chiederlo direttamente all’interessata:

– Oh!
– …
– …ciao?
– Ah allora sai salutare. O in genere dici “oh” alla gente che incontri?
– …Scusami…Senti, va tutto bene?
– Alla grande! Non vedi come me la spasso? Il tizio delle capre laggiù ha appena finito di raccontarmi, per la centesima volta, la barzelletta di quello che chiede al pastore se è Lucano e lui risponde No io so lu pastore, lui è lu cano!. Da sganasciarsi, eh?
– …Va be’. Senti, ho visto che sei triste.
– Wow, a te non sfugge niente. Come ti chiami? Occhio di Falco? Di’ la verità, sei un X-Men in incognito?
– Tecnicamente Occhio di Falco era affiliato ai Vendicatori e il suo potere non era cogliere i dettagli ma la mira che lo rendeva un incredibile arciere…
– Senti, che vuoi? Mi lasci deprimere in pace sì o no?
– Va be’, scusa. È che la gente passa vede il presepe e tira dritto. Io invece ho notato che al centro di questo quadretto che sembra felice c’eri tu triste e sola e mi chiedevo il perché…Niente, ero curioso. Comunque io sono Gintoki.
– Piacere, sono Orfana.
– Ah, mi spiace. Ma come ti chiami?
– Orfana, te l’ho detto.
– Non capisco.
– Ooooh, ma sei un ciuoto allora! Così come c’è Madonna, Sangiuseppe, Bambinello, ci siamo tutti quanti noialtri: Caldarrostaio, Pastore, Zampognaro, eccetera. Ci chiamiamo coi nostri ruoli. Io sono Orfana, la figlia di Nessuno. Nessuno è un altro personaggio che però non c’è mai.
– Ah, quindi siete tutti dei figuranti?
– Essì, che t’aspettavi che nel presepe ci fossero personaggi veri? Scusa, ma se tu vai a vedere Star Wars per caso credi che Chewbecca sia davvero un cane peloso bipede alto due metri? O che esistano davvero i draghi del Trono di Spade? Ma che vivi nelle favole? Son figure di fantasia. Piglia quella che fa Madonna: quando stacca qui va a fare il turno in un call center. Siamo quasi tutti al doppio impiego per arrotondare.
– Pure il pizzaiolo? Scusa, volevo dire Pizzaiolo.
– No lui c’ha davvero una pizzeria. Ma lascialo stare, si è rotto le palle. Una volta fare la pizza era semplice, era una roba da poveri. Oggi con ‘sta mania di fare gli chef e gli esperti di alta cucina pure alla pizza cagano la minchia. Adesso se non ti inventi le pizze speciali con la granella di pistacchio di ‘ndocazzoviene, il lardo della maiala di tua suocera e l’ombra di cipolla di Ascellasudata sul Minchia non vali niente. Oh, certo che avete un palato fino per rompere i coglioni, guarda…
– Tu invece vedo che hai una proprietà di linguaggio oxfordiana. E una cosa non mi torna: tu sei una bambina. Com’è che lavori?
– Ma quale bambina, io ho 30 anni! È che m’hanno truccata peggio di Barbara d’Urso e sembro appena uscita dalle elementari. Pensa invece che ho due lauree e un master e son qui a fare la figurina. Che figurina di merda! Ah, scusami, ho detto merda: il mio linguaggio ti offende? Cos’è, solo perché sono donna non mi è concesso essere volgare?
– Per quanto mi riguarda puoi pure dire l’alfabeto ruttando.
– Una volta sono arrivata fino alla G. Poi quando ho detto l’H ho rigettato sul tavolo. Avevo bevuto troppo.
– Interessante.
– Già. No, comunque devi sapere che il CCCP (Codice di Condotta Corretto Presepe) vieta l’uso di bambini. Una volta c’erano, adesso è considerato sfruttamento.
– Pure il bambinello è un adulto? Pardon, Bambinello.
– No, lui è un Cicciobello. Sai com’è, gli sponsor. Comunque ‘sta roba del Codice di Condotta ha un po’ rovinato il mercato. Cioè, una volta prendevi i bambini pure per fare qualche ruolo adulto, magari gli mettevi una barba finta, davi loro due lire e stavi a posto. C’era più trippa per gli attori adulti. Trippa in senso figurato, eh, chiarisco visto che non mi sembri sveglio.
– Avevo capito. E quindi?
– E quindi adesso devi prendere dei maggiorenni e ti tocca pagarli e quindi ora c’è meno da mangiare per tutti, poi se soprattutto se sei l’ultimo arrivato ti danno lo stage, i voucher, il Co.Co.Dé…
– Il Co.Co.Co. vuoi dire?
– No no proprio Co.Co.Dé: ti mettono al reparto recinto animali, galline, tacchini e se hai sfiga anche maiali. Immagina tutto il giorno in mezzo a questi esseri che cagano e puzzano. Amo gli animali e potrei anche essere vegana se eliminassi pesce e carne dalla mia dieta, però puzzano.
– Oddio che lavoraccio…
– Eh. Per carità, non sto dicendo che era meglio quando sfruttavano i minori, anzi: dico solo che in un modo o nell’altro devono sempre trovare il modo di sfruttare qualcuno. E alla fine noi ci riduciamo a farci la guerra tra poveri. L’altro giorno ho detto a Pescivendolo che dovremmo ribellarci e lui m’ha tirato una cernia dietro dicendomi di non parlare di queste cose, che a lui mancano solo 20 Presepi alla pensione e non vuole rovinarsi. La pensione, capisci? Ma quando cazzo mai la vedrò io, invece?
– Non dirlo a me…
– No però non cominciare a raccontarmi i tuoi guai. Guarda, sembri un bravo ragazzo, ma oggi proprio no. Ho pure i piedi gelati perché ‘sta cacchio di Orfana ovviamente è povera e non ha i soldi per un paio di sandali. Ho solo questa veste e un paio di mutande sotto, capisci? Ho chiesto almeno un paio di calze, di quelle che non si vedono. Niente. Secondo il regista è “Per realismo”. Mi fa: “Ma ti pare che 2000 anni fa mettessero le calze? Gli unici 30 denari che conoscevano erano quelli di Giuda, ah ah ah. A noi ci piace il realismo”. E mentre diceva quest’ultima cosa mi ha strofinato l’interno coscia con la mano. E ho dovuto pure impuntarmi per tenere le mutande. Secondo lui le orfanelle dell’anno 0 non le avevano.
– Secondo me questa è molestia.
– Noo, se vai a dirlo in giro sei una pazza mitomane che c’ha lei il sesso in testa perché affamata di mazza e quindi vede il marcio dappertutto. Oh certo che voi maschi (e pure qualche donna) come rigirate la frittata quando si tratta di sessismo, guarda…Lasciamo stare. Senti, a proposito di mazza, quand’è che te la levi dal sedere? Mi sembri tutto rigido.
– Oh?!
– Scherzavo, né. Mammamia e come prendi tutto sul serio. Dovresti scioglierti un po’. Oppure ti alleni a fare il pastore da presepe?
– Divertente. Senti, ma da dove vieni? Hai delle inflessioni regionali varie.
– Eh è perché siamo sempre in tournée. Mai un Natale nello stesso posto. Alla fine parlo come capita.
– Ho capito. Senti, non dirmi niente ma ora devo andare…ti disturba se ripasso a trovarti?
– Oh sì, guarda, mi dai proprio tanto fastidio. Una fa tanto per starsene tutto il giorno a rompersi i coglioni da sola e poi arrivano a distrarla. Che tempi.
– Ho capito. Ho capito che con te debbo evitare la retorica.
– Allora non sei così addormentato…Testina, passa quando vuoi!

Che incontro strano. Che conversazione assurda!

Non è che serva un compositore per una sigla sindacale

Ho un cuscino all’aloe.

Ho un cuscino all’aloe e non lo sapevo. Me ne serviva soltanto uno che mi facesse dormire più comodo.

Ho sempre pensato che a forza di infilare aloe e ginseng ovunque come panacee di qualsiasi problema, della gastrite all’alluce valgo, alla fine ce li saremmo ritrovati anche nel letto. Ecco fatto.

Viviamo in tempi orribili. Ero a Milano e ho visto una paninoteca che serviva sandwich all’avocado e mango. Va contro ogni logica mettere frutta in panino. Ma io sono un conservatore.

Eppure quando parlo con i nostalgici dei tempi andati (che per inciso, questi bei tempi andati non sono altro che gli anni ’80-’90) penso alla fine che oggi tutto sommato non ce la passiamo mica tanto male.

Se siete tra quelli che pensano invece che questi anni per la cultura la musica il disegno tecnico siano il peggio e che tutto fosse meglio una volta, penso che ve la stiate vivendo male.


Detto da uno che i concerti che di recente ha visto sono di gruppi nati negli anni ’90 o ’80.


È ora di finirla con questo nostalgismo drammatico alimentato da vecchie sigle dei cartoni animati e mandato giù con il succo di frutta Mangiaebevi; la maggior parte delle cose che si rimpiangono erano come una cascata di prosciutto su un buffet al matrimonio del cugino Sampirisio: volgarmente kitsch e da vergognarsi di esserci.

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L’altra sera parlavo con degli amici e ricordavamo i tempi in cui avevamo un Walkman. Un altro orrore di quegli anni: la stanghetta di ferro delle cuffie ti faceva un male cane, senza contare i capelli che vi si impigliavano dentro e che ti strappava via ogni volta che la rimuovevi. Quell’affare inoltre pesava un accidente ed era scomodissimo da portare in giro: in tasca non entrava, se lo appendevi alla cintura o ti faceva cascare i pantaloni o cascava lui perché il fermaglio era una merda. Ah poi quando riavvolgevi il nastro con la BIC…Eh, che gran divertimento!

Parlando di penne, un altro incubo erano quelle a inchiostro cancellabile con la gommina presente sul tappo. Peccato che cancellassi prima tu il tutto con la mano: la cosa strana era che l’inchiostro veniva via dalla carta ma non dalla pelle, così trascorrevi l’anno scolastico di una bella tonalità blu Puffo perenne sul taglio della mano.

Gli Uniposca. Li odiavo perché non ne ho mai avuto uno, visto che costavano un botto di soldi e per quello che dovevi farci – gli scarabocchi sul banco – per i miei genitori bastava un anonimo pennarello comprato in saldo in stock da 50 all’hard discount.

Una volta, ero alle medie, la ragazzina che mi piaceva mi chiese un pennarello:
– Ma è Uniposca?
– È un pennarello…

Mi guardò perplessa. Deve avermi giudicato un pària.

I cartoni animati sono stati la più grande fonte di rincoglionimento di massa dai tempi dell’invenzione del celibato ecclesiastico. La violenza emotiva della mia generazione passò attraverso:

– Tragedie familiari (Candy Candy)
– Tragedie storiche (Lady Oscar)
– Incubi post atomici (Ken il Guerriero)
– Violenza così de botto senza senso (L’uomo Tigre)

Perché gli anime, in Giappone, sono divisi per il target di riferimento: bambini, adolescenti, adulti, maschi, femmine. Le nostre reti invece buttavano tutto insieme nel pastone pomeridiano/preserale, salvo rimaneggiare le opere con doppiaggi improponibili e censure inopportune per render il tutto fruibile agli under 14.

Non parliamo della tortura musicale delle sigle di Cristina D’Avena: testi scritti da chi il cartone ovviamente non l’aveva mai visto e con una base degna della peggio eurodance italiana riarrangiata in chiave bottiglia di minerale sfiatata perché va bene i traumi emotivi ma che almeno gli spettatori non comincino a impasticcarsi prima del liceo.

FINE PRIMA PARTE

(Il che non vuol dire che ce ne sarà per forza una seconda)

Non è che se alzi il pollice sull’erba stai facendo OK su prato.

Ho fatto un colloquio di lavoro via Skype, ieri. Non sto pensando di cambiare ma se capitasse qualcosa di migliore perché no.

Non era purtroppo questa l’occasione giusta, per quanto la città da dove veniva la proposta offra molte opportunità.

C’era una cosa in una delle due intervistatrici che mi infastidiva molto. Era una delle classiche persone da “piuttosto che” usato in modo improprio. Non sono un maniaco della corretta grammatica, negli anni mi sono abbastanza ammorbidito. Diciamo che dopo aver rischiato il linciaggio per aver corretto, per l’ennesima volta con conseguente rottura di maglioni, l’uso del pronome maschile per riferirsi a una donna, ho cominciato a mordermi la lingua.

Se non che, dopo aver ignorato i primi 2-3 “piuttosto che” fuori posto, costei ne ha infilata una combo in sequenza che mi ha fatto partire un tic all’occhio.

Non c’è nulla da fare, resto un insofferente viscerale.

Ad esempio una delle cose che mi dà più fastidio è quando, utilizzando i moderni strumenti di rimbambim…comunicazione, tu scrivi o registri un articolato messaggio e ti rispondono con l’emoticon del pollicione alzato.

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E nient’altro.

Attenzione: ci sono due tipi di pollicione. Ho notato che gli amici maschi rispondono in modo genuino col pollicione. Questo perché la comunicazione maschile, retaggio credo del Neolitico, segue schemi essenziali e primitivi. Cibo! Birra? Cazzo proprio stasera che c’è la partita?. In genere così sono le conversazioni con i miei amici. Il pollicione quindi non è indifferenza, è semplicemente un “Non sono in grado di esprimere altro”.

Le donne, invece, ho notato che quando rispondono col pollicione in genere sarebbero in grado di esprimere altro ma semplicemente non vogliono. Perché in quel momento ce l’hanno con te e quindi ti riservano assoluta sufficienza e indifferenza in quanto qualcosa in ciò che hai detto/scritto le ha urtate ma non ti diranno cosa.

In entrambi i casi, a me che mi sono sprecato a intavolare un discorso parte il tic all’occhio e quindi rispondo con un dito medio.

La terza cosa che mi causa insofferenza è quando qualcuno si ostina a entrare in dettagli clinici personali di cui farei a meno. Beninteso, non sono un insensibile e se una persona vuole condividere con me io sono sempre disponibile. Forse anche troppo.

C’è però il mio responsabile, uomo over50, che ogni volta che lo vedo deve aggiornarmi riguardo lo stato della sua prostata e delle sue minzioni. E per fortuna che lo vedo una volta al mese al massimo.

Oggi mi ha detto che c’è un farmaco che non vuole prendere perché ha scoperto gli causa disfunzione erettile. Non che io debba farci qualcosa con quello…, ha tenuto a precisare.

Ecco, tra scoperta e precisazione non so cosa più mi abbia fatto venire un altro tic.

Quasi quasi ricontatto la tizia del “piuttosto che”.

Non è che non ti puoi laureare in piedi perché si tratta di una seduta di laurea

Viviamo in un’epoca in cui cerchiamo sempre più certezze per la nostra salute: vogliamo sapere che i prodotti che acquistiamo sono 100% organic 100% bio 100% senza olio di glutine e per questo ci piacciono le confezioni con tante di queste scritte colorate.

Organizziamo varicella party perché anche una malattia esantematica ha diritto a divertirsi.

Sempre più italiani si curano con metodi alternativi. Sempre più alternativi si curano con metodi italiani.

È per questo che oggi vorrei parlare di una pratica di cui mi sono da tempo note le virtù terapeutiche: il facesitting.


Preciso che questo articolo non ha alcuna finalità di divulgazione scientifica, non essendo io medico: indi per cui non posso essere tacciato di essere al soldo di qualche multinazionale.

La seconda avvertenza è quella di praticare il facesitting solo in ambienti sicuri e con personale professionista e qualificato. A tal proposito, posso fornire su richiesta in via privata il contatto di qualche mistress che effettua sedute terapeutiche di facesitting. Il contatto viene da me fornito a titolo puramente personale e SENZA ALCUNO SCOPO DI LUCRO se non quello di ricevere una percentuale sul numero di clienti.


Facesitting letteralmente vuol dire facciasedendo, dalla formula di cortesia che un tempo si utilizzava per dar inizio alla pratica. La padrona, infatti, chiedeva umilmente al servo

– Potrei metterle il culo in faccia, mio buon servitore?

il quale rispondeva

– Prego mia signora, faccia sedendo.

Il facciasedendo o facesitting nasce in Inghilterra nel ‘700, come pratica ricreativa della classe gentry per svagarsi dalle ubriacature al pub e le partite di whist. Molto spesso le due attività si univano e non era raro che venissero giocate partite di whist mentre i giocatori praticavano facesitting sulla servitù.

Ben presto però ci si accorse che i servi su cui era praticato facesitting durante il weekend fossero sul lavoro più volenterosi ed energici nel corso della settimana successiva.


Per quanto si possa essere volenterosi ed energici nello svuotare pitali giorno per giorno.


Qualcuno pensò a una correlazione con la pratica ma qualsiasi discorso intorno al facesitting si arenò in modo brutale quando un uomo morì soffocato durante una seduta.

Lo scandalo fu che la vittima non fosse un semplice domestico o lacchè – non era raro infatti che qualche sguattero di cucina ci lasciasse le penne sotto le poderose natiche di qualche Madame – ma un lord gentleman molto noto e stimato nella sua comunità, mentre la donna proprietaria del culo non una contessina ma una “volgarissima cuoca”, come scrissero i giornali del tempo. Il caso finì sulla bocca di tutti – quella stessa bocca su cui, con tanta ipocrisia, fino a poco prima era poggiato un deretano – e arrivò a Corte. Re Giorgio III, l’allora Sovrano che sembrava non disdegnare usmare sederi altrui, con un editto dichiarò illegale “poggiare le proprie nude terga a contatto col viso di un altro essere umano”. Per questo intervento bacchettone e moralizzatore fu molto criticato e da Re Giorgio Terzo fu soprannominato Re Giorgio Terga perché si diceva a forza di praticare avesse assunto la faccia come il.

Caduta in disgrazia, la pratica finì quindi nel dimenticatoio e bisognerà attendere l’età vittoriana per la sua riscoperta. A dispetto della sua dichiarata austerità e sobrietà di costumi, l’epoca della Regina Vittoria fu, per usare parole degli storici*, “un’età di veri porcelloni e mandrilli”.


* Tra cui il Prof. Durbans dell’Università di Scarborough.


Sempre più professioniste del meretricio offrivano nella propria lista di servizi anche quello di una bella seduta in faccia, facendosi però definire, forse per qualche vaga eco degli antichi trascorsi in cui esisteva una rigida separazione sociale, “padrone” mentre ai propri clienti era riservato il ruolo di “schiavo”. Molti avventori di postriboli tornavano a casa corroborati dalla seduta, rilassati e bendisposti d’animo e più di uno avrebbe giurato di aver tratto beneficio da malanni vari e doloretti reumatici che lo perseguitavano.

L’editto di Giorgio III tecnicamente resta ancora valido a tutt’oggi non essendo mai stato abrogato ma sin dalla sua promulgazione era stato aggirato: dato che citava “nude terga”, alla padrona bastava tenere indosso un capo intimo qualsiasi. Ancora oggi non è raro, forse per abitudine, che le mistress non pratichino il facesitting a sedere nudo ma indossino della biancheria, se non, addirittura, jeans o pantaloni.

Oggi è riconosciuto che regolari sedute di facciasedendo, insieme a uno stile di vita salubre, una corretta alimentazione e una sana attività sportiva, migliorino la salute generale della persona.

Test clinici dimostrano che la pressione di un paio di glutei sul volto favorisca il rilassamento dei tessuti muscolari e, tramite le microtture dei capillari superficiali, una macro ossigenazione della pelle.

Io ho 33 anni e ne dimostro 26, a esser precisi 26 e un po’. Coincidenza?

La mia prima esperienza in assoluto di facesitting fu del tutto involontaria. Ero in seconda media, in classe ci si stava simpaticamente spintonando, mimando risse tra compagni maschi come si fa a quell’età per cementare il proprio spirito di gruppo e sudare pezzandosi l’ascella per spargere i propri afrori prepuberali.

d43a30c703c9b696c6c83d2fcc015eceNon so se fu una spinta di troppo o una mia scivolata avventata, fatto sta che in caduta falciai in tackle una mia compagna di classe, come neanche il buon Fabio Cannavaro di quei tempi. La poveretta volò all’indietro piombando col sedere proprio sul mio viso e facendomi dare una sonora craniata al suolo. Testimoni dicono che la mia testa sul pavimento produsse il suono di un campanaccio da vacca.

All’epoca non sapevo che una testata simile potesse uccidere né che un culo in faccia, soprattutto quello della mia compagna che indossava una tuta di acetato 100% antitraspirazione, potesse indurre il soffocamento e quindi mi salvai non riportando dannx cerebrbali a lung034f9id02304ew0e45dlsl’scl”e’4”02303ì’ììì

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Pregevole stampa illegale d’epoca (XIX sec.) che mostra una coppia durante una seduta terapeutica

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Stampa didattica giapponese che invita le mogli a praticare facesitting ai mariti e consiglia alle figlie di osservare per apprendere i segreti della tecnica

Non è che il telelavoro sia quello che fa Pippo Baudo

Non posso lamentarmi del mio lavoro per quanto riguarda la libertà organizzativa e di orari che mi concede; non essendo vincolato a una presenza fissa in sede posso anche usufruire della possibilità di lavorare a distanza.

Se mi reco in ufficio tutti i giorni è per una sorta di auto-disciplina che mi sono dato non suicidarmi.

Lavorare da casa può essere interessante per un giorno. Due, al massimo. Poi quando ti rendi conto che passi in modo immediato dal letto al lavoro e dal lavoro al letto oppure che quando hai finito di fare ciò che devi fare stacchi per aprire Netflix (o YouPorn…) senza alzarti dalla sedia, non ti senti molto bene con te stesso.

Anzi ti senti un po’ coglione, se mi è consentito.

Stare a casa poi ti porta ad assumere alcune abitudini tipicamente casalinghe. Ad esempio quella di avere telefonate importanti in ciabatte e boxer.


Quando ti sei ricordato di indossare i boxer.


Diventa problematico, una volta avvezzi a tali comodità, rinunciarvi quanto non sei più a casa tua.

Come fai a convincere gli altri che in ufficio ti deve essere concesso ogni tot di tempo di “cercare qualcosa profondamente nelle tasche” in totale libertà per scaricare la tensione?


Si dibatte molto, tra le donne, sul perché gli uomini abbiano questa triviale abitudine di cercare cose profondamente nelle tasche, quando non si tratta di rituali apotropaici – beninteso volgari in ugual maniera ma giustificabili in qualche modo. Le ragioni posson essere diverse, come la necessità di ricollocare le truppe spostatesi fuori territorio o la ricerca di sollievo da un tessuto scomodo o dermatologicamente aggressivo; in generale comunque va detto che lo sfregamento dell’anguinaia, come di altre parti del corpo, stimola la produzione di endorfine come fosse una sorta di ricompensa dell’atto. L’abitudine, per l’essere maschile, ad avere molta confidenza con le proprie zone private sembra spinga quindi a cercare ricompensa più spesso proprio lì che da altre parti.


Per questo resto a casa solo in caso di malattia o necessità tipo visite dal medico (mie o di altri) o dal veterinario.

Coincidenza o Legge di Murphy vuole che quando sono impegnato in queste situazioni e non presente in sede, mi cerchi al telefono, puntuale come la pioggia di Pasquetta, l’intero mondo – un mondo tra l’altro che non è a conoscenza che io non son presente in sede, dato che chiamano da altre parti d’Italia – e per conversazioni ovviamente non brevi.

Dato che non riesco a ignorare un telefono che squilla, a meno che io non sia alla guida, mi sono spesso dovuto esibire in equilibrismi vari: una volta con una mano mi sono trovato a reggere il telefono, con l’altra la gabbietta del gatto, mentre con il piede aprivo la porta, con il naso accendevo la luce e non so come ma nello stesso tempo mi sono anche cercato qualcosa molto profondamente nelle tasche.

Non è che Batman rida della Bat-tuta

Mi capita di incrociare quotidianamente le mandrie di liceali che transumano verso le /dalle scuole. Alcune cose – come le nuvole “d’odore d’adolescenza”* che ci si porta dietro in quell’età – noto non cambiare mai tra le generazioni, altre invece mi rendo conto che si sono modificate tanto.


* Smells like teen spirit, No?


Le mode, ad esempio. Come quella della tuta. Oggi maschi e femmine vanno in giro in tuta come se fosse un capo di tendenza e forse lo è.

Quando andavo al liceo io la tuta era giustificata solo se quel giorno c’era educazione fisica. Parliamo del solo pantalone. L’abbinamento pantalone-giacchetta tuta era considerato socialmente inaccettabile dopo la terza media.

A meno che uno non volesse essere picchiato all’ingresso e poi additato al pubblico ludibrio per tutte le cinque ore successive per essersi conciato da sfigato, s’intende.


Son gusti.


Le ragazze, che sono sempre più avanti dei loro coetanei maschi, smettevano la tuta in via definitiva alle medie. Al liceo se decidevano di partecipare all’ora di educazione fisica lo facevano in jeans.

Oltre alla condanna sociale, per i maschi c’era anche una necessità pratica.

La tuta non permette di nascondere. Cosa? Beh tu chiamale se vuoi…emozioni.

Un adolescente maschio medio in normale sviluppo ormonale ha in media da 4 a 10 volte le emozioni spontanee che ha un maschio adulto. Inoltre a livello mentale è ancora incapace di gestirle come si deve. Da qui la necessità di preferire un capo come il jeans che permette di nascondere meglio le proprie…emozioni.

Oggi invece viviamo in una completa rivoluzione: da quand’è che andare in giro in tuta non è più considerato da sfigati?

E soprattutto: i maschi di oggi non hanno più paura delle proprie emozioni spontanee oppure sono incapaci di provarle?

La tuta per questo è l’inizio dell’estinzione della specie?

Carico di questi dubbi sono andato in piscina. In tuta. Ma solo il pantalone perché ho ancora paura di essere picchiato.

Le fantastiche tute in acetato anni ’80-’90 in grado di produrre elettricità libera e gratis per sfregamento ma le grandi multinazionali non vogliono che voi sappiate.

Non è che se sbagli i congiuntivi ti senti in pericolo perché la situazione è grammatica

Alle scuole elementari ero un vero asso nelle gare di coniugazione verbi. Bisogna dire che non mi ci applicavo neanche. Per me era una questione di tonalità. “Se io avessi saputo” ha una tonalità gradevole rispetto a “Se io avrei saputo”, che suona come delle unghie su una lavagna. Era tutto qui. Non mi sforzavo a ricordare le regole grammaticali. A dire il vero non sono mai stato neanche uno studente sgobbone.

Le gare di coniugazione, però, alla fine le perdevo sempre. Erano gare a squadre e sia che io stessi nella squadra dei maschi, sia nella squadra del lato est (o ovest) dell’aula, mi trovavo sempre nella parte più scarsa e a nulla serviva la mia prestazione sopra la media.

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È tutta la vita che mi sembra di ritrovarmi sempre dal lato sbagliato. Di quelli che hanno compiuto un errore di collocazione.

E pensare che c’è gente che, masticando aforismi e defecando stronzate, si sente fiera di dirsi seduta dal lato del torto. A me in tutta sincerità non farebbe specie star dalla parte della ragione. O quanto meno di quella dei ragionevoli, ma sono testardo e anche questo non mi giova.

Non è che l’estetista pignola cerchi per forza il pelo nell’uovo

Ristorante, una ventina di anni or sono. In un tavolo più là c’è una famiglia, padre, madre e figlio.

Il padre scuro, la madre molto castana, il fanciullo rosso come Anna dai capelli rossi che è caduta nel succo di pomodoro.

Passa un cameriere che fa una carezza in testa al piccolo ed esclama, a voce alta

– Ué, e ‘sto rosso da dove è uscito?

Io sono sicuro che tutti i presenti avranno rivolto qualche irriverente pensiero alla fedeltà della signora.*

Mi son sempre chiesto chi stesse sbagliando: il cameriere che son certo volesse fare lo spiritoso o chi si mette a pensar male? Si dice che Malizia sia sotto le ascelle di chi lo spruzza, quindi…


* In realtà questa mia sicurezza su cosa possano aver pensato gli altri potrebbe anche essere tutto frutto di una mia errata “lettura del pensiero”, avendo la pretesa di capire cosa pensano gli altri sulla base di ciò che io stavo pensando. Pur avendo 10 anni, pensai infatti a) il padre non è il vero padre; b) è stato adottato. Non mi sfiorò l’idea di qualche gene nella famiglia che avesse prodotto il piccolo rosso, anche perché non ne sapevo nulla di genetica, ovviamente. Fino a poco tempo prima credevo che chi aveva i capelli neri fosse semplicemente stato di più al sole rispetto ai biondi.


Mi ha sempre un po’ incuriosito la genetica sui colori dei capelli e degli occhi.

Rimasi colpito nell’apprendere che il biondismo è in via di estinzione. Il biondismo puro, intendo. Il prudore erotico della maggior parte dei maschi mediterranei che tra qualche decennio non potranno più raccontare di quella volta in Riviera di quella tedesca che era bionda sopra sotto e anche ai lati – ho visto che in Germania va molto l’ascella col pelo – perché non ce ne saranno più.

Biondismo pubico


Saranno 20 anni, cioè da quando io ricordo di averle sentite per la prima volta, che sento raccontare queste favolose storie sulle tedesche in Riviera, ma di sicuro tali epici eventi narrati dai rapsodi delle spiagge affondano radici nei decenni precedenti.

Considerando quindi tutte le tedesche che in almeno mezzo secolo dovrebbero aver ceduto al fascino dei viveur nostrani, le nuove generazioni tedesche dovrebbero parlare italiano. Altro che biondismo, dovremmo aver estinto il popolo teutonico.


Un mio rammarico riguarda il fatto che se in futuro avrò un figlio non credo possa avere colori degli occhi/capelli diversi dal nero/castano scuro, almeno a giudicare come si presentano tutti i rami della mia famiglia.

Certo, ciò eviterebbe commenti da parte di camerieri simpaticoni: ma gli si può sempre rispondere

– Ué, e invece da dove è uscito ‘sto coglione?.

Non è che la ragazza perspicace ti tiri giù dal letto al mattino perché è una sveglia

L’essere umano è un animale sensibile. Basta poco per alterare il suo equilibrio psico-fisico. O almeno è ciò che ci dicono i venditori di lactobacilli e di compresse effervescenti.

Vero è che l’ambiente che ci circonda influenza il nostro umore.

A me ad esempio può indisporre chi prova a entrare in bagno mentre sto urinando. Non perché la cosa mi blocchi: noi maschi possiamo ritenerci fortunati, fin da piccoli siamo abituati a innaffiare coi nostri idranti in libertà, come tanti Grisù, senza subire condizionamenti pudici come in genere accade per le femmine. Quindi se qualcuno volesse entrare in bagno mentre il rubinetto è in funzione sarebbero problemi suoi, non miei.

È l’atto stesso del disturbo dell’azione che è tediante. L’interruzione di un breve momento di pace intima oltre che di riflessione. Non so per gli altri, ma per me anche una breve pisciata è un’occasione per meditare sulla mia vita.

Disse il Buddha: Noi siamo quel che pisciamo.

Minzioni a parte, questa mattina ho provato a intervenire su uno di quei disturbi che alterano l’equilibrio psicofisico. E senza assumere lactobacilli.

Ho cambiato suoneria alla sveglia del telefono.

Ho sempre avuto problemi con il suono delle sveglie. Quelle meccaniche da pochi euro sono logoranti per il sistema nervoso.

Quelle del cellulare sono oltremodo fastidiose.
Alcune sembrano mixate da Skrillex. Mi chiedo chi riesca ad alzarsi rilassato in questo modo.

Altre, quelle con i suoni della natura, sembrano tutto fuorché naturali.

Le onde del mare ricordano la cassetta del water che si riempie. La pioggia, un bagno che si sta allagando. Gli uccelli, che stanno scassinando una vecchia porta che cigola.

Sono andato avanti a tentativi, mal sopportando ogni risveglio, fino a che non ho trovato e scaricato la sveglia che fa al caso mio:

Sto scherzando. È questa:

Com’è come non è riesco a svegliarmi in maniera più rilassata.

Ma ora vorrei decapitare degli Stuart.

Non è che la ginecologa con dei disturbi legati al lavoro abbia le turbe di Falloppio

Non ho mai ricevuto un’educazione sessuale, se si esclude una precoce iniziazione con Postalmarket proseguita poi con l’anime di Lamù.
Senza andare poi a scomodare le pagine della finta posta del Cioè rubato alle compagne di classe.

Fin dal primo episodio evidenziava il proprio potenziale formativo.

Fin dal primo episodio evidenziava il proprio potenziale formativo.

Quel che ho poi imparato in maniera più seria l’ho appreso di mia iniziativa sui libri. Un po’ per desiderio di conoscenza, un po’ per quella pruriginosa curiosità che può avere un ragazzino.

La prima reazione fu quella di pentirmi del prurito. Insomma, uno dovrebbe poi infilarsi in un posto umido, a volte maleodorante, dalla dubbia estetica e pieno di batteri? In pratica è come entrare in un ristorante cinese.


Beata ingenuità infantile.


Gli insegnanti non hanno mai offerto molto supporto, seppur i vari testi scolastici trattassero l’argomento, con differenti modalità.

Il sussidiario di scienze delle scuole elementari spiegava in un paio di pagine la riproduzione, anche se senza alcun riferimento anatomico: ricordo i disegni di una cellula uovo (stilizzata) e di uno spermatozoo che vi si appropinquava. Quest’ultimo era raffigurato come fosse un biscione nero.


In pratica sul libro avevo il logo dei Queens of The Stone Age:


Il libro di educazione fisica delle scuole medie era molto più dettagliato e completo.

Peccato che un libro di educazione fisica in una classe sia cosa più inutile di un frigorifero in Groenlandia.

Le due ore scarse – il professore aveva divorziato dalla puntualità – di lezione a settimana erano dedicate soltanto a calcio (i maschi) e pallavolo (le femmine). E se eri masculo non giocavi con le femmine: oggi dicono che ci si ammala di gender, allora ti davano del ricchione.


E qui che si capisce che non serve alcuna educazione sessuale: non si deve inculcare ai ragazzi l’idea che non sia normale dare del ricchione a qualcuno.


Qualche volta, quando si era in pochi in classe, abbiamo permesso alle femmine di giocare a calcio con noi. Loro potevano fare cose riservate all’altro sesso ma solo per gentile e temporanea concessione da parte nostra, revocabile in qualsiasi momento.

In genere la partita finiva quando una ragazza rimaneva acciaccata da una pallonata sul petto o sul basso ventre. Quella fu un’altra lezione di anatomia: le parti intime femminili sono delicate e sensibili anche al Super Santos.

Ricordo una sola occasione in cui aprimmo il libro di educazione fisica, in un giorno di pioggia e con le palestre inagibili.

Il professore lesse un capitolo riguardante la pubertà. Finita la lezione chiuse il libro senza aggiungere una parola di spiegazione, della serie Questo è, il mio dovere l’ho fatto.

Quella si potrebbe avvicinare a essere stata una lezione di educazione sessuale avuta a scuola.

A casa invece l’unico insegnamento ricevuto fu quando Madre mi disse “Non portarci nessun dispiacere a casa, capisci a me“, alludendo al prestare attenzione a non impollinare improvvidamente qualche fiore.

Mi sono tornati in mente questi ricordi dopo aver visto un video su Internazionale in cui una giornalista e una regista si interrogano su quanto le persone, in particolare le donne, conoscano la struttura dei genitali.

I risultati sono un po’ sconfortanti. Saranno magari casi estremi ed estrapolati da un contesto, anche se a volte mi chiedo quanta educazione intorno certi temi ci sia tra la gente.

Se molti devono istruirsi da sé – e io almeno avevo l’interesse verso libri di divulgazione – non posso allora considerare inusitato che ci sia chi confonde vagina e vulva o che pensi che l’uretra sia una cantante soul.


La famosa Urethra Franklin.


In realtà tutto il post era teso ad arrivare a questa battuta.


Non è che vai in giro con un gancio per riuscire a rimorchiare

Ho conosciuto il padre di CR.

Sono stato invitato fuori a cena con famiglia CR (padre, le due figlie e l’Ingrugnito) e amici in due occasioni, tra sabato e martedì: il compleanno di lui – da qui in avanti denominato Zèzo – cadeva ieri, ma in pratica è gestito come se fosse il Carnevale di Rio. Si festeggia infatti per una settimana: giovedì sera è prevista ancora un’altra serata.


In napoletano ‘o zèz è l’uomo che fa il cascamorto, si profonde in smancerie e complimenti, molto spesso per il solo gusto di apparire. Il zèzo, infatti, spesso agisce per colmare un insanabile egocentrismo, tanto che esercita il proprio carisma con chiunque, donne e uomini, vecchi e bambini, per attirare l’attenzione.

Esiste anche la versione femminile, ‘a zèza, che, allo stesso modo della controparte maschile, è tutta moine e vezzi e non chiude la bocca mai.


Le origini etimologiche sembra risalgano al teatro napoletano, da Zeza, diminutivo di Lucrezia, moglie di Pulcinella, che abbindolava il marito con smancerie e atteggiamenti falsi.


Il Zèzo che ho visto all’opera in queste serate è un arzillo 70enne che si è esibito in baciamano e canzoni all’indirizzo delle cameriere, oltre che nel fare conoscenza con giovani donne nei tavoli di fianco.

Ha anche illustrato a noi maschi presenti le tecniche valide per un approccio, accompagnate da aneddoti di quando sono state applicate in giro per il mondo per fare conquiste.

Una di queste tecniche è particolarmente interessante, per quanto non originale.

Il Zèzo sostiene che, quando al tavolo di fianco c’è una donna che reputiamo interessante, per rompere il ghiaccio e far conoscenza non bisogna partire all’attacco bruscamente.

Basta attendere il momento in cui lei prende in mano un bicchiere per bere e, guardandola negli occhi, alzare il proprio bicchiere in contemporanea ammiccando per un brindisi virtuale. In tal modo si crea un contatto e, cito, “poi è fatta, ce l’hai già lì, devi solo chiedere il numero”.

Ha raccontato che, una volta, mentre era seduto a un tavolino a Piazza del Plebiscito, per non farsi sfuggire l’occasione giusta ha atteso mezz’ora col bicchiere in mano aspettando il momento in cui una donna che aveva adocchiato si decidesse a bere.

Alla luce di questo aneddoto ho pensato allora di migliorare la sua tecnica, che è sì efficace ma alquanto statica. Infatti occorre star fermi e seduti a un tavolo in attesa dell’attimo propizio. Inoltre non è detto che si sia sempre così fortunati da avere di fianco qualcuna con cui far conoscenza o che beva.

Si potrebbe allora uscire di casa già con un bicchiere in mano, andando in giro a cercare occasioni da cogliere e brindisi cui ammiccare girando di bar in bar, di bistrot in bistrot, di bettola in bettola.


D’inverno magari potrebbe essere un po’ difficoltoso stare tutto il tempo per strada con la mano che regge un bicchiere, ma in ogni caso non andrebbero indossati i guanti. Avete mai visto uno che brinda coi guanti di lana? Non è elegante, suvvia.


Le bevande da portare dietro andrebbero diversificate a seconda delle fasi della giornata.

Al mattino: tazzina di caffè
Prima del pranzo: un bicchiere di Spritz
All’ora di pranzo: calice di vino
Nel pomeriggio: tazza di tè
La sera: calice di Prosecco
Dopo cena: un boccale di birra


Le bevande sopra esposte sono a titolo puramente esemplificativo. Nulla vieta di utilizzarne delle altre.


Chi volesse dunque sperimentare la tecnica e fornirmi dei feedback è ben accetto. Dimostriamo che possiamo essere zèzi migliori delle vecchie generazioni!