Non è che per forza se uno rompe poi gli devi lasciare dei cocci (e farglieli pagare)

Mi sta accadendo di non riuscire più a dedicarmi a scrivere post qui sopra come facevo un tempo. Non che mi manchi voglia di raccontare, ma non mi riesce più di poter dedicare mezz’ora in assoluta tranquillità al blog.

Anche adesso che la febbre post terza dose mi ha dato una giornata di nullafacenza non mi riesce di articolare un discorso organico e quindi procederò più per punti.

Ho la febbre, dicevo. Il “Moderno”, come sento chiamarlo in giro – giustamente per chi le dosi precedenti le ha ricevute da altri vaccini è qualcosa di nuovo, moderno per l’appunto – si è fatto sentire. Ho scritto al medico questa mattina – vuole solo contatti Whatsapp – per avere un giorno di malattia e lei mi ha risposto di venire in ambulatorio. Chiaramente, la prassi corretta sarebbe appunto a) visita b) certificato c) comunicazione al datore di lavoro. Tralasciando però il fatto che ho la febbre quindi non dovrei spostarmi né accedere a luoghi pubblici, mi ha fatto ridere la motivazione che ha aggiunto: dato che non ci siamo mai visti – ho cambiato medico di base quest’anno – vorrebbe prima conoscermi.

Morale: prima di richiedere prestazioni invitate almeno per un caffè il vostro medico!

Il collega Rompino che ho in ufficio continua invece a non volersi vaccinare. Lui è un naturologo e da qualsiasi cosa che non sia bio e che invece puzzi di chimica se ne tiene alla larga.


Poi va a cenare in una nota paninoteca della mia città. Sicuramente come sapori sarà buona, ma io fatico sempre a credere che un posto abbia Marchigiana e/o Chianina pura da servire per 200 coperti ogni sera. Praticamente ci sarebbe bisogno di un Pianeta a parte popolato solo da bovini per soddisfare tutte le paninoteche gourmet esistenti solo qui in provincia.


A me poco interessa di cosa fa o non fa. Evito ormai con le persone argomenti come politica, religione, vaccini, schivandoli come Neo coi proiettili. Quel che vorrei invece è che lui non fosse un rompino, ma come si fa? Non sarebbe Rompino, per l’appunto.

Un esempio: dove lavoriamo non ci sono i termosifoni ma i diffusori a soffitto solo nelle stanze. I corridoi, quindi, d’inverno sono gelidi. Un giorno particolarmente freddo avevo alzato di un paio di gradi la temperatura. Lui arriva tutto imbacuccato, dal freddo esterno e lamenta di percepire un’aria calda e soffocante (strano, se non ti togli berretto, cappello e piumino). Ok, spegniamo.

Lui nel frattempo apre la finestra. Arriva una tempesta. Chiude.

Io riaccendo l’aria.

Dopo un po’ lamenta di nuovo di sentire aria opprimente. Abbasso la temperatura del riscaldamento riportandola come ai  livelli soliti. Lui riapre la finestra. Arriva una grandinata. Chiude.

Infine dopo un altro po’ dice invece di sentire freddo e mi chiede allora di ri-alzare la temperatura.


Beninteso, aerare una stanza ogni tanto è importante. Magari però non mentre fuori infuriano gli elementi.


A casa, intanto, a proposito di riscaldamento, i nostri continuano a darci problemi.

Uno ha iniziato a perdere copiosamente da un punto di giunzione.

Un altro, la cui valvola era stata appena cambiata dall’idraulico inviatoci dal padrone di casa (un vero artigiano della qualità), pure ha iniziato a perdere. Dalla stessa valvola sostituita.

Ovviamente questi problemi si sono verificati la sera del 23 dicembre.

Mi ricordo quando all’IKEA M. comprò delle ciotole e io pensavo che in casa già ce ne fossero abbastanza. Adesso che le utilizziamo per raccogliere le perdite, mi sembrano poche.

Mai mettere in dubbio la saggezza e la lungimiranza femminile.

Non è che ti serva una canoa per superare una riunione-fiume

Ho terminato un libro che aveva preso ad annoiarmi. L’inizio sembrava promettente, poi si è ridotto come gli auricolari che metti in tasca: un groviglio non dipanabile. Prima di iniziarlo avevo letto un paio di commenti su Anobii che davano un giudizio mediocre al romanzo proprio per il suo aggrovigliarsi senza capire che direzione volesse prendere.

Ora però non saprò mai se mi sono fatto più condizionare dalle critiche o se il libro seriamente non funzionasse bene. Un libro non si giudica dalla copertina (vero, ma fino a un certo punto: ci sono copertine dalle quali sai già cosa aspettarti), ma neanche dai giudizi altrui (vero ma fino a un certo punto?).

Eppure noi, nonostante le belle dichiarazioni d’intenti, subiamo gli effetti di pregiudizi, giudizi affrettati, delle opinioni altrui. È inevitabile.

Va anche detto che i giudizi altrui non è che siano sempre sbagliati.

Io per esempio ho una collega con la quale quest’anno mi trovo a condividere un lavoro per il raggiungimento dell’obiettivo 2021. Ci interfacciamo a distanza, visto che lei lavora in un altro Centro a 900km dal mio. Non so manco che volto abbia. Per comodità narrativa, la chiameremo Asciughina.

Di Asciughina, prima di iniziare questo lavoro in collaborazione, avevo solo sentito dire che è pesante e rompimaglioni. È pesante, ma così pesante nel suo vagliare, analizzare e programmare ogni singolo aspetto, che di lei la mia collega di stanza d’ufficio diceva che (cito testualmente) «Anche una chiavata, se mai se ne fa una, se la deve programmare in agenda».

Di certo non erano le premesse ideali per approcciarsi senza pregiudizi. E, sarò sincero, quando mi hanno detto che avrei dovuto lavorarci assieme, ho invocato Anubi perché ho pensato che, essendo io l’ultimo arrivato, me l’avessero affibbiata di proposito perché nessuno la regge più.

Anubi è sceso e mi ha detto «Sopporta».

Fatto sta che i giudizi dicevano il vero.
Asciughina è il tipo di persona che parla per ascoltare il suono della propria voce. Butta lì un quesito, fa una pausa (e tu pensi di poter intervenire) e poi riprende a parlare rispondendo a ciò che aveva detto. Una conversazione con lei dura due ore (e non scherzo), perché continua a buttare sul tavolo cose su cose. È lenta e monocorde.
È accaduto più di una volta che, terminata una riunione (di due ore e 20) con altri tizi con cui lavoriamo, appena cliccato il tasto rosso lei mi scrivesse in chat chiedendomi di sentirci per fare il punto di quanto si era detto.

Siccome non sono una brava persona e c’è sicuramente un posto nell’inferno per i perculatori che mi aspetta, ho iniziato a questo punto a fingere impegni per troncare le chiamate.

All’inizio dicevo che avevo un appuntamento a breve (nota: si erano fatte le 18 e di solito stacco alle 17). Non funzionava perché dopo avermi detto «Va bene ci aggiorniamo la prossima volta» poi riprendeva il discorso come se niente fosse e andava avanti senza lasciar intravedere una fine.

Poi ho iniziato a fingere urgenze. Mi facevo chiamare da M.. Per esempio una volta ha finto di essere rimasta a piedi con l’auto.

Solo che quante volte ci possono essere urgenze?

Poi ho iniziato a fingere scadenze impellenti di lavoro cui mettere mano.

La volta scorsa le ho detto «Ciao, se è una cosa veloce sentiamoci pure, sennò rimandiamo».
Ha preferito rimandare. E tenermi il giorno dopo sempre due ore in conversazione.

Non bisogna farsi influenzare dagli altri, certo; si deve però ammettere che delle volte hanno più che ragione.

Non è che il motto del tessitore sia Aiutati che dio ti iuta.

Ricordo, quando ero alle medie, una volta ci venne assegnato un tema come compito a casa. La consegna riguardava più o meno il parlare delle volte in cui si era reso necessario l’aiuto di qualcuno.

A quei tempi non amavo molto il tema di tipo personale. Quello in cui dovevi raccontare di fatti tuoi, emozioni, sentimenti, eccetera. Se erano fatti miei, restavano fatti miei. Avrei accettato di scriverne come fosse un diario personale, ma l’idea poi di leggerlo davanti alla classe era qualcosa che mi creava fastidio.

Preferivo di gran lunga scrivere articoli e saggi. A tal proposito, sul tema in oggetto avrei scritto più volentieri – e con successo – un saggio intitolato “La ripugnanza di dover rispondere a una consegna di questo tipo: spunti e riflessioni”.

Com’è come non è, il giorno dopo, quando ormai stava per scoccare il 90° (cioè il suono della campanella), per una mia battuta di troppo la professoressa mi richiama all’ordine e mi invita a leggere il tema.

Mi schiarisco la voce e, con riluttanza, leggo il mio svolgimento: «Non ho mai chiesto l’aiuto di qualcuno e se l’ho chiesto non me lo ricordo».
La professoressa: «Eccolo, il solito Gintoki, caustico e sprezzante. Va be’ vai avanti»
«Ehm in verità ho terminato qui».

Scoppio di risa generale. Insufficienza sul registro. Campanella, sipario.

Non è che proprio avessi scritto qualcosa di lontano dalla realtà.

Chiariamo: l’aiuto di qualcuno capita sempre e io chissà quante volte l’avrò chiesto. Ma è anche vero che ho presto capito che Chi fa da sé fa per tre, che È meglio soli che male accompagnati, eccetera eccetera. Sono giunto alla conclusione e ho consolidato in me l’idea che certe cose è meglio risolversele da soli.

Anche perché, sarà incapacità mia nel comunicare i miei bisogni, delle volte non ho riscontrato una comprensione o una risposta che fosse conforme alla mia richiesta. E ciò lo ricollego sia all’incapacità mia nel comunicare sia alla presenza nel prossimo di una base pregiudiziale che inficia la risposta finale. In parole povere, se il mio interlocutore mi pone un input e nella mia testa ho già un’idea formata oppure ho la presunzione di aver compreso senza terminare di prendere in considerazione tutti gli elementi, il mio output sarà qualcosa non in linea con ciò che si aspetterebbe l’altro.

E credo che nel non capirsi sia una cosa che quotidianamente noi esseri umani ricadiamo. Allora, stando così le cose, la mia filosofia è Tranquilli, faccio da me.

Per fortuna, e sottolineo per fortuna, non è possibile far tutto da soli. Per dire, nella mia vita lavorativa mi è capitato che qualche santa in paradiso perorasse la mia causa. Il mio lavoro attuale dipende dalla mia collega, che ha insistito con chi di dovere perché trovassero il modo di assumermi in pianta stabile. Me lo sarò guadagnato perché fossi stato un incapace o un inetto mi avrebbero rispedito a casa, certo, ma resta il fatto che se a un certo punto non avesse rotto le scatole affinché prendessero una decisione, io oggi non so dove sarei.

Pertanto penso che un giorno o l’altro vorrei omaggiarla di un omaggio. E siccome è sempre fonte di spunti interessanti, frasi epiche o aneddoti divertenti, pensavo a qualcosa in linea col personaggio.

Qualche giorno fa, parlando con una collega, se ne è uscita con un’espressione che grossomodo è da intendersi come “Non siam mica qui a pettinar le bambole”. Solo che la sua frase era più colorita e, direi, icastica (anche perché chi è che oggi va in giro a pettinare bambole?):

«I peli da sopra la fessa non ce li togliamo in ufficio ce li togliamo a casa».

L’idea che mi era venuta era di farne una sorta di manifesto pop, come quelli che vanno di moda oggi (del tipo di Testi Manifesti).

È solo una bozza e va ridefinita, ma credo possa essere una buona base di partenza:

Per migliorarlo avrei forse bisogno di aiuto.

Non è che la fabbrica di bici si rivolga alla Lines per problemi coi cicli

Considerazioni sparse.

– Ogni giorno, dal momento del risveglio a quando accedevo a internet/ai social (mezz’ora/un’ora dopo), facevo questo gioco: mi chiedevo quale sarebbe stata la polemica del giorno sulla quale chiunque si sarebbe sentito in dovere di dire la propria. Poi ho smesso sia perché era diventato troppo semplice indovinare sia perché saliva in me la voglia di partecipare a mia volta al dibattito polemico.

Quindi ho ripreso a drogarmi e mi è passata.

– Su un canale del digitale terrestre stanno riproponendo uno spin-off di Law&Order che all’epoca mi piaceva molto: Criminal Intent, con Vincent D’onofrio. In questa serie lo svolgimento è sempre il medesimo, impostato tutto sul personaggio del detective Goren/D’onofrio, un vero rompicoglioni: quando incontra qualcuno sospetto comincia a porgli domande curiose del tipo: “Scusi non sono un esperto, lei il salame lo affetta dall’alto verso il basso o inclinando il polso e tagliando dall’esterno verso di sé? È strano, sa, perché nel Vermont lo affettano proprio così. Lei viene dal Vermont, giusto?”. Il caso poi si risolve sempre nella sala degli interrogatori, dove Goren/D’onofrio spinge a confessare il sospetto provocandolo, a volte anche ingiuriandolo: “La ritenevano un piccolo uomo, non è vero? Incapace di soddisfarle! Un impotente!”. Alla fine il sospetto sbotta rabbioso e si tradisce.

Anche io so essere un insistente rompicoglioni. Ma non risolvo casi. Al massimo, li creo.

– L’industria delle biciclette da un paio di anni a questa parte è in grossa difficoltà: gli ordini sono aumentati di molto ma la produzione, complice la pandemia, non riesce a starvi dietro. Avevo ordinato una bici un mese fa che doveva essere pronta per la settimana passata, ma non lo è. Un pezzo della Shimano non è ancora arrivato e quindi la fabbrica non può consegnare la bicicletta. Sto provando a immaginare dove possa trovarsi in questo momento e ripenso sempre a quella storia del blocco del Canale di Suez e della coda stile esodo di agosto che si era creata e immagino il mio pezzo Shimano in questo momento a prendere il sole sul ponte di una nave.

– La mia collega ritiene che frequentare troppo a lungo amici omosessuali crei dei problemi poi nel relazionarsi con gli etero. In sostanza, tra gli amici omosessuali ti abitui a fare in libertà discorsi su culi e cazzi (testuale), poi tra gli etero ti ritrovi a esprimerti nello stesso modo libero e loro ti guardano scandalizzati.

I suoi amici etero sono dei repressi, immagino.

– Della mia collega ormai potrei quasi scrivere una biografia, visto ciò che mi racconta di lei. L’ultimo aneddoto lo vorrei citare testualmente, perché non renderebbe allo stesso modo raccontato.

«Non posso mai dimenticare quella volta, dopo un pomeriggio e una sera di sesso sfrenato con uno, che tra l’altro era il figlio di un’amica di mia madre ché io mi chiedevo Ma mia madre conosce questa gente e non ne sapevo nulla, questo si alza dal letto e mi fa Torno subito. Torna vestito da donna, con una minigonna di pelle. Pensavo volesse scherzare, invece era serio. Ti piaccio? mi fa. E mi racconta che che gli è sempre piaciuto vestirsi da donna e truccarsi. Però non è gay, mi diceva. Al che io gli domando: Scusa, l’hai mai preso in culo da un uomo? Sì? E allora sei ricchione!».

Io intanto avevo un file Excel davanti con cifre di qualche centinaio di migliaia di euro. Non sono più riuscito a fare alcun calcolo dopo questo racconto.

– Non riesco più a scrivere su questo blog con la stessa costanza di un tempo. Il lavoro, gli impegni vari, l’università mi portano via tempo e alla sera magari mi dedico ad altre cose. Soprattutto con l’università in questi giorni sono molto preso. Devo consegnare due saggi (intesi come elaborati, non come due individui molto colti e profondi), a breve. Uno è un lavoro di gruppo, il che dovrebbe rendere le cose più agevoli. Poi ho letto la bozza che ha caricato una mia collega sul gruppo. Mi sono fermato a questa frase priva di senso: La borghesia riteneva il nazionalsocialismo la soluzione al nazismo. Non sono più andato avanti a leggere. Penso che il lavoro sarà più ostico di quello individuale.

Non è che invidi un succo per la sua concentrazione

Ho un collega che sembra sempre molto concentrato e impegnato al lavoro. Sembra.

In realtà lui è un abile fuffologo. Il fuffologo del suo tempo ne fa fuffa, che all’occhio esterno può sembrare iperproduttività.

La fuffa, infatti, è come quei cibi ricchi di calorie vuote: dà un’apparente senso di sazietà, ma è povera di nutrimento intrinseco.

Chi produce fuffa sembra sempre molto preso e, in effetti, dilatare il proprio tempo per riempire le ore lavorative è comunque impegnativo.

Ho sempre invidiato le persone che sembrano molto prese.

A passeggio per la mia città a volte capto le conversazioni della gente. Amo non farmi i fatti miei.

C’è in giro un sacco di gente che mentre parla con gli altri dice cose del tipo Devo andare lì devo vedere devo fare parlare ma nel concreto non arriva mai al punto e non spiegano perché sono così occupati.

Io sono sempre stato poco credibile quando millantavo impegni. “Ho da fare” è la mia obiezione, a cui segue la replica “Macché, che hai da fare?”.

Il vero fuffologo invece non è lapidario e conciso, ma condisce il suo “impegno” con circonvoluzioni retoriche ripiene di nulla. La fuffa va impacchettata bene.

Spero un giorno di diventare più abile ed essere impegnato da impegni vuoti!

Non è che il ventilatore ti annoi perché è un giramento di pale

Per la rubrica “Confessioni surreali che non avevo richiesto”, oggi mi trovo a raccontare di alcune situazioni verificatesi dove lavoro.

La guardia alla reception del turno pomeridiano è il tipo di persona che se ti ingaggia ti investe di chiacchiere.

Pensavo che, non conoscendoci, sarebbe andato per gradi con me. Invece no. La nostra prima conversazione si è svolta così:

– ‘Sera.
(dico io, uscendo)
– Buonasera, buonasera.
(replica lui, cordiale. Poi si alza e mi segue)
– Mammamia, che caldo.
(esclama, mettendo il naso fuori mentre io esco)
– Eh sì.
(faccio io)
– Però non è che si può stare sempre con l’aria condizionata. Io poi la soffro tantissimo, mi basta un colpo di freddo e devo correre in bagno.
– Eh troppo bassa magari non bisogna tenerla.
– Però poi la notte non si dorme. Solo che se la tengo accesa pam! diarrea. Ma pure col ventilatore. Se tengo il ventilatore acceso durante la notte, il giorno dopo: diarrea! Pure se lo tengo puntato sui piedi, poi sto male di pancia.
– Eh magari è ipersensibile al freddo.
(io, tra il perplesso e il disagio)
– Ma pure se mi mangio qualcosa, ieri mi son preso un polaretto dal frigo e son dovuto correre in bagno.
– Eh deve fare attenzione
(nel frattempo ormai ero uscito dall’edificio ed ero sceso giù alle scale, sperando mi lasciasse andare, come poi è stato)

E niente, questa è stata la nostra prima conversazione.

Anche la mia collega ha iniziato a raccontarmi di un po’ di fatti suoi.

Ad esempio la storia delle fatine bucchine. Che è il modo carino con cui definisce la ex moglie e le due figlie del suo compagno.

Il succo della storia è che questo tipo si fa spennar denaro per qualsiasi vizio da parte delle fatine.

Ovviamente questa è la versione della mia collega.

Prima delle ferie mi ha raccontato l’aneddoto in cui la ex moglie ha scritto a lui per chiedere un centinaio di euro per la figlia minore, che aveva bisogno di un set di bagnoschiuma per il suo viaggio a Londra.

Alle rimostranze del tipo sulla necessità di 100 euro per farsi uno shampoo, la ex moglie ha replicato “Però per QUELLA li spendi i soldi”.

Al che la mia collega, che era presente mentre lui riceveva questi messaggi, gli ha sottratto il telefono dalla mano per registrare questo vocale:

– Senti bella, io la mia roba me la compro da sola. Ma se hai bisogno, te lo vado a comprare io il bagnoschiuma, pezzente.

E niente, immagino che il Natale sia sempre un bel momento.

In tutto questo mi chiedevo: ok, ma perché devo conoscere io queste cose?

Un altro aneddoto curioso è quando mi ha raccontato di una sua amica con cui è impossibile andare in vacanza perché, essendo fanatica dell’igiene, passa un sacco di tempo in bagno a lavarsi, come mezz’ora per un bidet.

– Alessà’, quello un buco è, che tieni da lavare?!
Le ha urlato una volta.

Al che, per elevare la discussione, ho detto che non avrà più difese, distruggendosi la flora batterica a forza di lavaggi continui.

– Infatti si becca sempre la candida. Ci credo, sta un’ora a lavarsi la fessa.

Cioè diciamo che pure io che do corda alle conversazioni poi me la vado a cercare.

Non è che vai all’ufficio oggetti smarriti se perdi la faccia

Avevo raccontato dei miei tentativi di approccio alla stampante della sede. Ieri ho fatto una scoperta. Se volessi stampare un’intera collezione di numeri di Playboy in alta risoluzione, scaricati sul pc, non ci sarebbero problemi.

Se invece volessi fare una scansione di un documento avrei bisogno di un badge speciale con un permesso speciale che si ottiene con una richiesta. Immagino speciale anch’essa.

Non mi spiego la ritrosia di una collega a sbloccarmi la stampante col suo badge: «No non vorrei che poi si chiedessero perché Clarabella Cavezza ha visionato questi documenti». Una scansione di una fattura per aghi e provette inviata alla mia mail. Sì, qualcuno indagherà di certo su questo che sembra il tuo collegamento con dei loschi affari che sto gestendo.

Non mi spiego tutto ciò se non col fatto che qualcosa di increscioso deve essere successo. Secondo me qualcuno dev’essersi fotocopiato le chiappe e quando il megadirettore o qualche alto papavero (si sa che i papaveri son alti alti alti) è passato in visita si è trovato il corridoio tappezzato di culi. Sarà sicuramente andata così.

Che poi, magari poteva essere un contributo alla ricerca. Sull’importanza del culo. Non vorrei sembrare monotematico, visto che l’altra volta parlavo di quello di Scarlett Johansson; questa volta rassicuro non c’è niente di libidinoso o di pecoreccio di cui parlare. Più che altro, mi soffermerei sulle importanti funzioni che svolge.

Ad esempio, come ci siederemmo senza culo? Come atterreremmo quando cadiamo o scivoliamo? E, soprattutto, come farebbero alcune persone ad avere una faccia, senza un culo che ne dia le fattezze?

Penso ad esempio ai buoni samaritani. Quelli che ti avvicinano col proposito di darti buoni consigli (sentendosi come Gesù nel Tempio, cantava il cantore), in maniera alquanto impicciona e invadente su cose private tue o della tua famiglia, precisando però che

– È solo un consiglio
– Lo dico per te
– È solo così per parlare

Il più delle volte si tratta di persone che conosci appena o che forse non conosci affatto. Ma loro conoscono te e tutti quelli come te che a loro dire vanno educati, guidati, consigliati, ravanati nelle parti intime con un Moulinex fatto di buoni propositi.

In genere poi si tratta di persone che questi suggerimenti li forniscono in maniera abbastanza passivo-aggressiva, che non tollerano che, al contrario, qualcuno si intrometta nella loro vita e che, in certi casi, non sarebbero manco un modello di buoni sentimenti.

Pensate allora se non esistesse il culo come faremmo a riconoscerli in faccia!

Non è che un tipo è riservato perché prenotato da qualcuno

Alla Sgranocchia&Sottrai Inc. abbiamo una stampante con sensore di rilevamento presenza. Se ti avvicini, lei si attiva.

Non ero ancora avvezzo a una simile modernità – ho frequentato posti dove il modello più evoluto funzionava a caratteri mobili di piombo – e la prima volta che vi sono passato accanto pensavo di aver toccato qualcosa per sbaglio. Quindi, come mio solito fare quando penso di aver combinato un guaio, ho sbattuto gli occhi da un lato all’altro per controllare che nessuno mi avesse visto e mi sono dileguato.

Ogni volta che percorro il corridoio finisco per attivarla, perché tendo sempre a stringere troppo l’angolo – mi piace imitare Valentino Rossi che nel GP di Catalunya 2009 sorpassa Lorenzo all’ultima curva rimanendo cucito al cordolo – e passarvi vicino.

Ora, sarà la suggestione, ma ho come l’impressione che quel crrr crrr di attivazione che la stampante fa sia in qualche modo modulato, ogni volta. Mi sembra di intendere che da parte dello strumento tecnologico ci sia qualche tentativo di comunicazione attraverso gli scricchiolii delle sue rotelle. Oggi ho risposto con un crrr crrrr e mi è parso che ci si è in qualche modo intesi.

Forse sarà un po’ la suggestione, dicevo, perché oltre la mia collega di ufficio non ho altri con cui parlare. Nelle altre stanze sono presenti solo ricercatori, che tendono a restare un po’ sulle loro.

I ricercatori li riconosci dalla cifosi del collo, probabilmente dovuta all’ingobbimento da microscopio. Non sono nemmeno trentenni e hanno le vertebre di un 80enne.

I primi giorni la loro riservatezza tendevo a confonderla per spocchia. Poi mi sono reso conto che è l’isolamento del laboratorio a renderli un po’ così. Insomma, non credo che si possa sviluppare molta socialità stando a fissare una gametogenesi per 8 ore di fila, per dire.

Allora ho iniziato, ogni volta che ne incrocio uno, a salutare con un radioso Ciao! e osservare compiaciuto il remissivo imbarazzato Ciao di risposta che ricevo. Penso che poco a poco potrebbero abituarsi alla mia presenza. Più in là magari potrei tentare mettendo del cibo sulla mano per vedere se uno di loro si avvicina.

Sennò mi resta sempre la stampante.


Per questo post sono stati utilizzati solo ricercatori provenienti da allevamenti selezionati.

La stampante è un’attrice professionista.


 

Non è che i sub vadano sempre a fondo delle cose

Ci sono diverse cose di cui mi vergogno.

Una di queste l’avevo dimenticata. Ho paura della profondità. Mi ero abituato a nuotare in piscine profonde al massimo 3 metri e mezzo; questa sera, nuova casa nuovo quartiere, decido di inaugurare un nuovo impianto, spavaldo come un bracconiere.

Quando nuotando ho visto lo strapiombo in cui degradava la vasca mi è venuta ansia. Che poi saranno stati 5 metri ma laggiù, in quella fossa oceanica, ho visto con un sorriso sardonico quel bambino spaventato dai fondali che ero che mi stava aspettando proprio lì da diversi lustri.

Un’altra cosa di cui mi vergogno è dire che non ce la faccio. Mi sembra sempre il momento meno opportuno. Mi sembra che uno lo voglia fare per riportare l’attenzione su di sé. Mi sembra di sottrarsi alle responsabilità. Mi sembra che se poi anche gli altri non ce la fanno allora si contribuisce ad abbassare ancor di più il morale.

Delle volte non mi sembra niente perché non ce la faccio neanche a figurarmelo.

So solo che ci sono delle volte come in questi giorni che non ce la faccio. Parlavo settimana scorsa con una collega, mentre bevevamo una cosa come commiato perché ho terminato al lavoro – per la cronaca poi il giorno dopo la Capa mi ha chiesto di restare un altro mese. La collega mi ha chiesto se avessi mai pensato a fare terapia, come sta facendo lei che sta seguendo un percorso.

Io non voglio pagare qualcuno per dire che non ce la faccio e poi ritrovarmi a metà mese ad aggiungere alla lista di cose che Non ce la faccio anche Non ce la faccio a permettermi questo perché ora tra le varie spese sto pagando una psicoterapeuta.

D’altro canto è necessario andare a fondo delle cose per venirne fuori. E varrebbe sia in senso fisico come per la prima parte del post che metaforico come per la seconda.

Ma se poi non si riemerge più?

Non è che l’educazione sessuale consista nel ringraziare dopo un rapporto

ATTENZIONE: QUESTO POST NON HA ALCUNA FINALITÀ EDUCATIVA E PERTANTO L’AUTORE SI AUTOESONERA DA POSSIBILI DANNI DERIVANTI DALL’USO DI QUANTO SEGUE


L’altro giorno passa in ufficio un collega che, senza gli avessimo chiesto niente, ci inizia a parlare dei cavoli suoi. Tra le varie cose, ha espresso la propria preoccupazione per il dover affrontare col figlio 13enne alcuni discorsi seri: il sesso, in primo luogo, e, poi, dato che l’anno prossimo andrà al liceo, la droga.

Già qui secondo me sta partendo col piede sbagliato. Per me dovrebbe iniziare prima con la droga e poi col sesso: la prima aiuta a fare il secondo.

La preoccupazione di un genitore è comprensibile: c’è tanto bombardamento di informazioni e contemporaneamente tanta disinformazione che è difficile tenere un figlio lontano da messaggi fuorvianti.

Prendiamo l’ultimo “click award”:


Il click award è una non-notizia che fa scalpore e vince il premio di più cliccata del giorno


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Tante risate e ironia su questa notizia diffusa da varie testate e siti. Un giovane che messaggio ne coglierà? Che il sesso ascellare fa ridere.

Un genitore savio dovrebbe invece insegnare al figlio che il sesso ascellare è più pratico, pulito, sicuro e anticoncezionale. E magari si può provare dopo aver strofinato una pietra di hashish sulla medesima ascella (giacché anche la droga ascellare dovrebbe essere una pratica posta all’attenzione).

Tornando al mio collega, lui sosteneva che non sapendo come introdurre certi argomenti, pensava di parlarne dopo aver visto un film. Ad esempio, citava Noi, i ragazzi dello Zoo di Berlino come uno spunto per parlare delle droghe.

E per il sesso come si fa? Beh, io direi che la pornografia ci ha sempre fornito i migliori spunti e non capisco perché nel 2020 ancora non venga presa seriamente in considerazione per finalità educative, quantomeno dai poteri forti perché noialtri già ne conosciamo il potenziale didattico.

Io ad esempio dai porno ho appreso varie avvertenze e indicazioni:

  • I PERICOLI DEL MESTIERE: Fare il ragazzo delle consegne è un mestiere difficilissimo; ti capita sempre di venir trascinato dentro casa da una donna seminuda che ti porta ad avere del sesso con lei mentre tu hai ancora il tuo giro da terminare. Anche i giardinieri e gli idraulici non se la passano benissimo.
  • SII COOL: I letti sono per gli sfigati. Si fa sesso in qualsiasi luogo della casa, soprattutto le cucine, purché non su un morbido materasso come dei pappamolla
  • LE PERSONE SONO GENEROSE: Se c’è più di una donna nella stessa stanza vuol dire che sono lesbiche. Se ci sei anche tu nella stanza però loro decideranno di condividere con te del sesso
  • RISPETTA IL TEMPO: Le persone che fanno sesso hanno sempre orgasmi simultanei
  • PRENDITI LE TUE RESPONSABILITÀ: Prestare aiuto a una donna più adulta comporterà alla fine del sesso, sappilo
  • RISPETTA LA PRIVACY: Non spiare mai una donna mentre si cambia perché poi pretenderà del sesso da te come punizione
  • LE SUOCERE SONO INVADENTI: La madre della tua ragazza ti imporrà del sesso, prima o poi, non appena ti ritroverai da solo con lei. E delle volte anche mentre c’è la tua ragazza
  • SII PAZIENTE: Ci sono molte più persone di quanto tu creda che hanno problemi di memoria a breve termine e che hanno costante necessità che tu ricordi loro quello che devono fare, ripetendo di continuo imperativi come f*ck, s*ck e così via
  • INCLUSIVITÀ: Non importa chi tu sia o da dove tu venga. Il pornosesso accoglie tutti.

Cosa meglio di un porno può quindi prendersi cura dell’educazione sessuale dei nostri giovani?

Non è che per lo spacciatore non contino i fatti

C’è un’amica che lavora in una società che si occupa, tra l’altro, di cose di marketing&comunicazione. Prendono anche commesse da altre aziende, che affidano loro lo sviluppo di soluzioni creative per il loro business.

Capita venga anche affidato loro del servizio clienti non telefonico, quello insomma gestito tramite social e/o email.

Mi raccontava l’amica che il suo collega che gestiva queste funzioni era un tipo strano. Sembrava vivere l’ufficio in stato di isolamento dagli stimoli esterni: sprofondato per ore sulla sedia, con gli occhi sbarrati, si metteva lì a fare ticchiti ticchiti al computer come un automa rispondendo ai clienti di una grossa azienda che chiedevano informazioni o facevano reclami.

L’unico segno di un’attività cosciente era dato dal suo sbocconcellare, di tanto in tanto, un dolcetto che si portava da casa in un tupperware.

Un giorno la mia amica scoprì che quel dolcetto era fatto con l’hashish.

Il tale quindi non era una macchina da lavoro come un giapponese. Era semplicemente fatto come i Jefferson Airplane a Woodstock.

La prossima volta che vi interfacciate con un servizio clienti immaginate quindi che dall’altro lato potrebbe esserci un tipo allucinato che magari pensa di parlare con un unicorno spaziale.

Non è che gli infermieri si lavino con l’Anitra WC perché sono dei sanitari

Esco dal bagno che affaccia proprio sulla zona dei distributori. Un collega sta parlando con una nuova arrivata. Io non mi ero ancora presentato con lei e allora, cordiale, esordisco con un “Ah tu sei…scusami non mi ero ancora presentato…Sono Gintoki”. E le porgo la mano.

Mentre gliela sto porgendo mi rendo conto che sono appena uscito dal bagno (avevo ovviamente lavato le mani) ma ormai è troppo tardi per tirarmi indietro e, inoltre, mi chiedevo cosa sarebbe stato meglio: presentarsi senza porgere la mano, sembrando freddo, oppure farlo lo stesso nonostante stessi appena uscendo dal bagno?

Io ho un’idiosincrasia verso chi porge le mani o tocca gli altri appena uscito dal bagno, seppur le suddette sono state lavate per bene.


Sul fatto che le persone le lavino per bene ho però i miei dubbi.


Il mio dubbio però è: dopo quanto tempo cade in prescrizione il fatto che quelle mani hanno toccato sanitari e parti intime? Quando una mano può dirsi effettivamente ripulita dall’idea di aver frequentato il bagno e può passare a toccare gli altri?

Non ne sono venuto a capo.

Forse prima di venire a contatto con gli altri bisognerebbe toccare qualcos’altro, un oggetto ad esempio, per “riverginare” la mano.

Ciò però comporta un altro dubbio: che in giro ci siano oggetti che, per trasferimento (bagno->mano->oggetto), sono quindi venuti a contatto con le parti intime delle persone. E se moltiplichiamo su larga tutto questo, dobbiamo dedurre che la realtà che ci circonda è stata tutta, indirettamente, a contatto con i bagni e i genitali altrui!