Non è che puoi usare un compressore per gonfiarti i muscoli

Cerco di essere un pianificatore.
Per l’autunno ho in genere qualche attività nuova da iniziare, o un’impresa (personale) da intraprendere. Quest’anno, invece, mi sono fatto cogliere impreparato al rientro dalle vacanze. O, più probabile, non ho voluto pensare a qualcosa di nuovo.

Il lavoro resta uguale. Nel novembre scorso mi ero posto come obiettivo il cambiare azienda entro il termine del 2023. Mancano ancora 4 mesi, ma nei precedenti non è che io abbia avuto delle opportunità. Se ne va, intanto, un’altra persona dal mio reparto. È la terza in 6 mesi. Siamo ormai Dieci piccoli indiani.

Gli impegni sportivi sono i soliti. Il costo della piscina aumenta, la retribuzione di quelli che ci lavorano mi sembra di no. È quella che in economia si chiama legge dei rendimenti marginali: al crescere delle entrate della società il dipendente resta marginale.

Ieri alle 20 ero l’unico iscritto presente e inserviente e istruttore mi han lasciato da solo in vasca. Mentre nuotavo a un certo punto ho pensato che se mi fosse venuto un malore non ci sarebbe stato nessuno pronto a ripescarmi. Non era un pensiero d’ansia. Era più un “però dai che fine del cazzo” e poi ho pensato a qualche titolo sui giornali del tipo “Si poteva evitare”, “Tragedia annunciata”, e anche magari “Se nuoti da solo poi non ti lamentare che arrivano gli squali”.

Ho anche ripreso kickboxing, con la vecchia istruttrice in una nuova palestra addirittura fornita di spogliatoi. La sala attrezzi ho notato è frequentata solo da gente ipertrofica. Quindi mi chiedo: se arriva uno non ipertrofico non viene accettato, viene gonfiato in fretta oppure gli dicono Torna già gonfio?

Mi sono iscritto a un concorso ma più passa il tempo e meno mi interessa.

Mi sono iscritto alla DeeJay Ten (la corsa non competitiva organizzata dall’omonima radio), anche se ci ho provato ad allenarmi ma la corsa continua a non piacermi affatto.

Nella prossima vita voglio rinascere agenda. Di quelle però con delle vignette buffe a fondo pagina.

Non è che porti al fruttivendolo delle carte per chiedergli la pesca

Quando ero piccolo, la frutta primaverile-estiva era scadenziata grossomodo così:

– maggio: fragole-ciliegie
– giugno: albicocche. Duravano giusto due settimane. Le prime uscite però erano troppo dure, le ultime troppo morbide, in pratica avevi tre giorni per fare fuori la scorta di quelle mangiabili. Se saltavi un turno e poi qualche giorno dopo ne volevi mangiare una, ti attaccavi, ciccia, nisba, arrivederci all’anno successivo.
– luglio: pesche. Però quelle dure, se volevi la percoca gialla e profumata dovevi aspettare. Niente percoche però a fine agosto perché non avevano sapore.
– agosto: angurie. A casa mia si acquistava l’anguria quando arrivava un tipo col cassonato che si piazzava tra gli svincoli dell’autostrada e della statale a venderle a poche lire al kg. Quando lui arrivava, vuol dire era il periodo per comprarla.

Mi piaceva l’idea di una calendarizzazione. In generale, scadenziare permette a) di viversi un’attesa b) di godersi più intensamente il momento. L’estensione temporale dei momenti e la possibilità di poter scegliere quando fruirne – non essendo più soggetti, anche solo in maniera limitata, alla calendarizzazione – porta in qualche modo a viverli con meno intensità e/o attenzione, data la loro ripetibilità.

È un po’ come quando un mio amico, con l’arrivo della prima connessione veloce, si diede alla fruizione di contenuti piratati in rete. È vero che poté allargare la propria scelta grazie alla disponibilità enorme: dall’altro lato, il consumo eccessivo finì per privare di senso il godimento. Buttava un film a metà, un videogioco all’inizio o ascoltava un disco una volta soltanto per onor statistico.

Oppure è come quelli che ai buffet riempiono i piatti della qualunque perché tanto ce ne è in abbondanza (e gratis). Ancora mi duole una gomitata nel costato che mi diede una signora nel 2016 per farsi largo verso il tavolo, durante un evento. Chissà ai suoi tempi come era calendarizzata la frutta, se c’erano cibi disponibili tutto l’anno o meno. A giudicare dalla voracità con cui si gettò sul buffet, doveva aver vissuto una grande, pluriennale, carestia.

Non è che se bevi Coca Cola e poi fai dei versi ti ritieni poeta

Madre da quando ha iniziato a utilizzare Whatsapp ha sviluppato una modalità di scrittura dei messaggi direi a livello di haiku.


Chiariamo, gli haiku hanno una struttura fissa e definita e in realtà le frasi che scrive lei non rispondono a questo schema, diciamo che è una sua via interpretativa della poetica breve.


Ad esempio prendiamo questo messaggio di una settimana fa, che potremmo intitolare Siccità:

Da stamattina c’è acqua
fin ora non è andata via
Domani non sappiamo
speriamo bene.

In quest’opera si coglie tutta l’inquietudine dettata dalla crisi climatica in atto e le conseguenze sulla distribuzione idrica.

La questione climatica è tema ricorrente. Nel messaggio che segue sotto però l’incertezza non lascia spazio allo scoramento ma si apre, come reazione, a un momento bucolico dedicato alla contemplazione del verde:

Buon giorno
Tempo incerto.
Oggi passo per vedere le piante.

Un’altra questione di attualità trattata in un haiku è legata all’utilizzo esasperato degli smartphone e alla tendenza a non viversi più un momento perché bisogna affrettarsi a fotografarlo o registrarlo. Ho allora pensato di dare a questo messaggio proprio il titolo Presenza:

Video molto suggestivo.
Ma eravate lì

Parafrasi: il video è bello, ma voi siete sicuri di aver vissuto al di fuori di quel video? Eravate presenti lì e in quel momento? La domanda sospesa senza punto interrogativo fa eco come una voce in una stanza vuota. Un invito a riflettere.

C’è spazio anche per la psicologia: questo messaggio potremmo chiamarlo Rorschach:

Hanno la stessa macchia nera sul collo
Danno proprio un senso di tranquillità.

Infine chiuderei con un elogio della semplicità e della modestia, caratteristiche però in grado però di rivestire i gesti di una grande importanza:

Ho preparato dei sacchettini per i confetti
molto semplici
È il mio regalo.

Sto pensando di farne una raccolta di “poetica nell’era della messaggistica istantanea”.

Non è che l’atleta di arti marziali soffra i denti del ju-jitsu

Mi si è spezzato un pezzo di molare. Così, de botto, senza senso. Mi si è spezzato un pezzo di molare mentre masticavo un biscotto morbido bio vegan cereali e barbabietola. Che se lo dici in giro che mangi una cosa simile ti chiedono Ma perché? Ma è per scelta?. No, mi piace il sapore.

Ho mangiato pure una pizza fritta dolce ripiena di crema alla pastiera, solo che nessuno ti chiede Ma perché? se mangi una pizza fritta dolce ripiena di crema alla pastiera. Se invece gli parli di barbabietola e cereali vieni guardato come se parlassi di sbiancamento anale.

Ma sto divagando. Se ne è partito un pezzo di molare, ahilui. Ahimè ho avuto quindi il molare a terra. Vado dal dentista, che arriva nello studio tutto trafelato e mi dice non trova più le chiavi e quindi mi manda via. 5 minuti dopo mi richiama dicendo che le ha trovate. Non abbiamo iniziato benissimo.

Mi si è staccato un pezzo di molare perché, da sotto, una carie nascosta se l’era mangiato e lui a un certo punto è crollato perché si è sentito mancare la terra sotto i piedi. Mi è toccato fare un’otturazione.

I denti erano sempre stati la mia certezza. Non ho mai avuto un grande fisico, di quelli da copertina. Neanche da coperta, perché non sono freddoloso. Sono sempre stato magro, ma mai atletico. Storto, ingobbito, spalle curve. Le avevo tutte. Fossi almeno stato un trampoliere, invece: medio di statura. I denti invece erano una garanzia. Belli, dritti, sani: non ho mai dovuto portare apparecchi. Ho tutti e 4 i denti del giudizio spuntati senza problemi.

Il dentista che mi visitava da piccolo mi diceva sempre: Ha i denti del nonno. In effetti mio nonno non ha mai avuto problemi, se non negli ultimi anni di vita.

E dire che all’età di 3 anni circa mi ero spaccato incisivi e canini da latte cadendo di faccia dal divano. Voto 10 per il tuffo, -1 per il sorriso (che non ho avuto) fino a 6 anni.

Ecco perché ora veder messa in discussione la salute, la stabilità, l’immutabilità, l’immarcescenza della mia dentatura è una certezza che viene meno, come quell’amico che è sempre stato una sicurezza in termini di precisione e puntualità e poi un giorno arriva in ritardo e magari si è pure dimenticato una cosa importante e tu allora dici Ma quindi in questo mondo nulla è sicuro.

Una cosa resta ancora certa: che i dentisti hanno problemi nel fare le ricevute.

Non è che devi lavorare come corriere per rifilare pacchi

Oggi Capo Inutile (ovvero, capo senza veri poteri: comprenderete, quindi, che un capo senza poteri è inutile a sé stesso e anche agli altri), ha convocato una riunione dove, senza giri di parole, ha provato a rifilarci un pacco. Non in maniera subdola: l’operazione è palese che sia un pacco, lo dice lui, lo dicono tutti qui dentro, perché comporta tanto lavoro burocratico e poche certezze di buon esito perché si sta navigando a vista ma qui siamo ormai sotto il limite decente di diottrie e gli scogli sono tanti.

Il pacco – da adesso per dargli un nome lo definiremo Pacco Nazionale Raffazzonato Raccapricciante – era in gestione a una mia collega che però si è dimessa perché non ne poteva più.

Da quando sono qui – tre anni – diverse persone si sono dimesse. Siamo ormai ai 10 piccoli indiani: uno alla volta ci riduciamo.

Comunque, C.I. ha provato a sondare tra noi indiani superstiti se ci fosse chi volesse prendersi questo Pacco Nazionale Raffazzonato Raccapricciante dietro la promessa che, in futuro, la vittima, cioè il volontario, avrebbe probabilmente avuto un occhio di riguardo in occasione di una futura discussione sulla politica retributiva.

Praticamente un Pagherò.

Abbiamo rifiutato tuttə.

Riflettevo, però, che quello di chiedere un impegno immediato dietro vaghe e non precisate promesse di possibilità future è un modo di fare consueto.

È inevitabile far riferimento all’attualità e a chi ha chiesto sostegno a ogni tornata elettorale dietro la reiterata promessa futura di posti di lavoro e tagli di tasse: ma anche noi, nel nostro piccolo, viviamo elargendo al prossimo dei Poi vediamo!.

Io ho addirittura un mio adesivo Whatsapp con la mia faccia e la didascalia Poi vediamo, creato da me per auto-percularmi per questo atteggiamento.

Mi piacerebbe dar vita a un cambiamento, invece, passare al Adesso facciamo. Per rispetto di chi ha a che fare con noi e magari si smazza tanto o gli viene chiesto di smazzarsi tanto.

Devo solo decidere quando iniziare col cambiamento. Poi vediamo.

Non è che siccome suonano uguale “addetto vendita” e “ha detto vendita” siano la stessa cosa

Cerco di avere sempre la massima solidarietà verso chi lavora, soprattutto per coloro i quali non percepiscono stipendi eccezionali, magari anche sottopagati, faticosi e al contatto con il pubblico che, si sa, non è sempre la cosa più piacevole del mondo.

Ciò nonostante, le mia capacità di resistenza e di empatia a volte sono messe a dura prova dagli addetti vendita che hanno il costume di prendere d’assalto il cliente.

Sono conscio che certi atteggiamenti siano frutto di logiche e pressioni aziendali, che spingono per il vendere! fatturare! a ogni costo e che magari il povero dipendente ne farebbe volentieri a meno.

Però per tal motivo ci sono punti vendita in cui non entro mai e quella volta che ci entro mi ricordo perché non voglio mai entrarci. Su alcuni ho la croce nera da anni, ad esempio quello dove gli addetti vendita sono vestiti da arbitri.

L’altro giorno invece sono entrato, ed era più di un anno che non ci andavo (e poi ho ricordato il motivo), in un negozio di una nota catena di vendita console&videogiochi. Ero entrato per una console. Alla fine ne sono scappato e l’ho comprata nel negozio di elettrodomestici di fianco.

Sono stato preso d’assalto dalle due addette, che non mi hanno mai lasciato in pace proponendomi qualunque cosa. Sconti, offerte, tessere, promozioni. Quando ho preso il cellulare dalla tasca mi sono anche sentito proporre una custodia trasparente per sostituire quella che ho a libretto. “Così puoi goderti l’aspetto del tuo smartphone”, mi ha detto.

I famosi telefoni da contemplazione, immagino. Quante serate davanti al telefonetto mentre fuori piove e fa freddo!


È chiaro che si fa di tutto per vendere. Quando ho svolto volontariato per una onlus sui banchetti di fiori e uova le provavo tutte per avvicinare le persone. A un certo punto ho anche gridato, come slogan, rivolto a una coppia: Cioccolato? Migliora l’umore, fa bene all’amore!, facendo pubblicità ingannevole sulle presunte caratteristiche antidepressive e afrodisiache del cacao.

Per la cronaca: non si fermarono a comprare. Però hanno riso di gusto.


 

Non è che i Puffi siano azzurri perché del Napoli

Sono sempre stato per lo più uno sportivo da divano. Da adolescente mi limitavo alla partita di calcetto del sabato, appuntamento fisso per garantirsi di avere durante la settimana seguente un trauma contusivo/distorsivo di cui vantarsi. Anni dopo ho iniziato con la corsa ma non è mai stato un amore tra di noi. Era più un rapporto di convenienza: sto con te per tenermi impegnato.

Poi è arrivato il nuoto, poi la palestra. Attualmente mi divido tra nuoto e kickboxing e aspetto di riprendere, se la bella stagione finalmente arriva, corsa/ciclismo.

I veri ciclisti o i veri runner escono con qualsiasi condizione climatica. Ma qui subentra in me quel discorso di sportività da divano, dove ci si entusiasma per una Parigi-Roubaix sul pavé nel fango e nel letame di vacca o un Passo Pordoi al Giro d’Italia in mezzo alla neve ma non si imiterebbe mai una cosa del genere.

Lo sport davvero mi emoziona. A volte, quando voglio crogiolarmi in piacevole commozione positiva, rivedo il video di qualche impresa: un oro della Pellegrini, il mondiale di Zolder di Cipollini 2022, la 4×100 di atletica di Tokyo 2020 (che poi era 2021).

Siamo abituati, in genere, a differenziare tra sport più puri, onesti o nobili e il calcio; sia perché quest’ultimo è quello con più danaro e interessi economici, sia perché identifichiamo il calcio con una parte di suoi sostenitori: fanatici, violenti, xenofobi.

In realtà nessuno sport è immune dai mali della società. I peggiori disonesti, imbroglioni, scorretti si possono ritrovare tra gli atleti di qualsiasi disciplina. Tra l’altro non sono sicuro che alcuni atleti di altri sport sia delle persone migliori con cui avere a che fare rispetto a un calciatore. Alla fine sono tutti esseri umani, noi assistiamo ai loro sacrifici, alle loro sconfitte e alle loro vittorie, alle loro gioie e i loro pianti come fossero attori sul palco di una tragedia. Perché lo sport è una tragedia greca, attraverso gli atleti noi viviamo la nostra purificazione.

Indubbiamente almeno nella nostra società è il calcio il maggior veicolo di passioni e pulsioni: c’è chi nel difenderlo scomoda Pasolini, io lo lascerei comodo invece perché – poveretto – già troppo spesso viene chiamato in causa e mi chiedo, se fosse vivo oggi, quante persone realmente che lo tirano in ballo sarebbero sue fan.

Tra le passioni di massa il calcio resta (non so per quanto tempo) con le sue sacche di resistenza ancora un qualcosa di genuinamente viscerale, laddove altri sport danarosi e blasonati come il basket NBA o la F1 sono più che altro in gran parte uno spettacolo per ricchi annoiati.

È per questo che per me vedere lo scudetto del Napoli è assistere e partecipare a una grande comunanza di questa visceralità positiva, da anziani a bambini, ragazze e ragazzi, lì, insieme, gioiosi e felici della medesima cosa e che trovano un’identità e una dimensione diverse da quelle, divisive, create dai ruoli della vita quotidiana: famiglia, lavoro, scuola, eccetera.


Credo che sociologi diversi si siano dedicati ad analizzare questi fenomeni: lascio a Google o a ChatGPT trovare materiale esplicativo.


Ed è solo ed esclusivamente questo il senso da attribuire all’evento, laddove la retorica e chi la esprime vogliono infilarci discorsi sociali di riscatto: perché, chi ci ha sequestrati?

Tutto questo per dire che in mezzo a questo teatro di purificazione e autoaffermazione mi son commosso e ho pianto. Io sono qui, io sono con gli altri, noi siamo.


Restando sul discorso sociologico, tutto questo che viene percepito sia dai suoi partecipanti che dai suoi detrattori come una forma di esplosione ribelle (in positivo per chi festeggia, in negativo come caos dell’ordine quotidiano per chi la odia) è in realtà quanto di più conformista ci possa essere: viviamo in una società che da un lato reprime le nostre pulsioni, dall’altra, tramite l’utilizzo dei professionisti dello sport, ci permette di viverle con dosi di intrattenimento. Ma di qualcosa bisogna pur farsi.

E voi cosa volete?
Di che cosa vi fate?
Dov’è la vostra pena?
Qual’è il vostro problema?
Perchè vi batte il cuore?
Per chi vi batte il cuore?
Meglio un medicinale
O una storia infernale?
Meglio giornate inerti
O dei capelli verdi?


Non è che ti senti Dustin Hoffman

Alla fine, andoqque come doveria andare. A 12 anni di distanza dall’ultima, mi sono laureato di nuovo, per la terza volta (la seconda per quanto riguarda una laurea magistrale, specifico sempre). Questa volta in Scienze Storiche.


Che non sono delle scienze così famose da essere passate alla storia.


È stato molto bello. Soprattutto, credo di essermi goduto in misura maggiore la soddisfazione perché ho portato avanti lo studio per puro piacere. Non che all’epoca qualcuno mi avesse obbligato a iscrivermi all’università o non mi piacesse il percorso scelto. Però è diverso. Quando sei ancora fresco di liceo e ti iscrivi all’università si tratta di una cosa che svolgi come una sorta di dovere della tua vita, quantomeno per la vita che hai scelto. In questo caso, invece, nessuno mi correva dietro o di fianco per iniziare e concludere gli studi e un mio percorso di vita già ce l’ho.

È stata anche una bella soddisfazione esserci riuscito nei tempi: da settembre 2020 ad aprile 2023 non è poco, considerando che non ho più il tempo libero che avevo nel 2011.


Leggasi: ero molto più giovane e sfaccendato.


È strano ripensarmi 12 anni fa. Avevo tanto da fare e imparare: non che io adesso sia uno imparato, s’intende. Però diciamo che posso magari insegnare qualcosa al me stesso di quel tempo.

Non ho fatto alcune cose che volevo fare ma ho fatto alcune cose che non pensavo di fare.

Nel 2011 mi aggiravo nel mondo del lavoro mostrando entusiasmo per qualsiasi colloquio; Sì davvero sarei felicissimo di lavorare per la Sbiancamenti dentali e anali Inc., una azienda seria (non riceve visite dalla Finanza da almeno una settimana) dalla storia semestrale, era il mio sogno sin da bambino prima ancora che esisteste e ora potete realizzare il mio desiderio; stipendio? No non mi interessa, io sono qui per imparare e crescere, la crescita è importantissima per un giovane!.

Nel 2011 scrivevo per delle testate giornalistiche locali. Ovviamente gratis. Ma se volevi ti avrebbero fatto avere il tesserino!,  mitico riconoscimento. Bastava chiedere. E pagare.


Sorvoliamo su metodologie da reato penale.


Nel 2011 mi piacevano meno cose da mangiare rispetto a oggi.

Nel 2011 guardavo un sacco di anime e andavo alle fiere del settore.


Non che non mi piacerebbe andare oggi a qualche fiera: però ora che sono estese a un mondo fatto di meme e tendenze, comprensive di influencer, content creator, famolostrano inventor, mi trovo più rilassato ad andare direttamente in una libreria, fumetteria o museo del fumetto rispetto a sopportare di farmi largo tra folle che sono lì per il fenomeno virtuale del momento.


Nel 2011 volevo trasferirmi altrove ma, non so perché, avevo questa predilezione per le cittadine formate da 4 case in croce. Credo di aver risposto ad annunci dei posti più sperduti e dimenticati dall’ortodonzia. Probabile che io andassi alla ricerca di un certo isolamento. Non dovevo certo essere proprio un allegrone.
Alla fine in questi anni ho vissuto fuori ma in città un po’ più estese di 4 case: Roma, Budapest, Milano. Un brevissimo periodo anche Barcellona. Ed è stato molto meglio così.

Non so cosa farò nei prossimi 12 anni: non so manco cosa farò nei prossimi 12 mesi. Figuriamoci. Forse mi iscrivo a teatro. Forse farò un corso di cucina. Forse aprirò un bistrot e farò lo chef. Forse mi compro una Ducati. Forse riprendo gli studi di ingegneria aerospaziale interrotti a 19 anni. Forse prendiamo un gatto. Forse compriamo casa. Forse è presto per capirlo. Forse è tardi. Se fossi gatto, miao. Se fossi cane, bao. Se fossi tardi, ciao.

Non è che un agente segreto prenda i medicinali alla farma-CIA

Alcune considerazioni sparse.


Sulla seconda pagina della mia agenda ho scritto Al lavoro: ricordarsi sempre di tacere. Non ricordo perché la scrissi, ma è una cosa che funziona. Non è un invito a starsene silenziosi e remissivi come un ficus benjamin che in un angolo non si decide a seccare definitivamente, è uno schema di salvaguardia: di sé stessi, intendo. Bisogna stare attenti a quel che si dice, perché poi qualcun* (e c’è sempre) apparirà all’improvviso, sorprendendovi come un mal di pancia appena avete fatto il vostro ingresso in un luogo che non potete abbandonare immediatamente, dicendovi che quella volta avete detto che….Quindi, tacete.

Ho un caro amico che non ne può più dell’azienda dove lavora. Diciamo che è un rapporto che, dopo l’entusiasmo iniziale, non si è mai impostato benissimo per una serie di ragioni professionali. Cui va aggiunto il fatto che il mio amico non riesce proprio a farsene una ragione – ed è lì ormai da 3 anni – che i colleghi parlino in dialetto e bestemmino ogni tre per due. Per la cronaca: il mio amico sta in Veneto. Vorrei dirgli forse che si è trasferito nella regione meno adatta.

Ho un altro caro amico, del quale forse ho già parlato, che ha l’ansia per conto terzi. Quando lui non ha l’ansia per sé stesso – e ne ha solo che non lo ammette e non lo ammetterà mai -, ce l’ha nei confronti degli altri. Gli racconti che non si trovano librerie da IKEA perché sono esaurite in magazzino e tu ne stavi cercando due-tre per sistemare casa? Lui: «Ah e questo è un bel problema, e ora come fate? Come le trovate delle librerie?» Gli racconti che devi partire e prendere il treno? Lui: «Ah ma vedi bene se poi trovi traffico arrivi tardi perde il treno ma non ti conviene partire il giorno prima bla bla», e via così. Se uno non lo conoscesse penserebbe che voglia portare sfiga, in realtà è semplicemente naturale: a lui in automatico parte il pensiero che le cose andranno male o che un imprevisto possibile diventerà altamente reale. La mia filosofia di vita è lasciare che le persone, se non arrecano danno a sé stessi e/o al prossimo, si sentano libere di essere come siano, se si trovano bene a essere così. Quindi quando lui parte con i messaggi ANSIA faccio spallucce e dico «In qualche modo si risolverà». Anche se, delle volte, mi incazzo perché penso ma davvero ci si trova bene a stare così? Ma forse anche a me viene l’ansia ingiustificata.

Rimango sempre colpito quando in farmacia fanno lo sconto. È una cosa cui non mi ci abituo mai né che mi lascia contento: sarà che non è che in farmacia uno ci va come se entrasse in una pasticceria. Forse sono un ingrato.

La settimana scorsa invece ho pagato l’assicurazione dell’auto. Dopo una strisciata di POS che mi ha alleggerito di un bel po’ di denaro, me ne sono andato dall’agenzia salutando e ringraziando. Appena uscito in strada mi sono chiesto cosa mai avessi io da ringraziare visto il salasso subìto.

Venerdì ho la seduta di laurea. Sarà una bella liberazione. Intanto però dovrò cominciare a pensare in quale nuova attività io debba cimentarmi in futuro.

Non è che il Voodoo Chile sia una religione di un Paese sudamericano

Credo qualche post fa io avessi già parlato del non distruggere le convinzioni altrui; in particolare, mi riferivo alla convinzione di Padre su una bottiglia di vino che credeva gli avessi regalato io.

Oggi ho ripensato a questa cosa. Stavamo conversando riguardo Jimi Hendrix e lui mi ha parlato di un brano che il chitarrista ha composto con Curtis Knight: Ballad of Jimi del 1965, in cui uno dei due protagonisti del testo della canzone a un certo punto della storia muore. Five years, this he said, he’s not he’s just dead, recita il testo.

Jimi Hendrix in effetti è morto nel 1970: come tante storie leggendarie intorno al rock – questa forse è più di nicchia – anche questa ha circolato, sulla base dell’idea che la canzone abbia predetto la morte di Hendrix.

In realtà tutto ciò è falso: quella del 1965 è una demo e aveva un testo diverso che è stato cambiato in studio (inserendo la cosa dei cinque anni), con altri arrangiamenti, dopo la morte di Hendrix.

Padre non è tipo da credere alle leggende metropolitane, però in questo caso crede realmente che la canzone con la “predizione” sia del 1965 e trova pazzesca la coincidenza.

Conoscevo vagamente la storia, ho poi cercato informazioni appurando, per l’appunto, che non corrisponde al vero. Ma non dirò a mio padre come stanno le cose. Alla fine le storie che raccontiamo sono parte di noi, soprattutto se l’argomento ci interessa. Padre ad esempio è un grande appassionato di Jimi Hendrix.

Tutti noi conosciamo dei fattoidi, aneddoti o credenze che nella realtà sono diversi da come immaginiamo. Delle volte siamo consci della loro non veridicità, altre volte no. Ci sono fattoidi buoni o, per meglio dire, innocui, e altri che invece sarebbe il caso che si estinguessero.

Mi ricordo diversi anni fa ero convinto che nel Pantheon nonostante l’oculo non piovesse dentro, come fattoide appunto vuole. Raccontai questa cosa anche a una mia amica giapponese, che una volta venne in visita a Roma – credo fosse il 2013 – e mi chiese il favore di accompagnarla. Spero non abbia mai scoperto la verità. Oppure magari non gliene fregava niente ma le destò ammirazione la mia conoscenza.

Meglio fattoidi che fattoni, in questo caso.

Non è che ci sia cura per la rabbia

I balconi si stanno tingendo di azzurro anche qui in provincia, più lontano dal centro storico. Confesso che, pur essendo tifoso, lo trovo anche io un po’ eccessivo. Quantomeno aspetterei che fosse ufficiale, dovrebbe essere questione di un mese.

Però, d’altronde, se male non arreca a nessuno, quale è il problema?

Una volta sentii qualcuno (in realtà più di qualcuno) dire: con tutti i problemi che ci sono, che c’è da festeggiare?

In realtà io credo che proprio perché ci sono tutti questi problemi forse forse trovare qualcosa per cui entusiasmarsi non sia un male.

Sono questioni molto complesse. L’intrattenimento non può e non deve diventare un oppiaceo o peggio un bel fettone di prosciutto sugli occhi. Anche però l’esser negativi non può e non deve diventare una pillola da assume giornalmente con la quale avvelenarci il fegato per dover espiare una qualche forma di colpa che ci portiamo addosso, per non sentirci in difetto se per un giorno ce ne dimentichiamo.

Le persone stanno male. Ne sono sempre più convinto. E me ne accorgo, più che dai rimedi palliativi con cui si drogano, dalla rabbia che hanno e che esternano.

Oh, io non sono un monaco zen e non faccio eccezione. Vorrei poter sparare onde energetiche dalle mani. Però, ecco, c’è rabbia e rabbia. Pur dando per scontato che sia sempre sbagliata e che un corretto esercizio della forza non deve implicare per l’appunto l’azione rabbiosa, stabiliamo che esistono frangenti in cui sia non dico giustificata ma quantomeno comprensibile.

Ti bloccano il cancello con una sosta selvaggia mentre devi correre al pronto soccorso? Hai perfettamente ragione ad arrabbiarti.

È la rabbia indistinta, quella generalizzata, quella contro dei nemici astratti, che non trovo invece comprensibile.

È la rabbia per frustrazione, perché, pur vivendo in una società che ci permette di avere tante cose, facciamo spesso una vita di merda. Un lavoro di merda. Subiamo spese di merda.

Tutto ciò, però, mi dispiace ma non è colpa di chi festeggia uno scudetto in anticipo o dell’autorizzazione alla farina di insetti o della Sirenetta afroamericana. Certo, ognuno ha le proprie priorità e preoccupazioni: la mia sarebbe avere la certezza di godere tra 30-40 anni (visto che penso di essere giovane e di avere una discreta aspettativa di vita) ancora di acqua potabile. La paura di qualcun altro (che magari tra 30 anni manco ci sarà), oggi, è che magari “visto l’andazzo” (quale andazzo?), si troverà un giorno circondato da perbenismo senza poter essere più libero di dire ne*ro di merda. Sono scelte. Dovrebbe vincere l’acqua tutta la vita rispetto al razzismo, ma son scelte.

Non mi sento di arrabbiarmi con questa persona. Per lo meno non sempre, ci sono dei giorni in cui vorrei invece l’onda energetica di cui sopra. Mi sento però il più delle volte semplicemente di dire Mi dispiace.

Mi dispiace perché quelli come me, presunti progressisti, che si ammantano di un’aura di intellettualità dall’alto di un pene, sono in realtà individui sostanzialmente incapaci di esprimersi in modo assertivo. Colpevoli di aver lasciato che tante persone si arrabbiassero, magari perché qualcun altro – che assertivo manco è ma non gliene frega niente, punta sulla forza dell’urlato – gli aveva detto di farlo.

Cosa si può fare, ora? Non ne ho idea. Facciamo che per oggi vado a prendere dal fondo del cassetto la mia sciarpa azzurra e domani vedo.

Non è che ti serva un pugile per stendere i panni

Ieri ci siamo ritrovati una mutanda, alquanto striminzita (un tanghino direi), sul balcone, piovuta da uno stendipanni dei piani superiori. L’abbiamo gettata nei rifiuti.

Convenivamo che, avendo 3 piani sopra di noi, non volevamo girare di domenica mattina (ma anche fosse stato un lunedì) bussando alle porte per chiedere chi fosse la proprietaria o anche il proprietario (metti caso) perché l’antica mutanda andava portata in salvo. Può essere anche una situazione imbarazzante per chi apre la porta e si vede davanti uno con in mano il proprio tanghino. Magari alla gente non piace o è gelosa della propria privacy.

L’episodio, così in fretta liquidato, mi ha invece immerso in dei dubbi morali.

Pensavo, se la proprietaria (o il proprietario) nel raccogliere i panni ha notato la sparizione forse sarà ora ancor più in imbarazzo perché pensa che c’è qualcuno nel palazzo in possesso della sua mutanda.

Anche gettare il capo nei rifiuti, ripensandoci, forse non è stata una buona azione: va bene che non sembrava certo un capo costoso però magari ci teneva per un qualche motivo. Liberatevi dei tangheri ma non dei tanghini. E il dubbio di coscienza che mi viene è: se fosse stata una mutanda tipo de La Perla, che hanno un rapporto di inversa proporzionalità tra dimensione e prezzo, l’avrei gettata? Non credo.


No, in quel caso la mettevo in vendita su internet al doppio del valore fingendomi una modella.


Quindi la discriminante è il valore del capo? Un maglioncino a collo alto sì, una mutanda no? Siamo diventati così materiali? Che tempi, signora.

La soluzione agli inconvenienti sarebbe, secondo me, che in un condominio venisse posizionata una scatola degli oggetti smarriti. Uno va, di notte magari, con impermeabile e cappello, a depositare l’oggetto o il capo rinvenuto. Chi ha smarrito qualcosa passerà, sempre con aspetto travisato, a controllare che, metti caso, qualcuno non abbia trovato ciò che ha perso. Mi sembra molto più discreto e per niente inquietante.

In ogni caso, tenetevi stretti le vostre mutande.