Non è che per forza sei in un magazzino se stai in mezzo alle scatole

Questa che racconto è la parabola del farsi i fatti propri. Detta anche del creare tempeste in bicchieri d’acqua.

Poniamo, per semplificare, che per il mio lavoro mi abbiano dato in gestione una scatola. Questa scatola è stata confezionata da una persona, addetta all’ufficio confezionamento scatole. Il mio compito è sorvegliare e gestire la scatola, che materialmente serve per lavorare a una persona, che chiameremo, per comodità, Piercarolamba.

Il problema è che Piercarolamba al momento non potrebbe utilizzare Scatola, perché ne ha già una che la impegna sino all’anno prossimo. E Piercarolamba può giocare solo con una scatola per volta: sono le regole.


Ci sarebbero in verità altre sottoregole, che prevedono di poter frazionare il proprio tempo e avere più scatole con cui giocare. Però Piercarolamba non ha sbloccato questo privilegio e quindi deve tenersi una scatola per volta.


Eh però intanto Scatola è stata confezionata, ormai. Sta qua.

Il problema, comunque, non mi riguarda. Ripeto, il mio compito è buttare un occhio a Scatola ogni tanto e verificare che non la rompano o che non ci mettano dentro cose che non vanno e che i soldini di cioccolato che stanno dentro Scatola vengano spesi in modo accorto e pertinente.


Sì, le scatole sono piene di soldini di cioccolato ma solo per chi è stato bravo.


Parlando l’altro giorno con la mia Responsabile, che chiameremo per finalità narrative Apprensina, mi sono lasciato sfuggire questa cosa. In realtà è stata una rivelazione molto estemporanea, sulla quale stavo sorvolando, roba del tipo «E poi abbiamo la nuova Scatola di Piercarolamba che al momento sta giocando già con una scatola, però va be’, ti ho già parlato delle mie vacanze?».

Apprensina è andata in apprensione. E come si fa, e come non si fa, questo non è irregolare però non è moralmente accettabile, adesso dobbiamo capire come si può agire, se qualcuno viene a chiedere, provo a informarmi, eccetera.

Io, sempre perché non mi faccio i fatti miei, provo allora a chiedere all’addetta del confezionamento (da qui in poi: Scatolicchia) se, all’epoca della fabbricazione di Scatola, si fossero posti il problema di una sovrapposizione di scatole.

«Sì sì ricordo fosse emerso il problema…ne parlai anche a Esausta, però non mi ricordo cosa mi disse». Non mi è stata molto utile, diciamocelo.

Allora, essendo io sempre uno che non si fa i fatti propri, provo anche a sentire Esausta (che, per capirci, è la responsabile dei responsabili come Apprensina).

Esausta non ricorda per niente cosa si sono dette lei e Scatolicchia.

A quel punto torno da Apprensina e le dico che nessuno sa niente di niente e che ormai il fatto è questo. Lei allora dice che prova a capire, a studiare, a informarsi, eccetera.

Oggi torna da me dicendo «Va be’, ormai il fatto è questo (ma va?), teniamocelo così e facciamo spallucce».

Fine della parabola.

Questa storia ci insegna che la verità è una gran bella cosa – e io su questo ho un senso di giustizia molto elevato, per me anche una sciocchezza taciuta equivale a esser dei bugiardi – ma certe volte è meglio chiudere tutti e due gli occhi e dire che non c’eri e se c’eri dormivi.

Non è che puoi menare il can per l’aia: al massimo potrà dire “bau”

Oggi mi hanno raccontato una delle storie più divertenti e interessanti che ho ascoltato nell’ultimo anno. È un fatto vero, o almeno il tizio che me l’ha raccontata così dice: non so se sia tutto reale, mi piace comunque pensare che lo sia. Non mi sento, purtroppo, di riportarla integralmente qui perché sarebbe uno spunto interessante per scriverci un racconto e non vorrei quindi rovinare la storia all’amico, diffondendola in rete. Basti sapere, per farne capire il livello di interesse, che ci sono: una blatta (soprannominata Gregory), un cocktail con degli orsetti gommosi dedicato a un tizio che si è urinato addosso, pompieri che irrompono in casa e pensano a un sequestro, Carabinieri che irrompono in casa (chiamati per il sequestro), uno zio che sviene e tante altre cose ancora. Se non è questo materiale di qualità per un racconto, che altro, dico io: pensate che con del materiale di sterco sono riusciti a fare ben 5 stagioni della Casa di Carta!


Attenzione: questa affermazione potrebbe urtare la sensibilità dei fan della Casa di Carta.


E tutto ciò è avvenuto al tizio nell’arco di una serata/nottata.

Il mio agosto in ferie non è stato così movimentato e particolare come la storia di cui sopra: posso al massimo segnalare un cinghiale che di notte ha attraversato la strada davanti l’auto, per dire. Diciamo che l’eccezionalità dell’evento sta nell’averlo incontrato in un paesino di montagna: oggigiorno i cinghiali li trovi in spiaggia, in centro città, sembra che alla fine nei boschi non ci viva più nessuno.

Sempre in tema di animali, un cane durante le vacanze mi ha aggredito tentando di mordermi. Era uno di quei cosi grandi come un topo ma rabbiosi, ringhiosi e rancorosi come Vittorio Sgarbi. Avrei potuto calciarlo in touche in stile rugby o provare un tiraggiro come Insigne, solo che poi avrei dovuto vedermela con la padrona. Padrona che, per giustificarsi, ha detto che purtroppo il cane da quando sono entrati i ladri in casa ha paura quando vede estranei.

Ho capito, ma io cosa c’entro coi ladri?

Mi ricorda la tizia che una volta incrociai in un sentiero tra i boschi di Monfalcone: andava a spasso con dei cani, sciolti. Io stavo per fatti miei e camminavo usando un bastone come rinforzo. I cani mi vedono e mi inseguono e provano ad addentarmi i polpacci. La padrona non batte ciglio e mi fa: “Eh hanno paura del bastone”.

Ah, chiedo scusa: guardi cosa faccio, per punirmi ora me lo infilo nello sfintere, così da farlo sparire e chetare i suoi botoli.

Non ho problemi coi cani; non nascondo che non è che mi facciano impazzire – a parte i cagnoni giocosi e un po’ tontini in stile Mr Peanutbutter – e la mia attenzione per loro è la stessa che potrei avere per un Potamocero (un parente africano di maiali e cinghiali): ok, interessante, ma poi il mio interesse scema e mi guardo in giro a cercare dei gattini.

Il mio problema sono i padroni. I padroni, quelli sì, sono proprio delle belle rotture.

In vacanza sulle spiagge ho potuto ammirare anche diversi tatuaggi interessanti, da un punto di vista antropologico: credo esista una categoria – forse è un fetish – che definirei “Padri Pii brutti”.

Sempre in spiaggia ho potuto ascoltare un tizio che dispensava la sua conoscenza a un gruppo di persone; in sintesi lui affermava:
– siamo delle cavie per i vaccini;
– i vaccini ci modificano il DNA;
– e comunque ricordiamoci che se non fosse stato per Trump non saremmo riusciti ad avere i vaccini.

Mi ha lasciato parecchio confuso su quale fosse quindi il suo orientamento in merito. Poi mi sono immerso in acqua per cercare sollievo da questi discorsi calpestando dei ricci.

Poi ci sarebbe altro ancora da raccontare ma il post rischia di diventare una proiezione di diapositive delle vacanze. Quindi chiudo bruscamente mettendo un’immagine che sento mi rappresenta molto.

(Nota: trattasi di una linea abbandonata-don’t try this at your linea di metropolitana)

Non è che la Befana faccia solo esempi calzanti

Sono sceso di casa passeggiando verso la Darsena per vedere i giochi d’acqua e luci che hanno accompagnato le Feste in zona Navigli. Non avevo ancora assistito allo show e oggi era l’ultimo giorno.

C’è un episodio dei Simpson in cui Bart si accorge che l’estate sta finendo e corre per portare a compimento una serie di cose che aveva nella sua lista di cose da fare durante le vacanze. Io non ho corso per niente e questa è stata l’unica cosa che ho fatto quest’oggi, ma la sensazione che ho avuto è stata quella di dover completare qualcosa per chiudere questo periodo, prima che l’Epifania cominciasse a sparecchiare e mettere le sedie sui tavoli per far capire che è ora di dir basta a bagordi e trastulli.

Non so se durante le Feste ho realmente fatto tutto ciò che dovevo fare.

In realtà ho sempre una sensazione di incompiutezza in corso che si estrinseca in ogni aspetto della mia vita. Anche se porto a termine qualcosa, sarà sempre stiracchiata per coprire dei buchi.

Per modo di agire quello che faccio non è mai completo ma è come se uscisse con un difetto di fabbrica.

Ormai è così un’abitudine avere dei tasselli mancanti che potrei dire che è un segno d’autore che contraddistingue l’opera finale: è garantito che quel che produco è completo al 90%. Tutto io resto è firma.

Potrei cominciare a vendere degli originali incompiuti Gintoki.

 

Non è che se ti ritiri da solo a Foligno tu sia umbratile

Le settimana scorsa ero a Perugia per l’Umbria Jazz, concerto dei King Crimson. Combinazione, negli stessi giorni degli amici umbri dei miei erano a Napoli.

Ritornando da giri vari nelle terre umbre, in luoghi in cui ho trascorso per anni le vacanze da ragazzino, mi sono chiesto come sia l’impatto per chi, originario di luoghi come questi, aerosi e statici e acusticamente ovattati, si trova di fronte la chiassosa e confusa realtà partenopea.

Il mio pensiero è che per me sarebbe uno shock. Già a volte in genere ne ho uno quando ritorno da luoghi ameni, in cui mi sono mentalmente sintonizzato sull’equilibrio acustico e urbano dell’ambiente, dopo pochi giorni di assenza da casa. Chissà allora come potrebbe essere per chi ci è sempre vissuto in tali luoghi ameni e si confronta con una realtà totalmente opposta la sua.

D’altro canto sento dire che la vivacità di Napoli è in fondo ciò che la rende fascinosa. Comprendo che in fondo trattasi di una sorta di attrazione per l’esotico e inusitato, laddove per chi ci vive non è altri che la banale normalità.

Il turista nativo di luoghi ameni si giovi allora di queste pillole sulla realtà napoletana che fornisco di seguito, senza anticipare troppo ma per renderlo comunque più coinvolto e consapevole di quel che si troverà di fronte.

Innanzitutto si sappia che molte donne dei quartieri di Napoli a partire dalla pubertà sviluppano l’enfisema vulgaris, altresì dicasi voce sfiatata, ovvero una voce roca e gutturale degna di uno che ha passato la serata a cantare in una cover band di un gruppo brutal metal. L’enfisema vulgaris è permanente, ma ciò non impedisce al soggetto di urlare di continuo le proprie comunicazioni per strada o dal balcone.

L’urlofono è l’immediato mezzo di comunicazione nelle strade, più pratico del telefono e più efficace di un intimo giudiziario.

Per attraversare la strada si fa come i gatti. Ci si lancia tra le auto correndo velocemente verso il lato opposto.

I parcheggiatori chiedono sempre qualcosa a piacere. È sottinteso che però deve trattarsi del piacere suo.

Prestando attenzione alle voci di strada, si noterà che una frase ogni tre è un’imprecazione alla Madonna.


Le restanti due frasi sono discorsi sul calcio.


È ormai diventato un luogo comune banale quello della famiglia intera sul motorino, padre alla guida, madre e figli piccoli dietro. Oggigiorno è il figlio piccolo a guidare e il resto della famiglia dietro.

Se il cibo non ha almeno una di queste caratteristiche, grasso, frittura, sugo, vi trovate in un’altra città e questa lista non fa per voi.

Il babà, la pizza, la sfogliatella. Prodotti tipici che in qualsiasi luogo andrete a mangiare ci sarà qualcuno che, sentendo ciò, dirà che state sbagliando perché il vero babà, la vera pizza, la vera sfogliatella si mangia solo da…


Saluto Foligno e la sua servizievole accoglienza:


Non è che ai Triestini non gliene freghi un Carso

Mi sono ritagliato 6 giorni – è stato molto difficile, ci vogliono forbici grandi – zaino in spalla itinerando tra Friuli e Veneto. Non è stato molto difficile, visto che sono in vacanza fino al 1° settembre quando poi inizierò a fare altro, ma non è di questo che voglio parlare. E non voglio parlare neanche delle mie vacanze, ma di quella volta che a Trieste ho intervistato una galleria perché non avevo altro da fare.

Trieste, Galleria di Montuzza o della Fornace o Sandrinelli, olio su smartphone.

Gintoki: Buonasera.
Galleria: Buonasera a lei.
Gi: Come va?
Ga: Eh, ho un po’ di acciacchi…sa, l’età…ho la sindrome del tunnel carpale!
Gi: Come va il lavoro?
Ga: Sempre uguale…il solito tram tram. Un va’ e vieni continuo e gente che passa e non saluta neanche.
Gi: E i rapporti sociali?
Ga: Così così. Dicono che qualsiasi cosa mi riferiscano da una parte mi entri e dall’altra mi esca.
Gi: Posso chiederle come mai ha scelto questa professione?
Ga: Questioni di famiglia. Sa, mio padre e mio nonno erano del mestiere. Io invece volevo lavorare all’acquedotto, ma si sa come vanno le cose in Italia, se non conosci qualcuno nel settore non puoi far niente. Mio padre conosceva invece l’ingegnere a capo dei lavori sotto questo colle e quindi…
Gi: Scusi mi sta dicendo quindi che lei è raccomandata?
Ga: Macché raccomandazione, è stata una onesta transazione amichevole. L’ingegnere mi ha dato il lavoro e a lui io ho dato…il mio buco.
Gi: Ah. Preferisco non approfondire. Com’è la vita di voi gallerie? Vi sentite apprezzate per la vostra attività?
Ga: Insomma. A noi, scusi il termine, non ci incula nessuno. L’unico momento di notorietà l’abbiamo avuto quando Caparezza cantava Fuori dal tunnel. All’epoca stormi di imbecilli fuori le gallerie cantavano Siamo fuori dal tunnel-l-l-l-l. A quel tempo li odiavo – e non c’erano neanche i selfie e i social sennò sai che casino – ma oggi li rimpiango.
Gi: Cosa si potrebbe fare per rivalutare la vostra immagine?
Ga: Si potrebbe cominciare a non utilizzare espressioni discriminatorie. Per esempio, perché quando una persona è in un brutto periodo dice di trovarsi “in un tunnel senza via di uscita”? Non ha senso, se non c’è uscita non è un tunnel! È scorretto, qualcuno dovrebbe far qualcosa e lanciare questo messaggio!
Gi: A proposito di messaggi, ha lei qualcosa da dire ai giovani?
Ga: Sì: smettete di lanciar salami nelle gallerie per far battute sulle donne!
Gi: Lo trova sessista, non è vero?
Ga: Macché! È che sono vegana! Lanciate dei panetti di tofu, piuttosto!
Gi: Arrivederci.

Non è che per giocare a polo devi spegnere il riscaldamento

Il ritorno al lavoro dopo un periodo di ferie è un evento traumatico, in genere. È una sveglia del lunedì mattina moltiplicata in modo esponenziale.
È una cefalea pulsante.
È un programma televisivo pomeridiano dove una donna racconta di essersi ripresa da una sbronza dopo che le è apparso Paolo Brosio e il pubblico inquadrato si commuove e fa anche l’espressione di chi non si accorge di essere inquadrato.

Per me non è così.

Sono il tipo di individuo che, sin dai tempi delle scuole elementari, vive il rientro con positiva agitazione.

Nei giorni precedenti avverto tristezza per la fine delle vacanze, ma quando è il mattino del ritorno al dovere mi ritrovo invece piacevolmente ansioso di ricominciare, rivedere persone note con cui condividere esperienze, scoprire le novità che il nuovo inizio porta.

Tale fanciullesco entusiasmo si è poi ogni volta rivelato effimero. Durava il tempo necessario per tornare a odiare le persone note e le esperienze color marrone che le riguardavano. Senza considerare che le uniche novità che la vita offre si trovano al massimo nel volantino di un supermercato che deve liberarsi dalle eccedenze di magazzino spacciandole per nuove offerte.

Durante il periodo della scuola, il ritorno dopo le vacanze di Natale significava fare i conti con i termosifoni che non funzionavano a dovere, essendo stati spenti per due settimane. È ciò che sta accadendo anche in questi giorni in vari istituti lungo lo Stivale. È bello vedere una continuità storica tra le generazioni.

Quando ero a scuola io però nessuno mai ha sollevato polveroni per il fatto che in classe eravamo costretti a stare col cappotto.
Anche perché probabilmente visti i nostri edifici sarebbero stati polveroni di amianto e non era il caso quindi di sollevarli.

Alle elementari per esorcizzare il gelido periodo alcuni di noi inventarono “La Banda FBI”, con un arzigogolato collegamento logico.

Si sa che gli investigatori vanno in giro sempre in cappotto o impermeabile anche a Ferragosto. Tanto per loro poco cambia perché in qualsiasi periodo dell’anno c’è buio e/o pioggia e/o freddo. Ebbene, noi che indossavamo il giaccone in classe e nei corridoi eravamo quindi come dei detective.


È un po’ come dire che mettendosi una boccia di vetro in testa si è un astronauta. E solo ora realizzo che questa sarebbe stata un’idea più divertente di quella dei detective.


Domanda: ma se tutti indossano giacconi e cappotti cosa rendeva degni di appartenere “all’FBI” solo alcuni?

La simpatia.

Una delle regole non scritte del mondo infantile è che qualsiasi decisione viene presa democraticamente a simpatia. Se piaci sei dentro, se non piaci sei fuori. Insomma, le giurie popolari non le hanno inventate mica gli adulti.

E io piacevo o no?

Io a dire il vero sono sempre stato “un tipo” e quindi andava come capitava.
Alle volte ero dentro, altre volte ero fuori.

Ironia della sorte quando crescendo si è cominciato a parlare di ragazze mi sono sentito anche io, come tanti, dire “Sei simpatico, ma…” al che ho replicato “Allora se ti sto simpatico formiamo una banda!” ma lei mi ha guardato strano ed è fuggita.


Per la cronaca, fui “dentro” l’FBI, ma solo perché avevo un bel giaccone che aveva anche uno stemma sul petto all’altezza del cuore che sembrava tanto un distintivo. Ebbi quindi il dubbio che non fossi io quello simpatico alla banda, ma il mio giaccone, e provai un sentimento di rancorosa invidia.


 

Non è che a forza di smanettare diventi cieco

Stanotte ho sognato di trovarmi a Stoccolma o quantomeno avevo la sensazione di esserci.

In realtà ero in un ambiente chiuso che non aveva niente di Stoccolma, ma non essendo mai stato a Stoccolma non ho idea di come possa essere un tipico ambiente chiuso di quella città, quindi fino a prova contraria nel sogno io ero convinto di essere a Stoccolma.

So perché ho avuto questa sequenza onirica.
Nel pomeriggio avevo trovato un volo per la Svezia, Malmö per la precisione, a poco più di 40 euro. È anche a uno sputo da Copenaghen, volendo.

Non ho intenzione di andare in Svezia né in Danimarca, quantomeno a breve.
Tempo e denaro remano contro e quel poco che ho se ne andrà questo w/e perché devo rientrare in Terra Stantìa da venerdì a domenica.

A volte quindi faccio questo gioco di controllare voli su Skyscanner a tempo perso. Imposto la mia località di partenza e poi seleziono come destinazione Ovunque, per le date più convenienti.

Escono fuori risultati interessanti. Con 30/50 euro da qui a una settimana vai dall’altra parte dell’Europa. È bello pensare che puoi volare dove ti pare come se stessi prendendo un intercity Napoli – Roma. Sarebbe forse il caso di approfittarne per viaggiare prima che chiudano definitivamente tutte le frontiere alla libera circolazione o che decidano che portare la barba sia procurato allarme.

Programmare viaggi da non fare è come guardare vetrine di negozi in cui non entreresti. L’importante è non diventarne dipendenti.

Spero che il mio lavoro nei prossimi anni mi porti a espandere sempre più il mio raggio d’azione. Mentre i miei coetanei – o anche i più giovani – progettano viaggi di nozze, io ci vado a nozze col poter viaggiare.


NOTA AL POST CHE IN REALTÀ AVREBBE DOVUTO ESSERE IL VERO POST
Quando mi trovai a parlare di Skyscanner a due amici, raccontando di come mi ero programmato le vacanze, loro mi ascoltavano come se stessi rivelando un segreto di Fatima. E mi chiesero “Ma dove li trovi sempre tutti questi siti?”. “Su Google” è la risposta ovvia. A parte che certi portali sono abbastanza popolari, ma questo non lo dissi perché è come quando ascolti un nuovo gruppo e lo racconti a qualcuno e quello ti risponde “Wa, li ascoltavo tre mesi fa!”. E non è bello.

Io vado sempre in difficoltà di fronte domande simili perché sento di deludere le attese. Gli altri si aspettano che ci sia una momento fondativo, una data simbolo in cui io, novello Colombo (non il tenente), navigando in rete abbia scoperto il fantastico sito grazie a qualche straordinario artificio e una botta di culo.

Restano sempre delusi quando rispondo che semplicemente “li trovo” e li uso come se li avessi sempre usati, perché mi sembra un atto normale trovare altre cose su Google oltre a materiale anatomico/ginecologico per l’intrattenimento della solitudine maschile.
“Com’è che io non li trovo?” è la domanda successiva che mi pongono.

Come si suol dire, in un paese di ciechi chi ha un occhio fa il sindaco. Ci sono persone quindi poco pratiche di internet che pensano che io sia il Re di Smanettonia Informatica soltanto perché magari so svuotare una cache. Che io manco so se una cache si svuoti nell’indifferenziato se visiti siti misti o nell’umido se vai solo sui siti porno.

Il problema è che so appunto fare soltanto quello. La grande virtù dell’ignorante sapiente, però, come ho raccontato altre volte, è fingere di sapere tanto con poco. Quindi per non deludere più le persone che mi fanno domande, d’ora in avanti mi inventerò qualche risposta stravagante del tipo “Sono amico di quello che fabbrica l’internet, ogni tanto mi passa sottobanco qualche scarto di produzione”.


NOTA DELLA NOTA CHE AVREBBE DOVUTO RAPPRESENTARE IL POST
Sono stronzo e saccente ma il ruolo dell’ignorante sapiente lo esige.


Non è che la tua NVIDIA sia la mia GeForce

A volte la gente mi chiede perché io sogni a occhi aperti.
Che domanda.
Perché a occhi chiusi rischierei di andare a sbattere o inciampare.

Stavo riflettendo su ciò mentre passeggiavo, quando una farfalla bianca mi ha attraversato la strada davanti la faccia rischiando di finirmi in bocca, riportandomi alla realtà. Era una cavolata, un lepidottero tipico per la sua balordaggine.

È strano vedere in giro farfalle a novembre. Questo clima fa venire voglia di andare in vacanza. Fortuna che tra una decina di giorni vado a Utrecht, anche se credo sarà difficile trovare un clima adatto a girare come oggi in polo. Sarebbe più logico girare in golf, se non fosse cattivo periodo per la Volkswagen.

Ho perso le foto delle ultime vacanze. Pensavo di averle trasferite sul pc mesi fa, così ho formattato il cellulare tranquillamente.


Speravo di recuperarne un po’ le prestazioni visto che gli Android, forse sognando troppe pecore elettriche, tendono a impigrirsi col tempo.


Mi sono accorto dopo che non ne avevo mai fatto un backup. Ho notato la tendenza in me a sistemare le foto con sempre più maggior pigrizia, sino a non ordinarle affatto più. Una volta mi piaceva smanettarci su Photoshop, ora neanche questo. In quest’epoca in cui tutti scattano ma sono sempre più sedentari e magheggiano coi filtri ma non per fumare, sembra che applicarsi sulla fotografia sia un atteggiarsi a fotografo professionista. E mi dà fastidio essere giudicato un atteggiante.

È come se, giusto per divertimento, volessi cimentarmi in una rabona e qualcuno mi indicasse dicendo: guarda quello, ma chi si crede di essere, Cristiano Ronaldo?


Per i non addetti ai palloni: per rabona si intende colpire la palla incrociando il piede che la colpisce dietro al piede d’appoggio. Cioè, se siete destri, spostate il destro dietro il sinistro – che fa da perno – colpendo il pallone.

Se siete CR7 il gioco vi riesce. Se siete come me, vi autosgambettate.

CR7 che si sgambetta da solo.


 O forse sono io che esaspero l’effetto riflettore.


Per non addetti alle luci: per effetto riflettore si intende il sentirsi continuamente osservati e giudicati per le proprie azioni da parte delle persone estranee.


Com’è come non è, ho contattato la mia ex per chiederle se volesse gentilmente passarmi un po’ di foto perché mi dispiaceva averle perse. In particolare quelle del campo di concentramento di Mauthausen.

Sono due settimane che attendo, perché lei non sa zippare i file.

Ho sempre difficoltà a interagire con persone che non sanno usare le cose basilari di un PC, perché poi ciò genera l’equivoco che io sia invece un grande esperto. Una volta infatti io e lei litigammo perché non ricordo cosa volesse e io dissi di no perché non volevo correre il rischio di fare guai sul suo notebook nuovo.

È sempre difficile inoltre rapportarsi con l’ex.
Lo sa anche Superman, che con l’ex Luthor ha avuto il suo daffare.


Lex Luthor, nota nemesi di Superman.


Dicevo, di fronte a chi ha competenze nulle io sembro Bill Gates. Come dire: in un paese di ciechi chi ha un occhio fa il sindaco.

Purtroppo non sono degno di fare il sindaco, al massimo ho le competenze di un usciere.
E questo per ciò che concerne i software. Non parliamo delle competenze hardware: HP, NVIDIA, Intel: sono solo nomi di cosi che cosano cose all’interno di un coso.

Vado in ansia se qualcuno mi chiede di mettere le mani sul suo pc: fin quando si tratta delle mie macchine, ci smanetto quanto mi pare, perché dei danni ne rispondo a me stesso e, in ogni caso, basta chiedere a Google che ha sempre una soluzione per tutto.

A volte ho l’impressione che per molti Google sia utile solo per cercare i porno, ignorando la quantità di cose che può trovare.

Ad esempio, domani ho una presentazione in PowerPoint.
Le mie diapositive sono sempre graficamente molto curate, vi allego anche dei brevi video introduttivi.


L’ultimo con in sottofondo la sigla di Fringe ebbe successo. Per domani ho utilizzato la sigla di Dr. House, anche se mi trovo pentito di non aver preso quella di Breaking Bad.


Non ci vuole un diploma in computer grafica. Bastano:
– Windows movie maker
– Keepvideo per scaricare video/audio da YouTube
– Cutter Video Online per tagliare i video
– Mp3 Cut Online per tagliare i file audio
– Google Immagini per scaricare foto e icone

Quando spiego questi semplici ingredienti, mi chiedono sempre: “Ma queste cose come le trovi?”.

La prossima volta dirò sul serio “Google non serve solo per i porno”.


A dispetto della premessa del mio post, comunque, anche a occhi aperti vado a sbattere.

La mia casa natìa in due giorni mi ha picchiato 3 volte, accanendosi contro la mia testa: l’ultimo incontro tra la porta di ferro e la mia fronte debbo dire ha lasciato il segno. Con un’altra capocciata magari mi viene la cicatrice di Harry Potter.

WARNING: IMMAGINE IMPRESSIONABILE! NON LA FISSATE O SI SPAVENTA!

2015-11-08 21.04.05


Non puoi giocarti in borsa la tua buona azione quotidiana

Ogni volta che do indicazioni a un turista straniero sento di aver fatto una buona azione. Perché ho riconosciuto negli occhi del visitatore lo sgomento per l’inusitato (per lui) caos urbano delle nostre grandi città – vale per i turisti nordici, chi vive sul nostro stesso parallelo o al di sotto sembra a proprio agio – unito al senso di smarrimento dovuto alla perdita di orientamento.

A questo aggiungo la confusione che le indicazioni date dagli autoctoni a volte generano, anche se non ne comprendo bene il motivo. Insomma, se mi dicono “devi annà de qua” io lo capisco, non mi è chiaro perché risulti difficile per un turista: de qua è destra, de la è sinistra (credo). Semplice, no?

Una buona azione è anche una buona parola spesa al momento giusto. Questa sera ho rivolto un commento positivo a una persona e questa mi ha ringraziato dicendo: fa sempre piacere ricevere opinioni positive sul proprio conto.

Al di là del premio G.a.C. per l’ovvietà della risposta, è indubbio che noi esseri umani abbiamo un’autostima che funziona anche grazie ai giudizi esterni.

Eppure ho l’impressione di vivere in un mondo aggressivo, direi homo homini lupus se avessi degli Hobbes nel tempo libero. È una questione Spinoza. Siamo sempre pronti a dare addosso al prossimo, al remoto e, soprattutto, all’imperfetto perché non tolleriamo i difetti altrui.

In periodi di malessere sociale-politico-economico, inoltre, cresce il disagio dell’individuo. Tale disagio si esplicita in attacchi rivolti all’esterno.

Non voglio partire con un pippone, cito soltanto una cosa che mi ha fatto sorridere per la sua assurdità. Al Comune, da Padre, la settimana scorsa si è presentato un tizio chiedendo di firmare “contro la legge del gender”. In 5 parole ci sono credo almeno tre errori: 1) non si firma contro una legge, si raccolgono firme affinché si tenga il referendum abrogativo; 2) non esiste alcuna “legge del gender”; 3) non esiste alcuna ideologia gender contro la quale si deve combattere. Ma che gender c’è in giro?

Al di là del singolo esempio, una persona che si prende il disturbo, senza informarsi, senza conoscere, di attaccare qualcuno o qualcosa, per me ha un ingiustificato comportamento aggressivo.


Ripenso alla madre del mio alunno prodigio che senza ascoltare i desideri o le volontà del figlio lo derideva perché voleva studiare lingue.


Se non siete d’accordo con me non vi dirò nulla, anzi vi accoglierò con cordialità a braccia aperte. Ho passato anni della mia adolescenza in vacanza in Umbria, quindi mi sento anch’io un po’ gender de Fuligno, pacifico e amabile cuscì.

Se il proprietario di casa è triste vuol dire che paghi l’afflitto?

Le vacanze son finite ed è tempo di resoconti. In particolare, avendo trascorso il soggiorno per la terza volta di fila con Airbnb, credo sia tempo di fare un piccolo bilancio della mia esperienza con questo sito.


COS’È AIRBNB?
È un sito tramite il quale potete trovare un alloggio per le vacanze, dalla singola stanza a un intero appartamento, il tutto messo a disposizione dagli iscritti. Per non incappare in fregature è bene controllare foto e recensioni, poi dal momento in cui prenotate vi viene bloccato dal sito l’importo del soggiorno sulla carta di credito, ma verrà effettivamente versato a chi vi ospita solo 24h dopo il check-in.


Non so che tipologia di persona possa essere uno che affitta la casa in cui vive a un estraneo lasciandogli le chiavi. Per quelle che sono le mie esperienze – tre, come dicevo – bisogna essere secondo me persone un po’ stravaganti.

La mia prima esperienza fu nel 2013, a Berlino, a casa del buon Sebastian, che affittava la propria stanza mentre lui dormiva invece sotto un ponte nel camper di famiglia.

Non sto scherzando: abitava sotto un ponte della S-Bahn. Una volta gli chiesi il perché, lui disse che era andato a Bonn a vivere con la ragazza e a lavorare e nel frattempo la casa – che appartiene alla famiglia – la affittava, poi la love story finì e quindi è tornato a Berlino ma ha continuato ad affittare la casa (“sossoldi“). Aveva una bandiera gigante del Partito Pirata tedesco all’ingresso e durante il giorno capitava di trovarlo in cucina perché utilizzava il wifi di casa che gli serviva per lavorare (all’estero pare vada alla grande il telelavoro).

Il secondo fu Ivan di Bruxelles l’anno dopo: un tipo abbastanza anonimo e con l’aria afflitta come uno che ha ricevuto una inopportuna cartella di Equitalia. Sicuramente divorziato – c’era una stanza per bambini tenuta in ordine e completa di tutto, tranne che di bambini, presenti solo nel week end -, aveva una bella casa, con tanti libri sull’arte e un pianoforte d’epoca. Ma la cosa più interessante è che aveva piazzato nel proprio studio un’amaca giusto in mezzo la stanza. Non ho capito di cosa si occupasse, una volta scambiando due parole gli chiesi cosa stesse facendo, lui disse sto scrivendo la tesi per il mio master. Gli chiesi di cosa si occupasse come lavoro e lui fece vari versi che potremmo traslitterare in buuh beeeh pffff prima di dire no è troppo avvilente per parlarne. E non ho più affrontato l’argomento.

All’epoca poi sul mio profilo Airbnb avevo questa foto di Kurt Cobain:

Lui pensò fossi io, perché quando prenotai per me e un amico mi chiese: il tuo amico è il gatto? e io pensavo fosse una battuta. Se non che, quando ci incontrammo disse: Ah, non ti riconoscevo, hai tagliato i capelli.

Non sono stupito del fatto che fosse divorziato, ma che avesse trovato una moglie.


Per la cronaca: non c’è alcuna somiglianza tra me e KC e penso sarebbe più facile scambiarmi per uno dell’ISIS.


Infine quest’anno è stato il turno di Elizabeth la viennese, 32 anni, che affitta casa mentre lei va a farsi ospitare dal ragazzo. Aveva il frigo pieno di cose bio-vegan e l’appartamento era caratterizzato dal fatto di non avere mobilia. Nel salotto c’erano un divano e un tavolo e nient’altro: incassata sotto le finestre c’era un minilibreria contenente di tutto, dalle spezie ai soprammobili alle piante. Tutto tranne i libri, che occupavano invece la parete opposta, impilati da terra l’uno sull’altro contro il muro. Si alternavano volumi sulla storia della musica, libri di economia, guide (tipo “impara lo yoga in 10 minuti” o qualcosa di simile) e biografie come quella di Kurt Cobain.

La camera da letto era in linea con il non-arredamento del salotto: al posto di armadio o cassettiere, aveva una libreria Ikea fatta a scomparti quadrati in cui riponeva alla rinfusa tutti i propri abiti. Sulla parete opposta, appesi a dei ganci appendiabiti non c’erano ovviamente dei soprabiti – che senso avrebbe, in una casa dove era tutto al contrario! – ma c’era invece in bella vista tutta la sua collezione di reggiseni: ai quali confesso di aver gettato un’occhiata di sfuggita, constatando che la ragazza avesse buon gusto ma che fosse anche un’ingannatrice perché alcuni sembravano palesemente imbottiti.

Non vedo l’ora di partire per una nuova vacanza e scoprire chi mi ospiterà! Sarà un allevatore di cicale che per hobby suona il fagotto? Una stilista per giganti che in soggiorno ha un baobab? Lo scopriremo solo viaggiando.

Di bruxismo e parigine

Le vacanze son già finite. Eh già.

Ho passato 4 giorni in solitaria in quel di Chiusi (di cui magari parlerò in un post a parte), prima di partire per il Belgio, con breve tappa a Parigi.

Il simpatico Ivàn, il padrone di casa che ci ha ospitato a Bruxelles, mi ha scambiato per Kurt Cobain. O meglio, mi spiego. Su Airbnb ho come immagine del profilo questa qui:


Quando ho contattato Ivàn, dicendogli ciao, io e il mio amico Tizio vorremmo visitare Bruxelles e bla bla, lui mi ha risposto

Hello Gintoki,
The place is available for you at this date. You are welcome.
Is Tizio a person or your cat?

Sulle prime non l’ho capita, poi ho pensato ok avrà visto la foto e avrà fatto la battuta.

Se non che, quando a Bruxelles ci ha aperto la porta, dopo avermi visto mi ha fatto: Non t’avevo riconosciuto, hai tagliato i capelli.

Ok. Certo. Magari sì, sarebbe meglio avere la propria faccia su Airbnb visto che qualcuno dovrà tenerti sotto lo stesso tetto, ma chi mi ospiterebbe vedendo la mia vera faccia?!

Passiamo ad altre cose particolari.

In Belgio non stampano i menu. Il motivo è comprensibile, avendo più birre che abitanti e cambiandole ogni sera, stampare i menu costerebbe un patrimonio. Quando la prima sera ci siamo seduti in una brasserie e abbiamo chiesto un menu, il cameriere perplesso ha staccato una lavagnetta dal muro sulla quale c’era scritto col gesso cosa offriva la casa.

Italiani.

Certo, siamo stati sempre migliori di quel gruppo di quattro italiani che è arrivato con delle vaschette di alluminio in mano, si è seduto al tavolino fuori la brasserie, le ha aperte e ha cominciato a mangiare. La cameriera gli ha fatto notare che quella non era un’area pic-nic e loro se ne sono andati scontenti. Li ho ritrovati a mangiare su delle panchine poco più avanti.

Da quel momento abbiamo deciso di fingerci spagnoli, greci o qualunque altra popolazione mediterranea.

Nelle campagne belghe è impressionante il numero di mucche allo stato brado a poca distanza dei binari ferroviari. Penso sia nata lì l’espressione sul famoso sguardo della mucca che osserva passare il treno.

Ho visto un tizio che pretendeva di portare a spasso il gatto come se fosse un cane. Lo teneva in braccio, poi lo metteva a terra e riprendeva a camminare incitandolo a seguirlo. Il gatto, un po’ smarrito, si guardava intorno, cosicché il padrone lo riprendeva in braccio, percorreva qualche metro e poi tentava di nuovo di metterlo a terra.

Io i turisti comincio a non sopportarli più. Si piantano davanti a te imbambolati e non si muovono. Sì, certo, anche tu sei un turista, direte. Ma io se devo fare una foto la faccio e mi tolgo, tempo due secondi. E non intralcio la strada. A volte sono lì lì per lasciarmi scappare un “via dai coglioni”, poi mi trattengo perché o potrebbero essere italiani o comunque si potrebbe capire. Il che, comunque, non sarebbe forse un male.

Due che si passavano una cicca di sigaretta stile Coppi & Bartali:

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I waffle col cioccolato fuso. Ho detto tutto.

Ho viaggiato da Bruxelles a Brugge senza che nessuno mi controllasse il biglietto del treno. Questo mi ha fomentato piani criminali nella testa. Al ritorno mi è stato controllato ma non con il palmare, il controllore l’ha solo pinzato con l’obliteratrice portatile. Essendo un biglietto preso online e stampato, ho pensato non ci vorrebbe nulla allora farsene uno a casa da soli copiandone il modello! Altri piani criminali.

I parigini son più gentili di come li ricordavo. Il tornello della metro mi aveva lasciato passare il biglietto ma le porte erano rimaste chiuse: io stavo per tornare indietro quando, con un colpo di bacino che sarebbe valso cartellino rosso diretto per fallo da dietro, un tizio mi ha spinto in avanti bofonchiandomi contro qualcosa del tipo “vai vai”. Gentilissimo. Ma cos’hanno sempre da correre?

È bello notare che dal 2011 quando ci andai la prima volta, non è cambiata la moda di un certo standard femminile di parigina: filiformi, un po’ androgine, cappello, giacca. Bevono un bicchiere di vino fuori una brasserie, si portano il mac-coso per scrivere fuori un bar, probabilmente parlano di vernissage.

C’è un ristorante basco a Parigi dove la specialità è una grossa escalope ricoperta di patate, ricoperta di funghi, ricoperta di besciamella, ricoperta di salsa non so cosa. Penso sia illegale in diversi Paesi e anche nei peggiori bar di Caracas.
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Lo so, dall’aspetto sembra vomito. Ma è una goduria del palato. Se la finite tutta, vi vengono a stringere la mano. Usciti dal ristorante è consigliabile incidersi un braccio e ciucciar via il colesterolo prima che entri in circolo.

I mercati rionali di frutta, verdura e pesce sono uguali in tutto il mondo. Almeno il mondo che ho visto. E la voce dei fruttivendoli che urlano i prezzi della frutta è sempre uguale. È un mestiere che richiede una predisposizione, quindi?

Pillole di Sol Levante

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Kinkaku-ji, Kyoto

Tornato dal Giappone, vorrei condividere in maniera semiseria alcune cose che mi hanno colpito.

1) Il Giappone è un Paese basato sugli omini. C’è un omino per tutto. C’è l’omino che indica la fila, l’omino che raccoglie le foglie morte da terra, l’omino che fa gesti inutili alla partenza del treno, l’omino che apre la porta, l’omino che pulisce il corrimano della scala mobile…

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Gli omini sono così importanti da essere riportati sui cartelli

2) Lo sport nazionale giapponese è fare la fila.

3) Dev’esserci un cattivo rapporto tra i dentisti e le ragazze giapponesi: molte hanno i denti storti.

4) Non ci credevo fino a che non l’ho visto con i miei occhi: le ragazze hanno tutte le gambe storte e camminano come delle sbullonate. Il baricentro delle loro rotule viola qualunque principio fisico.
Ma con quelle minigonne con cui vanno in giro, possono far tutto ❤

5) È più facile trovare giapponesi che comprendono l’italiano che giapponesi che comprendono l’inglese. Corollario: attenzione a fare commenti in pubblico, è possibile che qualcuno comprenda ciò che diciate. Ci è successo due volte.

6) Il concetto di tovagliolo a tavola sembra essere sconosciuto. Il consiglio è quindi quello di non gettare il fazzoletto umido che mettono a tavola per pulire le mani prima di mangiare. Sarà il più prezioso alleato durante il pasto.

7) Un altro concetto sconosciuto sembra essere quello di “asciugatore” nei bagni pubblici. Sarà per questo che le donne giapponesi (anche alcuni uomini) girano con nella borsa un asciugamanino.

8) La cosa più scioccante in Giappone è viaggiare nei mezzi pubblici accompagnati da uno strano rumore. Non ti rendi conto di cosa sia fino a che non realizzi che è semplicemente…il suono del silenzio. Niente vociare inconsulto, niente suonerie millifoniche, niente persone che parlano al cellulare tenendoci a farti sapere ciò che stanno dicendo…

9) La metropolitana di Tokyo è il posto ideale per un pisolino veloce. È innanzitutto pulita, i sedili sono morbidi e su molti treni sono anche riscaldati.

10) In Giappone inchinarsi è importantissimo. I controllori sui treni, prima di entrare in un vagone, si inchinano e ripetono lo stesso gesto anche uscendo. Fa niente che si trovino nel senso opposto rispetto all’orientamento dei sedili e nessuno li veda. Si inchinano lo stesso. Uhm, ma potrebbero inchinarsi perché si sono accorti che tu li stai guardando! I giapponesi si inchinano se nessuno li vede? Un albero che cade in una foresta dove non c’è nessuno, fa rumore? ‘mbuto! Chi lo ha inventato? Su Rieducational Channel!

11) L’inchino è contagioso. Dopo un po’ comincerete a inchinarvi a chiunque, il che è positivo se vi trovate in Giappone. Ma se vi rimane addosso anche tornati in Italia, beh, preparatevi a essere presi per il culo.

12) Per segnalare che non si può accedere a un posto o che un determinato atteggiamento è scorretto, un poliziotto vi imiterà Mara Maionchi

13) Il cibo pronto da riscaldare che vendono nei konbini (convenience store) a poche centinaia di yen (pochi euro nostri, si può fare un pasto a 3-4 euro) sembra più buono di quello servito in alcuni ristoranti giapponesi in Italia. Il che lascia molto da pensare.

14) Quando torni in Italia la cosa che ti mancherà di più sarà il water con la tavoletta autoriscaldante.

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Il bidet incorporato, invece, è sì una gran figata ma poco pratico per gli “standard europei”.

Tornando seri un momento, dico che è stato un viaggio bellissimo. Ho conosciuto persone molte interessanti, compagni di viaggio (che non conoscevo prima della partenza) simpatici e affabili e dai quali ho imparato molte cose. Torno sentendomi arricchito.
Uno dei ricordi più belli è la visita al Tempio del Padiglione d’oro (quello nella foto d’apertura). Faceva un freddo cane e a un certo punto ha iniziato a nevicare. Però era bellissimo, mi sarei gettato su un prato a osservare quello spettacolo. E poi sarei morto assiderato, dettagli.

Domanda: ci ritornerai? Certamente.

Questo un video che ho girato a Nara: è la preparazione tradizionale dei mochi.