Non è che il cannibale al ristorante chieda che gli mandino un cameriere. Ben cotto.

Credo che io e M. siamo i clienti migliori per i posti dove si mangia e/o dove si beve. Non perché facciamo qualcosa di particolare. Semplicemente applichiamo le buone regole del vivere civile. Salutiamo, ringraziamo, trattiamo con rispetto e cortesia il personale. Se ci chiedono se vogliamo far servire portate diverse tutte insieme, rispondiamo sempre che preferiamo ciò che causa meno disagio in cucina. Per me è un atteggiamento normale. Soltanto che poi noto diventiamo per i camerieri delle perle rare. Li vediamo raggianti quando parlano con noi, scambiamo qualche battutina, insomma sembra che quando ce ne andiamo li lasciamo col piacere di far il mestiere che svolgono. Delle volte ce l’hanno proprio detto che siamo brave e belle persone.

Beninteso, non capita sempre di trovare personale affabile: mi ricordo una volta un cameriere che ci lanciò, tipo frisbee, il piatto sul tavolo, così, mentre era di passaggio. O quello che provò a far finta di nulla nel portare una bottiglia di prosecco calda, lasciandola sul tavolo e scappando via. Ci saranno di sicuro poi camerieri che cercano di essere molto gentili semplicemente per ingraziarsi una mancia, magari. Ma la maggior parte mi accorgo che è sinceramente molto contenta di aver a che fare con noi due; me ne rendo conto vedendo come invece deve essere difficoltoso gestire, ai tavoli di fianco, clienti che sono tutto fuorché che cortesi o quantomeno memori del fatto che di fronte hanno pur sempre un essere umano.

Cosicché, per ciò che ho avuto modo di vedere, ho messo insieme una piccola lista di clienti a mio avviso insopportabili per i quali io finirei licenziato se fossi un cameriere, aggiungendo per qual motivo anche:

IL/LA VIP
Che sia da sola o in compagnia questa persona mantiene lo stesso copione: atteggiamento scocciato, infastidito, forse è l’atto proprio di dover mangiare a essere noioso, forse è il ritrovarsi insieme a dei plebei, non so. Mocassino e caviglia in vista, capello appena uscito dal parrucchiere che ogni due per tre scioglie al vento – anche se vento non ce ne è – passandosi la mano dietro l’orecchio, barbetta rada e occhiale da sole, borsetta da millemila euro, zainetto di pelle col porta tablet, questi i connotati per lui e per lei. Controlla in modo compulsivo il telefono, si fa degli autoscatti, siede magari di sbieco a gambe accavallate. Guarda dall’alto in basso il personale, a volte trattandolo proprio come un servitore, a cui rivolge dei veri e propri ordini del tipo “Sì però sbrigati”, oppure “Non mi piace, me lo rifai?”, e via così.
Motivo di licenziamento: un secchio di letame rovesciato in testa, arrivando alle spalle.

LEI NON SA CHI SONO IO
Arriva, magari con una comitiva degna di una squadra di calcio (più panchinari), senza avere prenotato e pretende di accomodarsi. Il cameriere magari si prodiga nel trovargli una soluzione: magari aspettare, oppure accomodarsi a un tavolo più defilato. Com’è ovvio, non solo non apprezzerà l’intenzione, ma se ne andrà via con visibile scocciatura perché è inaudito che un posto non faccia largo alla sua nobile persona.
Motivo di licenziamento: porgere una ciotola di avanzi dicendo di accomodarsi fuori e farsi bastare quelli. E prenotare, la prossima volta.

IL PADRONE DI TUTTO
Sovente sempre un uomo, spesso dalla classe di un cinghiale, sempre molesto e fastidioso. Entra e si siede senza chiedere se e dove può accomodarsi, tratta il personale con confidenza eccessiva, se è una cameriera a servirlo ci scappa anche qualche battuta molesta, ride e urla come se ci fosse soltanto lui nel locale e stesse a casa propria.
Motivo di licenziamento: una chiamata alla Guardia di Finanza per farlo perquisire perché sicuramente uno così sovraeccitato è in possesso di una dose di bamba. E se non ce l’ha troverei il modo di fargliela trovare addosso.

LA DISCOTECA
Guarda video YouTube e storie Instagram col volume dello smartphone al massimo, perché tanto di sicuro i vicini apprezzano.
Motivo di licenziamento: una tromba da stadio suonata all’improvviso alle sue spalle.

LA FAMIGLIA CON PROLE
La famiglia con prole vede il ristorante come un momento di pace personale: dato che i gentili pargoli, evidentemente, a casa rompono e tediano, portarli fuori vuol dire lasciarli razzolare liberamente in uno spazio delimitato mentre i genitori possono mangiare tranquilli. Certo, fa niente se corrono tra i tavoli, disturbano, tirano fuori un Super Santos che fanno volare sopra le teste altrui: son ragazzi, dai.
Motivo di licenziamento: monterei una recinzione elettrificata intorno al loro tavolo.

GUSTI DIFFICILI
A tutti può capitare di chiedere una variazione: metti che un ingrediente non sia gradito o non si possa mangiare ma che a quel piatto non si voglia proprio rinunciare, si chiede la cortesia di non inserirlo. La mia filosofia è: se è qualcosa che si aggiunge ma non entra nella preparazione, allora chiedo la variazione. Se invece è un ingrediente che entra a far parte del processo produttivo, desisto. Esempio: un tuorlo su una tartare si può non mettere. Ma dalla crema pasticcera di certo non puoi toglierlo né chiedere una torta alla crema senza crema! Però ci sono quelli che invece chiedono rivisitazioni così puntuali e complete che, a un certo punto, diventa un altro piatto. Come chiedere una carbonara senza uovo e senza guanciale. Praticamente la cacio e pepe, chiedi quella, no?!
Motivo di licenziamento: se si tratta solo di gusti e non di allergie/intolleranze, servirei tutto ciò che ha chiesto di non mettere e obbligherei a mangiarlo.

E ci sarebbero tanti altri begli esemplari da descrivere ancora!

Non è che sia meglio un cittadino informatico di un cittadino informato

A Madre è caduto il telefono nel secchio con l’acqua di risulta del bucato da stendere. Dopo aver aspettato qualche giorno che si asciugasse e constatato che fosse ormai andato a male, ne ha preso uno nuovo.

Si è chiesta come mai spostando la SIM non ci fossero tutti i numeri che aveva in rubrica. E come mai invece Whatsapp le ha rimesso tutte le conversazioni che aveva: erano salvate sulla summenzionata SIM? E perché allora non i numeri?

Le ho spiegato che oramai i telefoni funzionano in maniera delocalizzata, per dirla in modo semplice: è un fatto cui ormai non ci si pensa (io ad esempio quando ho cambiato telefono ho chiesto a Google di recuperare tutto ciò che avevo, contatti, foto, applicazioni e ho aspettato che terminasse l’operazione, come se niente fosse) ma ormai non è più nulla veramente nostro. C’è un archivio digitale per ognuno di noi e il telefono è soltanto un guscio vuoto dentro il quale far trasmigrare momentaneamente un’anima digitale.

Ora, se questo approccio alla tecnologia può sembrare a me scontato, non lo è per una persona come Madre che alla tecnologia si è accostata soltanto in anni recenti.

Lo stesso discorso può valere per Padre, che quantomeno all’utilizzo del pc è abituato da anni. Nel momento in cui si è fatto lo SPID è iniziato il suo SPID Game: quel meccanismo per il quale ogni volta richiedi un accesso devi inserire pin e password, inviare una notifica all’app, confermare sull’app, accedere al sito. L’autenticazione a due fattori tramite smartphone è anch’essa una cosa per me scontata ma per lui no.

Mi chiedo quindi se la tecnologia non stia diventando un po’ escludente. Ci riflettevo anche quando qualche settimana fa ho richiesto l’ISEE tramite il sito dell’INPS. Sul sito sono presenti due modalità: l’ISEE standard e l’ISEE precompilato. Dico subito che questa seconda modalità la trovo tutt’altro che semplificata. Dopo vari smadonnamenti ho compilato la versione normale.

Non tutti però sono avvezzi a utilizzare il sito per ottenerlo. Alcune persone neanche sanno che esiste. Fortuna che ci sono i CAF, certo: tralasciando l’impiego di tempo per andarci, anche in questo caso la tecnologia che dovrebbe essere per tutti mi sembra in realtà rivolta a una cerchia più ristretta. E anche io, che smanetto&smadonno quotidianamente, delle volte mi trovo in difficoltà con un portale poco rispondente alle mie necessità.

Non so quanto sia larga la fetta di popolazione che non sa accedere alle risorse digitali e/o ha scarsa cultura informatica, ma temo sia ampia. E questo può diventare problematico se la società richiede sempre più un alto utilizzo di tali risorse telematiche, anche per i servizi essenziali.

Certo, si può obiettare che quando si tratta di inoltrare catene Whatsapp, di riportare “cugginate” reperite in rete, inviare inquietanti Buongiorno! con fiori bambini e madonne, i cosiddetti “analfabeti digitali” sembrano molto esperti.

In realtà si tratta di operazioni a basso dispendio di risorse e che, probabilmente, solleticano l’area dedita al gioco del cervello, risvegliando l’interesse nella persona. Se torno all’esempio dei miei genitori, loro non hanno mai mostrato interesse per la tecnologia, per dire. Dell’attività ludica gliene frega ancor meno (per fortuna, direi). Madre è passata ad avere uno smartphone perché si sentiva esclusa che nella cerchia delle sue colleghe tutte parlassero tramite Whatsapp. Padre non ho ancora capito come mai si è convinto. Lui è il tipo di persona che ha spesso lasciato scadere il credito sulla SIM perché non lo utilizzava mai.

Ora, se è vero che spetta all’individuo informarsi e tenersi aggiornato, non è che a volte la mancanza di motivazione è dovuta a quel discorso che facevo sopra di una tecnologia escludente?

Ma soprattutto: Madre, perché non ti compri un’asciugatrice una volta per tutte?!

Non è che lo smartphone faccia tutto quello che vuoi perché chi touch acconsente

Chiedo a una di indicarmi il suo domicilio – essendo diverso dalla residenza – per inviarle via posta il contratto. Lei mi risponde: “Sì, aspe’ che lo cerco su Google Maps”.

In che senso, scusa?

Poi ho capito. Costei è già proiettata nel futuro. Un futuro dove non servirà più sapere dove viviamo, perché sarà Google a dirci dove e cosa è casa. Già adesso Google sa dove abitiamo e dove lavoriamo anche se non glielo diciamo, ricavando l’informazione dai nostri tragitti abituali. Un domani gli daremo le chiavi di casa direttamente.

L’altro ieri ho sentito la notizia secondo la quale Google ha presentato un servizio per la digitalizzazione dei documenti (carta d’identità, patente, ecc.), grazie al quale potremmo dire addio al cartaceo o alle tessere di plastica. Sarà lo smartphone a essere ufficialmente il nostro sistema certificato di identificazione e accreditamento.

Con la batteria scarica cesseremmo di esistere.

Non è lontano il tempo in cui trasferiremo l’intera nostra esistenza in un dispositivo, senza il quale non saremo più niente. Gli daremo la delega per svolgere funzioni al posto nostro.

Mi sono accorto della mia inutilità da umano quando sono passato dai guanti senza dita a quelli integrali. Con mio sommo rammarico, avendo perso un guanto, ho dovuto comprarne un altro paio. Ho deciso per quelli integrali perché andando in bici di questi tempi più freddi avevo difficoltà a staccare le falangi scoperte dal manubrio.

Ebbene, è sorto il problema di usare il telefono con quei guanti: è un tal fastidio che per non metterlo e toglierlo rinuncio delle volte a prendere il dispositivo. Una liberazione ma un intoppo quando sei costretto per lavoro a essere reperibile.

È vero che esistono pure guanti con la punta dell’indice sottile e di materiale leggero appositamente pensati per toccare lo schermo, che, si sa, necessita di un contatto delicato, manco fosse un clitoride o una clitoride (non ho mai imparato la pronuncia). È buffo che esistano guanti da smartphone ma credo non guanti da clitoride. Metti che una gelida sera d’inverno ci si voglia ritagliare un intimo momento digitale, per non togliersi i guanti potrebbe far comodo un guanto con l’indice appositamente pensato per.

Ma con la delocalizzazione di qualsiasi attività e materiale umano a un unico dispositivo forse non sarà più nemmeno necessario. Avremo semplicemente clitoridi e peni contactless, basterà avvicinare lo smartphone come quando si vuol pagare alla cassa per attivarli. Andremo in roaming oltre che per avere il 4G, anche per il puntoG e basta.

In attesa del futuro, comunque, io attendo di sapere dalla tizia se Google Maps le ha trovato la sua dimora o se ora è sotto un ponte.

Non è che il sarto parli con un filo di voce

Oggi sono stato a casa dal lavoro.

Una frase che non mi suona corretta. “dal lavoro”, come se il mio posto solito di appartenenza debba essere il lavoro e tutto il resto delle mie attività siano un’alternativa al lavoro e qualunque altra cosa io faccia sia lontana “dal lavoro”. È questo che il capitalismo e i Carlo Conti della società vogliono farci credere, insieme al fatto che la cellulite sia una malattia e che il foglio di alluminio si debba usare col lato opaco all’interno o forse era il contrario.

Oggi quindi ero a casa.

Dieci minuti dopo aver avvertito BB (non Brigitte Bardot), il Tacchino mi ha scritto un messaggio. Ciao, puoi lavorare da casa?.

Gli ho telefonato con la mia voce del moribondo. La voce del moribondo è una cosa che nasce nel petto e matura nella laringe prima di esprimersi all’esterno. È importante la fase di maturazione laringea, la voce deve invecchiarsi il giusto per dar la sensazione desiderata.

Esistono vari livelli di moribondo, a seconda del tipo di malanno che ci si vuol attribuire.

– Livello discorso di compunto cordoglio generalista politico: una lieve indisposizione;
– Livello cantante improvvisato che al karaoke si cimenta con Rino Gaetano e si risveglia il giorno dopo con la raucedine: febbre/mal di gola;
– Livello Barbara d’Urso che commenta la tragedia di una famiglia sterminata da un editoriale di Selvaggia Lucarelli: malaria/tubercolosi;
– Livello calciatore rantolante sul manto erboso che si tiene una mano sul volto e una sul ginocchio sbagliato perché quello colpito è l’altro: prossimità alla morte.

Dicevo, gli ho telefonato dicendo che ero malato avendo un gomito che mi faceva contatto col piede e un attacco di congiuntivo da cui cercavo di guarire assumendo compresse di Cremonini e che, no, non potevo lavorare da casa non avendo accesso al server, perché non server a nienter.

Essendo lui un individuo che ha l’ansia come uno che per l’ansia che si rompano i preservativi durante l’atto li rompe lui stesso prima per tranquillizzarsi, mi ha detto Bene allora manda una mail a tutti in cui spieghi i progetti in corso le cose da fare e bla bla bla.

Io ho scritto alla Castora su Skype due righe velocemente e poi ho spento tutto e mi sono rimesso sotto le coperte a giocare con lo smartphone e ad autodiagnosticarmi dell’olio di palma su Google.

Oggi, comunque, ho fatto una scoperta: la casa durante la mattinata fa dei rumori diversi.

Sono abituato ai rumori di casa mia – scricchiolii, mobili che “tlaccano” (cioè che fanno tlac) – ma sono i rumori della sera o i rumori del weekend. I rumori della mattinata non li avevo mai ascoltati o non ci avevo fatto caso mai per bene.

All’inizio al primo rumore improvviso mi ero preoccupato e stavo quasi per sparare, ma non conosco le leggi ungheresi in materia e, oltretutto, anche se fuori era nuvolo c’era comunque luce.

Anche voi avete scoperto le vostre case fare rumori diversi quando le avete sorprese in orari non abituali?

Non è che Conversano sia una città dove si parla molto

Nelle mie vite lavorative, che cominciano a essere in numero discreto, mi sono sempre trovato più a mio agio stando a contatto con le colleghe invece che con i colleghi.

Il motivo è semplice. Durante 8-9 ore è necessario distrarsi e scambiare una parola con qualcuno, se non altro per staccare gli occhi dal monitor e fare una pausa dalle sessioni di videogiochi online.

Essendo una persona che si annoia con facilità, necessito di conversazioni stimolanti. In questo le donne sono più propense a fornire input di riflessione.

A parte discorsi su vestiti e oroscopi. È un rischio da correre e per il quale ho delle contromisure.

Nel primo caso, conscio di essere uno che sceglie come vestirsi in base a ciò che l’armadio gli pone sotto gli occhi in quel momento (discorso che varia in base al numero di capi in fase lavaggio/asciugatura o alla pigrizia nel mettere ordine), utilizzo la psicologia inversa per fornire pareri.

– Ti piace questo vestitino?
– Uhm…tu che ne pensi?
– Non lo so, lo vedo troppo chiassoso
– Sono d’accordo, lo vedo troppo…caotico, ecco
– Poi non so in che occasione andrebbe mai bene
– Infatti, poi resta chiuso in armadio
– Quindi dovrei prenderlo o no?
– Beh, lo prenderesti sapendo di non metterlo?
– Hai ragione, grazie!
– Prego!


Questo breve scambio è un esempio di applicazione di maieutica socratica. Le persone in genere hanno già in sé la risposta, basta farla emergere.


Nel caso degli oroscopi, mi capita sempre qualcuna che voglia da me l’ascendente. La prima volta che mi fu chiesto pensai Uhm, intenderà del sesso?.

In genere rispondo che non lo conosco e fornisco sempre un orario di nascita a caso per il suo calcolo. Mi hanno quindi attribuito decine di caratteristiche diverse e confliggenti ma che sarebbero tutte tipiche di quelli nati il/quando come me, a detta loro.

Con gli uomini la conversazione è un po’ più complessa.
Quando si ha un rapporto soltanto professionale ci si tiene su argomenti comuni.

Calcio e figa.

Il calcio diventa un problema se non si tifa per la stessa squadra, cosa che capita spesso. Il rischio di non trovarsi d’accordo è alto. Anche opinioni che sembrano disinteressate possono essere scambiate per sfottò e gufate:


E probabilmente lo sono.


– Dai, stasera vincete facile

Mi disse una volta uno juventino. Al che quando andai in bagno prima di lavarmi le mani mi accinsi a eseguire un rituale apotropaico intimo. In quel momento il Team Leader stava aprendo la porta, poi la richiuse appena si accorse che c’era qualcuno.

Non so se mi abbia visto o meno, ma quando rientrai fece-con tono canzonatorio:

– Gintoki, dov’eri?
– In bagno
– A fare?
– Eh, quel che fan tutti!

Ho sempre avuto il sospetto che mi avesse visto e frainteso e che da allora mi abbia considerato un onanista compulsivo.

L’altro argomento, la figa, si rivela a volte noioso.

Chiariamo, la figa in sé non è noiosa, ci mancherebbe. Essa non ha alcuna colpa e, anche se tra le tendenze social del momento vien messa in ombra da gattini e ricette istantanee, è sempre un fenomeno evergreen da quando è stata scoperta.

È l’uomo che parla di figa che dopo un po’ si rende noioso. Perché i discorsi di figa vanno privati di una tara di spacconate e vanterie che, come da Convenzione delle Nazioni Unite sulle Divagazioni intorno la Figa, poi non vanno neanche messe in dubbio. Almeno non di fronte l’interessato:

– E quindi poi mi trovavo a Ibiza c’era questa della Papuasia in viaggio studio per una ricerca sui calamari orfani che appena le ho detto che ero italiano non ci ha visto più allora le ho detto Ma quale calamaro ma beccati ‘sto gamberone e lei mi è saltata addosso non ti dico tre giorni chiusi in stanza poi mi ha detto Vengo in Italia mollo tutto per te io le ho detto Sì sì lasciami il numero poi mi faccio vivo guarda se la chiamassi adesso correrebbe subito dalla Papuasia peccato che non c’ho credito mannaggia…

E quindi io stavo pensando di sviluppare una app di intercalari per annuire nei discorsi, dimodoché si possa proseguire con le proprie attività mentre dallo smartphone partono commenti come Ah! Eh! Wow! Grande! Davvero? per gestire simili conversazioni.

Non è che una pellicola al Monte di Pietà sia un film impegnato

Peggio di un adolescente con uno smartphone c’è un anziano con lo smartphone.

Mia zia, all’età di 70 anni, è passata alle nuove tecnologie e ha effettuato il passaggio verso una componente fondamentale della modernità: le foto su whatsupp.

Oggi durante il pranzo domenicale mi ha mostrato le foto che le mandano i suoi amici, o i figli dei suoi amici.
Tutte foto di neonati. Ha la memoria piena di progenie altrui. Se qualcuno trovasse quel cellulare penserebbe che sia di un pedofilo.

Gliele mandano per condividere i nuovi arrivi. Poi è cominciata una condivisione non richiesta: adesso prima ancora che il bimbo nasca lei si trova inserita già in un gruppo whatsupp per la futura condivisione delle foto del nascituro. Immagino sia una sorta di prelazione, per dire “In caso di nascite concomitanti io ho la precedenza perché ho creato il gruppo prima”.


Sorvolo sull’esistenza di scambi di foto di ecografie. Il dibattito teologico odierno è: la foto del bambino comincia solo al momento della nascita o è da considerarsi tale già nell’ecografia? C’è la scuola di pensiero conservatrice che sostiene che il diritto alla foto nasca al concepimento, il che spiegherebbe l’esistenza di gruppi whatsupp – in cui io non mi trovo inserito, purtroppo – in cui vengono scambiate foto di vulve.


Capisco che la gente faccia ciò perché orgogliosa di mostrare agli altri la bellezza della propria prole, al grido di “Questo l’ho fatto io”. Però qualcuno dovrebbe far presente che i bambini non sono tutti belli. Alcuni son bruttini. Lo so che sembra una cosa orribile da dire, ma è la realtà. E posso ancora dirlo perché non ho prole (credo). Poi diventerò genitore anche io – forse – e comincerò a dire che i bambini sono tutti belli e a mandare foto non richieste.

Poi “bruttino” è relativo, magari è questione di punti di vista oppure è una fase. Nella vita si cambia, si cresce, si attraversano varie trasformazioni.


Io, ad esempio, ero un bel bambino. Ora sono un adulto medio, medianamente tollerabile esteticamente dalla media della popolazione. Da ragazzino invece la pubertà mi fece diventare rachitico e ingobbito e dai tratti vagamente mediorientali, cosa che mi attirò un po’ di bullismo verbale fintoxenofobo durante il periodo dell’ascesa del terrorismo internazionale.


Non essendo realmente mediorientale, non potevo in realtà lamentarmi: quindi peggio di essere vittima di xenofobia c’è il non essere vittima di xenofobia ma sentirsi tale lo stesso.


In una pausa da mia zia e dalle sue foto, ho dovuto spiegare a Padre, che commentava i risultati della Mostra del Cinema di Venezia, perché mai uno che fa film di 4 ore in bianco e nero debba essere idolatrato come artista. Io ho fatto presente che ci sono anche artisti da 90 minuti a colori, un film d’autore non è tale solo per durata o effetto sulla pellicola.

“Allora perché ha vinto a Venezia quello lì?”

Non ho saputo replicare. Mi sono giustificato dicendo di non essere un critico cinematografico e allora mi ha spento affermando “Allora neanche tu sai perché quello lì deve essere considerato un artista” e mi sono dovuto arrendere alla sua logica.

Durante tutti questi siparietti, Madre sullo sfondo invece faceva facce. Del tipo “Che palle” o “Basta” o “Vuoi dire a tua zia che poteva risparmiarsi di portare un 1kg di paste perché nessuno le mangerà?” e io replicavo con l’occhiata de “Diglielo tu perché siete voi due che non vi mangiate un cazzo che c’avete i gusti raffinati e la crema la volete se fatta con le uova bio di una gallina bio che prima di farle uscire le passano la vaselina (bio) nel culo, con la scorza di limone di Sorrento inumidita dall’ultimo alito di fiato prima di spirare dal vecchietto che lo coltivava ancora come gli aveva insegnato suo nonno”.


È un’occhiata che ho messo anni a perfezionare. Dovrei vincere io un premio a Venezia, purtroppo non ho ancora trovato un regista che sappia valorizzarmi.


E alla fine sono giunto a conclusione che siamo noi adulti a essere pessimi, i bambini son molto meglio.

Non è che un’amministrazione pubblica non possa essere fuori dal Comune

Per la seconda estate consecutiva, il mio Comune è invaso dalle blatte.
L’amministrazione ha però rassicurato la cittadinanza: quelle si vedono aggirarsi tra i marciapiedi, non sono blatte. Sono Pokémon.

Sono visibili anche senza smartphone: effetto della nuova tecnologia a realtà aumentatissima.
La stessa che fa apparire lauree a Renzo Bossi o attici a Bertone.

Nonostante le rassicurazioni, non mi sento molto tranquillo nel mangiare fuori. Ogni volta che sotto i denti scatta un crunch temo di aver masticato qualcosa di vivo finito nel piatto.

Vero è che dicono sia il cibo del futuro. Io però ho sempre preferito altri tempi verbali.

Al limite suggerirei di affrontare l’argomento a Vice News Italia. Vedo già il titolo: Abbiamo provato a mangiare blatte per una settimana. Vi raccontiamo come è andata.


Per chi non è avvezzo: gli articoli di Vice sono quasi tutti così. Leggere per credere.


Oppure potrei contattare quei simpaticoni de Il Post: Abbiamo assaggiato le blatte (No, non è andata benissimo).
Più pragmatici quelli di Libernazione: Le blatte hanno rotto il cazzo, mentre Il Giornale titolerebbe semplicemente INVASIONE.

Ho un gatto a casa che invece cattura scarafaggi e poi ce li lascia trovare, osservandoci con occhi fiduciosi aspettando chissà che.
Una volta ho dovuto fingere di mangiare “la preda”: Mmmh che buono! Chomp Chomp e lui è sembrato contento, prima di vomitare una palla di pelo. Ho dovuto mangiare anche quella.

Il Comune potrebbe quindi addestrare una squadra di gatti acchiappa-insetti (If there’s something strange in your neighborhood: who you gonna call? Nessuno, perché i gatti se li chiami ti guardano e non vengono) e fare economia sulle spese. Del resto non ci sono fondi neanche per sistemare i condizionatori nell’asilo nido comunale.

E dire che una neomamma ha chiesto se in tale asilo adottino il Metodo Montessori e se venga praticato il bilinguismo, perché test clinici dimostrano che se un bambino impara una lingua straniera già da piccolo, da adolescente potrà mandarvi a quel paese in due lingue diverse.

Quando l’ho sentito mi son fatto una risata. È come dormire in tenda e chiedere se ci sono gli annessi e connessi di una suite d’hotel.

Da quel che so, lì dentro praticano il metodo Montenegro (c’è una inserviente che adora i cicchetti) e parlano due lingue. Italiano e napoletano.

Non è che non te ne frega degli spazzolini solo perché sono per-denti

Conosco un tale, col quale ho condiviso un paio di viaggi, che ogni volta che parte dimentica spazzolino e shampoo. Giunto sul posto, realizzando la mancanza, deve andare a comprarli. E poi, quando riparte, li lascia lì. Credo ormai abbia sparso per l’Europa dei segnalini.

Invidio la sua leggerezza.
Anche se io non son da meno, avendo dimenticato in giro un po’ di cose mie. Per ridurre il rischio, negli anni, viaggiando, ho imparato a restringere sempre più il concetto di “stretto indispensabile” da portare con me.


Un giorno voglio arrivare a muovermi con solo uno spazzolino e un paio di boxer di ricambio.


Bisognerebbe applicare il concetto di “indispensabile” anche alla vita di tutti i giorni.
Abitiamo in case che non sono altro che contenitori di cose.
Dobbiamo comprarne sempre altre, perché siamo convinti che ci servano. Oppure perché sono destinate a rompersi (obsolescenza programmata) e noi accettiamo ciò come fosse normale.


Dopo gli smartphone cui non puoi rimuovere la batteria, mi chiedo quanto manchi all’avvento dello smartphone che se lo spegni dopo non si riaccende più.


Molte cose che abbiamo sono sottoutilizzate: come l’onnipresente set per la fonduta, nascosto da qualche parte in ogni abitazione, come un cadavere in giardino. È probabile che magari a Flagellation sur Membre in Vallée d’Aoste sia invece oggetto di uso comune, ma qui al di sotto della Linea Gotica non lo è affatto.

La casa dei miei inghiotte cose. Ciò che entra non ne esce più.

Io cerco ogni tanto di disfarmi del superfluo mettendolo in vendita o regalandolo.

Ieri mi ha scritto un tizio per un oggetto che avevo messo su Ebay. Mi ha offerto 60 €, la metà del prezzo. Io ho rilanciato la sua offerta, rialzandola di 30 euro. Lui ha controreplicato rialzando la propria offerta iniziale di 10 euro e aggiungendo: “Con 100 € vado da Popolare negozio e mi danno due giochi nuovi”.

Gli ho scritto: “Beh allora perché non vai da Popolare negozio invece di cagare il cazzo a me?”.
Ma non ho inviato il messaggio.

Sono suscettibile e nervoso, negli ultimi tempi.
E dovrei forse evitare di muovermi, anche per brevi viaggi. Ogni volta che rientro, infatti, l’impatto con la realtà mi pesa.

Sempre ieri, mentre ero in fila alla biglietteria della stazione, noto un tizio che, lento ma inesorabile come una tartaruga, mi affianca. Quando davanti a noi c’è soltanto una donna, lui si protende col braccio verso il bancone, con posa plastica, come uno che sta realizzando un touchdown.

Appena la donna davanti ha terminato, lui piazza i soldi sullo sportello per segnare il punto. Al che gli dico, con molta tranquillità:

– Scusi, la fila

E lui:

– Vai vai, non ti preoccupare

Con gesto magnanimo.

Ho avuto quasi il rimorso di averlo importunato, mentre lui è stato così gentile da farmi anche il favore di lasciarmi passare.

E dopo avrei desiderato accompagnare la sua testa contro il vetro dello sportello, più e più volte.

Non mi riconosco più.
Un tempo avrei almeno alzato la voce o usato un tono irritato.

I woke up this morning
Didn’t recognize the man in the mirror
Then I laughed and I said, “Oh silly me, that’s just me”

Non è che se entri per comprare le sigarette sei mogio perché sali e t’abbacchi

Mi sono svegliato questa mattina carico di buone intenzioni e voglia di fare.
Almeno credevo.
Avvertivo infatti la sensazione che un carico mi gravasse dietro al collo. Poi mi sono accorto che il dolore sulla nuca era stato causato dal cuscino che era scivolato via e si era messo di traverso tra spalla e testa facendomi dormire in posizione scomoda e causandomi dolore sulla nuca.

Non so cosa io combini durante il sonno per spostare il cuscino così, non è la prima volta che mi capita.
Ho fatto anche di peggio. Qualche mese fa mi sono svegliato trovandomi nudo dalla vita in giù, con pantaloni e boxer appallottolati ai miei piedi.
Preciso che ero solo in casa.
Credo.

Appurato che non erano buone intenzioni quelle che mi pesavano addosso, ho sistemato il cuscino e sono tornato a dormire.

Alzatomi verso le 11, l’idea di uscire a passeggio come di consueto la domenica mattina è stata rimpiazzata da un programma casalingo.

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Non ho neanche terminato l’ultimo Toscanello che mi restava dall’Italia, perché fuori al balcone si gelava troppo.
Non sono ancora entrato in un tabaccaio locale per controllare se qui ne abbiano. Mi inquietano i tabacchi qui: sembrano locali proibiti. Porte e vetrine sono completamente oscurate e coperte da un pannello bianco su cui campeggia un divieto con su scritto “18”. Le poche persone che a volte vedo entrare si guardano intorno come se entrassero in un sexy shop.


Mi correggo: ho visto persone entrare in un sexy shop in modo disinvolto. Quindi qui per indicare l’atteggiamento furtivo e pieno di vergogna immagino si dica “Ehi! Vai dal tabaccaio?”.


Ho poi fatto il bucato e rassettato la stanza. Mi è tornata in mente la CC che mi diceva di stupirsi sempre nel vedere un uomo fare faccende di casa.

Le mie “faccende di casa” consistono nel
– lavare i piatti che ho utilizzato;
– passare la scopa con una frequenza variabile: pavimento chiaro, più spesso, pavimento scuro, di rado;
– lavarmi i vestiti dopo aver fatto la prova olfattiva.


La prova olfattiva consiste, come si può dedurre, dall’annusare il capo e decidere se può andare bene per essere riutilizzato subito, se può essere riutilizzato dopo averlo lasciato prendere aria una nottata o se necessita di essere lavato.

ATTENZIONE: la prova annusata non si applica mai su mutande, calzini e canottiere, che vanno direttamente in fase lavaggio.


Li ritengo atti basilari di sopravvivenza urbana.

Non contento della mia straordinaria attività di casalingo, mi sono preparato la pasta al forno con la mozzarella comprata ieri. Lo Spar sotto casa ne ha una decente proveniente dalla Campania. Costa un occhio di Polifemo rispetto all’Italia, ma ogni tanto si può fare uno strappo all’economia, purché non si esageri. Già ho rinunciato a comprare i fazzoletti monovelo da 50 cents a pacco passando a quelli da 1 euro perché in pratica mi soffiavo il naso sulle mani. È un attimo poi che queste dispendiose abitudini ti portino a indugiare nel lusso.

Mentre attendevo che il forno facesse il proprio dovere, con mia sorpresa sono arrivati a casa CE e genitori. Da quando tre settimane fa lei ha firmato il contratto d’affitto non ha mai abitato qui. In compenso ogni due-tre giorni passava a portare roba in casa. Montagne di roba. Ho cominciato a temere che si trasferisse qui con tutta la famiglia, poi quando oggi il padre mi ha salutato dicendo che lei e la madre tornavano in Ecuador martedì, mi sono tranquillizzato.

Col padre ogni volta che ci siamo incrociati mi sono sempre sentito un po’ imbelle nell’interagire. Non sapevo mai in che lingua parlargli, tra inglese, spagnolo e italiano, e il cervello mi si bloccava.

E ogni volta lui mi parla sempre con un italiano stile Papa Bergoglio.

Andata via l’allegra famigliola e consumato il mio lussuoso pranzo, ho dato un’occhiata a qualche foto che ho scattato ieri sera. Mi sono reso conto che lo smartphone è una rovina per qualsiasi sana abitudine.

A me piace scattar foto per avere dei ricordi personali.
Pazienza se vengon fuori brutte o storte o storte e brutte insieme: non devo mica esporre in una galleria. E riguardando una foto penserò Ehi, ora ricordo: quella volta ero brutto e storto in quel posto là!

Questo meccanismo, date le possibilità molteplici offerte da uno smartphone, si trasforma in compulsivo. Fotografo molte cose inutili e di cui non ricordo neanche il motivo per cui ho deciso di immortalarle.

La foto seguente è un esempio:

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Ed ero sobrio, ma non ricordo cosa mi avesse colpito. Forse la neve che aveva cominciato a cadere, prima che diventasse sozza e nera.

Non ho cancellato la foto, anzi ho deciso che ne farò un progetto artistico perché vivendo in un’epoca di artisti non posso sentirmi da meno.
Si intitolerà:
Globi luminosi gialli attaccano passanti distratti/Sembra neve ma è forfora e per questo nessuno si siede sulla panchina
Attrezzatura: Samsung S3 vintage (c’ha un paio d’anni ormai, un pezzo da museo) + supporto di due braccia fornite di mani che reggono lo strumento
Esposizione: in genere non mi espongo affatto, poi co’ sto freddo figuriamoci, meglio rimaner coperti
Filtro: biglietto del tram arrotolato, cartine Rizla Silver
Effetti: indesiderati anche gravi.

Prezzo: 1 milione di euro oppure una caramella Goleador gusto cola che qui non si trovano.

Non è che da ubriaco puoi sentirti onnipotente solo perché sei ebbro di-vino

Questa sera si è tenuta la cena di Natale tra colleghi.

Ho sempre un problema con queste occasioni.

Lo scorso anno evitai quella tra colleghi dell’ex ex lavoro (cioè due lavori fa): in primo luogo, ero così depresso dal lavoro corrente di quel periodo (cioè l’ex lavoro) da sentirmi allegro come un abete dopo l’Epifania.

In secondo luogo, era più una rimpatriata tra ammogliati/fidanzati, dove sarei stato l’unico single, a meno di non raccattare una accompagnatrice in pochi giorni. Ahimè, quella che diventerà l’ex rancorosa l’avrei incontrata solo una decina di giorni dopo.

Declinai l’invito.

L’anno precedente, però, quando ancora lavoravo per ex ex lavoro, ci andai.
Non fu un granché.

In primo luogo, era una cena buffet.
L’idea è anche simpatica, ma se fornisci pietanze che vanno tagliate, spiegami come si fa a consumarle in piedi.
La soluzione che adottai fu quella fantozziana: ingoio intero.
Non vi dico i virtuosismi con le salsicce.

In secondo luogo, quella sera fu una delle occasioni in cui tentai di violare il mio codice di condotta che mi impedisce di fare avances a donne facenti parte di luoghi abitualmente da me frequentati.
Era da giorni che mi ero interessato a una collega e decisi che quella sera sarebbe stata l’occasione giusta.

Nel momento in cui partì la musica, ebbro di vino, mi appropinquai al centro della sala baldanzoso e anche un po’ Baldan Bembo. Le presi la mano per invitarla a danzare e lì per lì mi lanciai in un baciamano.
Vidi lo sconcerto nei suoi occhi simile all’espressione che assunse Luke quando Darth Vader gli disse I am your father. Poi non so che accadde ma si volatilizzò e non la vidi più per due ore, cioè fino a quando non fu il momento di andare via.

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Ironia della sorte, ero stato io ad andarla a prendere e io che dovevo riaccompagnarla.

Ancora non so perché mi venne fuori un approccio che era già fuori moda nel ‘700: ricordo che prima di uscire di casa avevo guardato il mio cappotto e pensai “Toh, sembro uscito da un romanzo russo”. Forse l’alcool aveva ripescato quel pensiero e lo aveva riformulato a modo suo.

A parte queste sciocchezze, comunque, il motivo per cui non amo questo tipo di cene è il fatto che non mi trovo a mio agio con persone che conosco poco o non conosco affatto.

Non riesco a fare il simpatico, ad animare il pubblico o a essere partecipativo: semplicemente, taccio. Ma non per vergogna o altro: il silenzio e l’ascolto mi sembrano naturali.

Ciò che mi mette in difficoltà è invece il fatto che gli altri si possano interrogare sui miei silenzi e fare congetture.

Da un po’ di tempo a questa parte ho però smesso di preoccuparmene: se sono gli altri a porsi il problema, perché dovrei caricarmene poi io?

A maggior ragione non me ne sono preoccupato questa sera: visto che parlavano quasi tutto il tempo in ungherese, io avevo ben diritto di tacere!


Sono ingiusto. Ogni tanto qualcuno traduceva in inglese o mi coinvolgeva. Poi a fine cena sono partiti a parlare di figli e cazzate su fb (mi hanno spiegato dopo oppure ho afferrato qualche parola) e lì mi sono sforzato di pensare a cose che mi tenessero sveglio per non cascare con la testa sul bicchierino della Pàlinka, la grappa ungherese.


E poi ero troppo preoccupato dal guardarmi le spalle da Aranka Mekkanica, la quale però non ha usato nessun tiro mancino nei miei confronti, forse perché non avrebbe potuto davanti agli occhi altrui. Loro non conoscono, evidentemente, la sua natura malvagia e io ahimé non so come rivelarla.

Ma io so.
Oggi in ufficio me ne ha fatta un’altra.

Stavo andando nella cucina (un ripostiglio con un frigo, un microonde e una macchinetta per l’espresso), apro la porta e me la trovo davanti che mi fa “Buuuh!”. Chissà da quanto tempo era appostata lì dietro aspettando il mio arrivo.

A proposito di cucina, questa sera mentre stavo per uscire e recarmi alla cena, la CC mi ha bloccato dicendo “Oh, fermate che te scatto ‘na foto”.
E perché mai, chiedo io.
“Ma come, così te ricordi de sta cena, namo su non me fa perde tempo che già me girano i cojoni, secondo me sto in preciclo”.

Certo, il ricordo è mio ma il perché tu la scatti col tuo smartphone mi sfugge.

Ho sempre un problema con le foto: non so come pormi, non so sorridere, non so fare nulla.
Allora adotto la posa Oscar Wilde, perché un punto d’appoggio è la cosa più rassicurante che esista.

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E a quel punto debbo ancora stupirmi degli approcci d’antan?

Non è che se hai difficoltà ad andare in rete tu non possa fare il calciatore

È veramente triste a volte rendersi conto di quanto siamo diventati dipendenti da internet.

L’ho realizzato ieri sera, dopo una giornata trascorsa in giro.

Ho varcato il Danubio per andare a Buda e visitare la città alta. Volevo godere del panorama, ma ieri l’unica cosa di cui si poteva godere era nebbia. Tanta lattiginosa nebbia. Molto suggestiva, debbo dire la verità. Era nebbia di una certa qualità. Ma pur sempre nebbia, insomma, vista una nebbia le hai viste tutte, direi.

La cittadella era deserta. Un paese abbandonato. Sarà stata l’ora molto mattutina: mi piace alzarmi presto quando voglio fare il turista ed evitare la ressa di viaggiatori occasionali.

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Spero che guardando queste scale umide percepiate la stessa paura di percorrerle che ho avuto io

Purtroppo, quando pensi di essere solo, sul più brutto arrivano loro: i pullman. Enormi mostri preistorici che avanzano lenti e inesorabili e che si fermano solo per vomitare sul primo spiazzale libero i turisti che, come tante formiche che hanno annusato lo zucchero, cominciano a spargersi tutto intorno.

È arrivato anche un torpedone di italiani.
Mi sono reso conto che all’estero divento italianofobo. Quando odo la voce di qualche italiano mi giro per identificarne la posizione e poi allontanarmi. Ho il terrore che gli italiani possano fare all’improvviso qualcosa di imbarazzante e/o fuori luogo e che io finisca per essere loro accostato.

Il pomeriggio, invece, mi sono fermato ai mercatini di Natale a Pest, dove ho sorseggiato vino caldo all’arancia. È un ottimo rimedio contro il freddo.

E poi c’è cibo. Tanto cibo tutto a base di maiale. Anche i dolcetti secondo me contengono maiale, un po’ come in Olanda dove, almeno per quel poco che ho avuto modo di annusare, tutto sa di cipolla.

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La sera quindi ero abbastanza stanco e preferivo restare a casa.

Dopo le necessarie abluzioni e la cena, non sapevo cosa fare. La CC per fare due chiacchiere non c’era. Sono due giorni che non la incontro. Arriva quando non ci sono, posa qualcosa di suo e poi sparisce.

Niente libri: il Simenon che avevo dietro l’ho finito dopo due giorni che ero qui e per viaggiare leggero non ho portato altro. Forse dovrei passare agli ebook. Sul portatile non avevo niente. Niente film scaricati, niente videogiochi, niente di niente.

L’unica cosa che avevo da leggere era l’etichetta in magiaro del detersivo.

Gli smarpthone senza connessione sono inutili pezzi di plastica. Le uniche cose che potevo fare col mio era scorrere il calendario per programmare eventi privi di senso o testare la scrittura a dito libero.


Lo so che esistono anche tante app di intrattenimento offline, ma tendo a limitarmi nel download di applicazioni che consumano soltanto spazio e so già che non userò, complice il fatto che la batteria cala di qualche punto percentuale anche per aver solo pensato di guardare l’ora, figuriamoci quindi nell’utilizzare il telefono per scopi ricreativi.


La rubrica del telefono all’estero anche è inutile a meno di non voler spendere un patrimonio, senza Skype.

Poi ho rammentato l’esistenza di un televisore in camera mia: un Samsung a tubo catodico che forse ricorda la Cortina di Ferro. L’ho collegato all’antenna, l’ho acceso e, incredibilmente, ha cominciato la ricerca dei canali.

Non che ci tenessi particolarmente a guardare la tv ungherese. Soprattutto non comprendendone nulla.

Ci sono però due cose che, in qualsiasi parte del mondo ci si trovi, sono godibili pur non conoscendo una lingua: partite di calcio e porno.

Purtroppo in tv non c’era né l’una né l’altra cosa.

Sconsolato, mi sono cotto un pugnetto di riso da utilizzare nel pranzo del giorno successivo al lavoro e sono andato a letto alle 22:30.
Svegliandomi alle 3 pensando che fossero le 8.

Non è che un rugbista possa girovagare senza meta

È il mio ultimo mese di permanenza a Roma.
Per adesso.

Un po’ mi mancherà questa casa che tanti spunti per aneddoti interessanti mi ha fornito. Ultimamente però non ho altre curiosità da raccontare. A parte che la cinese ha passato lo scorso week end a Firenze con un “amico”: il fatto che abbia rimorchiato e sia partita per un w/e mi ha sconvolto.

Poi ho capito che si trattava di un altro cinese che va alla scuola di italiano con lei e la cosa mi è sembrata più normale, così come il fatto che in questi mesi il suo italiano sia addirittura peggiorato: se parla solo con connazionali, non fatico a crederlo.

Coinquilino invece in vista della mia partenza mi ha chiesto aiuto nel reperire un altro inquilino, chiedendo se io potessi sondare nel mio ambiente, perché vorrebbe in casa un altro che si occupa di cooperazione.

Una richiesta un po’ strana: è come se uno dicesse “Voglio affittare casa solo a un assicuratore”, oppure “A uno che progetta impianti termoidraulici” e così via.


Gli ho detto che gli avrei fatto sapere, la classica formula evasiva che uso quando in realtà non farò sapere un bel niente.


Perplesso, comunque, sono uscito per una passeggiata. Poco più in là di casa, degli operai stavano ritinteggiando la segnaletica stradale della fermata dell’autobus. La vernice si asciuga in pochi minuti: uno degli operai, per constatare la cosa, con la suola calpestava le strisce. Ho desiderato in quel momento di farlo anche io: l’operaio mi ha rivolto un’occhiataccia come se mi avesse letto nel pensiero e questa cosa mi ha preoccupato perché a volte ho proprio l’impressione che le persone mi leggano nella mente.

Ho girovagato senza meta.

A un certo punto non so perché sono entrato in un outlet non visibile dalla strada, cui si accede scendendo delle scale. Ero convinto di poter fare qualche affare, perché gli affari migliori li ho sempre fatti quando non avevo intenzione di comprare qualcosa.


O forse è una giustificazione per gli acquisti inutili.


Era una boutique per donne. O forse l’abbigliamento maschile era nascosto in un ripostiglio.


Comincia a infastidirmi questa cosa che nei negozi di abbigliamento i vestiti da donna siano all’ingresso e quelli da uomo o in fondo la sala o al piano superiore o, infine, a quello inferiore.


mara-carfagnaUn commesso che somigliava a Domenico Dolce mi ha guardato scrutandomi come fanno i poliziotti all’aeroporto. Una commessa che somigliava a Mara Carfagna – con il medesimo tipo di cranio che sembra si stia rimpicciolendo causando quella inestetica impressione che gli occhi stiano per uscire dalle orbite mentre forse è solo l’abuso di cocaina a renderli così – non mi ha nemmeno guardato.
Sono andato via.

Deciso a dare una seconda possibilità al mio istinto, sono salito su un autobus a caso. Ho assistito con vivo compatimento al tentativo di un paio di turisti tedeschi di obliterare il biglietto, fino a che non mi sono deciso a dirgli che la macchinetta credo fosse andata in tilt.

Sono sceso a Piazza del Popolo e poco più avanti ho trovato un negozio equo-solidale in cui mi sono infilato, per uscirne con paté al peperoncino e un infuso balsamico che non so quando utilizzerò perché le cose balsamiche mi nauseano. Faccio uno sforzo sovraumano per riuscire a sopportare una Halls, quando capita, nonostante la prenda a causa del naso otturato e la gola in fiamme.

Il proprietario equo-solidale mi ha trattenuto mezz’ora a parlare. Nel negozio c’era in diffusione La isla bonita di Madonna. Lui fa: “Qui dentro siamo rimasti agli anni ’80…”. “Vedo”, dico io, ridendo.

Da qui poi è iniziata una conversazione senza né capo né coda che è partita da un’apologia degli anni ’80, culminata con la visione dello spot del primo Macintosh del 1984 che il proprietario ci ha tenuto a farmi vedere su YouTube (lo spot, non il Macintosh), passando poi per lo spot Superga del 1997 con la musica dei Prodigy, attraversando riflessioni sull’arte come forma di comunicazione figlia del proprio tempo, per finire col proprietario che vuole aprire un outlet dove il vero proprietario – secondo lui – deve sentirsi il consumatore. Nel senso che il cliente entra nel negozio e deve sentirsi a proprio agio, si collega con lo smartphone alla rete del negozio e mette in diffusione la musica che vuole; se poi fa pubblicità al negozio sui social network, ottiene il 20% di sconto.


Ha detto anche altre cose sul suo progetto ma non mi dilungo.


Sono andato via contento di una cordiale chiacchierata ma chiedendomi, ancora una volta, perché io, dall’aspetto così taciturno e perennemente sulle mie, ispiri conversazioni agli sconosciuti.