Non è che se vuoi far il botto devi procurarti un petardo

Stavo pedalando placido e tranquillo e svoltavo a una rotonda in città quando all’improvviso ho sentito un BANG fortissimo che mi ha stordito uno orecchio.

Ho pensato a qualcuno che aveva fatto esplodere un petardo. Mi guardavo intorno cercando il/i colpevole/e, mentre già nella mia testa partivano invettive contro una gioventù bruciata e depravata che andrebbe rieducata con del sano lavoro operaio in Siberia.

Poi ho notato che i passanti a tutti gli angoli dell’incrocio guardavano verso di me.
Mi era esplosa la camera d’aria posteriore. Non mi ero accorto di niente né avevo realizzato.

L’episodio mi ha fatto riflettere sulla figura dell’ignaro felice.

Conosco e penso tutti conoscano persone o abbiano amici che hanno vissuto un momento in cui erano ignari felici. Quando tutti sanno o si sono accorti di qualcosa che riguarda il soggetto, tranne proprio il diretto interessato.

E se non conosci nessuno così, allora sei stato tu un ignaro felice!

Mi ricordo un episodio che mi diede tanto da pensare e che riguarda i miei trascorsi a Budapest.

Una sera in cui avevamo bevuto, il fidanzato della mia amica nonché collega di lavoro mi confessò che la sera in cui scoppiò l’amore tra loro due lui in realtà era uscito con la speranza di trombarsi la sorella di lei. C’era una scommessa nel loro gruppo di amici su chi ci sarebbe riuscito prima.


Quanta poesia in tutto ciò.


Se non che la sorella in questione aveva preparato un appuntamento-trappola a entrambi per farli uscire insieme. Quando lui si trovò all’appuntamento e comprese che la scommessa quella sera non sarebbe stata vinta, era rimasto contrariato.


La mia amica ha sempre creduto che lui fosse irritato perché gli era appena esploso in testa un palloncino con del colore all’interno (era durante lo Sziget Festival dove accade di questo e altro), ma, sempre quella sera, lui mi confessò che il motivo era la trombata saltata.


Com’è come non è, poi si misero insieme e dopo un anno e mezzo stavano progettando il matrimonio.

A me l’essere venuto a conoscenza di questa cosa mise un’ansia tremenda. Mi son sempre fatto i casi miei, giacché – come si dice – l’amore vince sempre e poi erano tutti felici e contenti e ignari.


Poi c’è qualcuno che è più ignaro degli altri, la domanda è quale sia il confine tra giusto e sbagliato nel non mettere al corrente l’interessato della verità; fai bene a farti i fatti tuoi? Fai male?


Poi il matrimonio alla fine però è saltato – non per la questione sorella – e secondo me è stato molto meglio così.

Ma da allora quando qualcuno sta per partire con una confessione scomoda – soprattutto dopo aver bevuto – io preciso che preferisco restare ignaro.

Non è che le zanzare abbondano nelle risaie perché il riso fa buon sangue

La sede dove lavoro è molto caratteristica. Praticamente, è una cascina. Milano un tempo era tutta una cascina, molto prima che i boschi cominciassero a crescere in altezza. In qualsiasi zona io mi sia trovato in queste 2 settimane scarse da quando sono qui, con qualsiasi persona io abbia parlato, mi sono sentito dire “…che poi questo quartiere non era Milano, è stato inglobato dopo…”. Ho capito che Milano un tempo era giusto lo spazio compreso tra il Duomo e Sant’Ambrogio, il resto era tutta campagna. Ecco da dove nasce il modo di dire!

Il mio ufficio si trova in un edificio che un tempo era la stalla di questa cascina. Sentendomi io spesso un asino, in genere, è la collocazione per me più adatta.

L’altra caratteristica è che in questa sede è tutto dislocato. Se vuoi scaldare le vivande per la pausa pranzo o tenerle in frigo bisogna attraversare la corte e andare in un’altra struttura della cascina. Si può pranzare all’interno di essa o nella corte, sotto gli alberi.

È tutto bello e bucolico fin quando prosegue questo fine di estate. A gennaio penso che non mi buscherò la polmonite per godere di 1 minuto di microonde.

La terza caratteristica, corollario della precedente, è che, per effetto delle dislocazioni logistiche degli edifici, la mia stalla, pardon, l’edificio del mio ufficio, non ha il bagno. Bisogna attraversare la famosa corte di cui sopra e poi scegliere tra due strutture, entrambe dotati dei servizi igienici.

Sarà un po’ scomodo in inverno mettere e togliere il cappotto giusto per andare al bagno. Credo che qui i dipendenti si siano abituati all’introversione. Al tenersi tutto dentro. Non vedo mai nessuno uscire dall’edificio durante le ore di lavoro, anche in questi giorni di bel tempo.

Sarà perché, in fin dei conti, sono nordici, son fatti così!

C’è una cosa infatti che ho notato qui. Quando si lavora, si lavora, punto. Tutti zitti, la testa fissa sullo schermo.

È una cosa ovvia.

Però mica tanto. Mi sono sempre trovato, giù, in ambienti lavorativi dove ogni tanto una battuta, uno scherzo, un po’ di caciara, veniva sempre fuori. Persino a Budapest era così: lasciando stare la mia collega (la famosa CR) che era delle mie parti, anche BB (non Brigitte Bardot) e Aranka Mekkanica, ungheresi D.O.C., si producevano in qualche momento di svago. Ancora mi sveglio di notte con gli infarti rimembrando la sonora risata di BB che frantumava il silenzio facendomi sobbalzare dalla sedia.

Un’amica monzese mi ha detto che qui a Milàn è così, si ride dopo il lavoro, all’aperitivo, mentre invece quando si lavora si lavora.

Che gente strana! Da quand’è che il lavoro è una cosa seria?!

Non è che il barbiere mangi in bianco perché evita i pelati

Una delle principali preoccupazioni quando si cambia città, è una delle principali preoccupazioni di alcune persone.

Mi riferisco a trovare un barbiere di fiducia.

Non è facile cambiar barbiere come si cambia banco salumeria. Stiamo parlando del farsi mettere le mani in testa da un estraneo.

Ho usato un metodo scientifico. Ne ho cercato uno su Google Maps nella mia zona. Ne ho trovato uno dal nome internazionale, che mi richiamava alla mente una catena di barberia che avevo trovato a Budapest. Con Budapest non aveva niente a che fare, ma mi dava l’idea di poter essere adatto a uno come me, a qualunque tipologia io appartenga per definirmi uno come me.

Il prezzario di questo saloncino recitava: Taglio 25€, Rasato 15€. E poi via via con le altre opzioni per farsi radere o rifinire barba e baffi.

Ero conscio di trovarmi a Milano e non a casa mia dove il mio barbiere mi fa 8 euro e 50 per doppio shampoo, taglio e rifiniture, ma 25 mi sembrava un po’ troppo. Potevo risparmiare 10 euro rasandomi a zero, ma anche quella cifra per uscire niente più che pelato non mi entusiasmava.

Quindi ne ho cercato un altro. Ho lasciato perdere i nomi internazionali e sono andato da “Mario”. Il salone credo che la cosa più internazionale che avesse visto era la Terza Internazionale.

Mobilia anni ’70, tutta laccata marrone. Poltroncine di pelle. Lo spruzzino con la pompetta, che mi era familiare: era lo stesso spruzzino che aveva il barbiere da cui mi portava mio nonno quando ero piccolo. Nota: aveva 80 anni e il suo salone era rimasto agli anni ’50.

Questa atmosfera familiare mi ha convinto. Anche Mario: è una persona affabile e che ti mette a tuo agio.

La macchinetta che usa ha due sole modalità: non taglia, oppure taglia solo le punte. Lo sfumato rasato non sa cosa sia.

Gli ho chiesto se poteva tagliarmi la riga – visto che di solito porto la riga di lato rasata – e lui mi ha pettinato i capelli da un lato. Non ho insistito perché credo quindi che non sia pratico della cosa e ho pensato fosse meglio non fare esperimenti.

Ho pagato comunque 15€ ma almeno non sono uscito pelato (tranne che nel portafogli, forse)!

Non è che il ciclista piromane bruci le tappe

C’era quella sera la gara olimpica di ciclismo su strada. Vincenzo Nibali era in fuga ma a una decina di km dall’arrivo cadde e si ruppe la clavicola. Il ciclismo è lo sport più infame di tutti. La beffa ti può cogliere in qualunque momento. Qualcuno può dire che è così in tutti gli sport; può accadere lo stesso con un tiro da 3 punti sulla sirena o con un rigore al 90°. Non è proprio la stessa cosa. Il ciclismo non è altro che un lento tormento, senza sosta. Se a questo aggiungi la beffa finale, comprendi quanto sia una disciplina proprio infame. C’è un aneddoto, molto noto, su Marco Pantani. Un giorno Gianni Mura gli chiese perché andasse così forte in salita. Lui rispose: «Per abbreviare la mia agonia».

Stavo seguendo la gara di ciclismo sul telefono, prima di andare al cinema. Era un’estate molto calda. Mi ricordo che anche il movimento del respiro mi faceva sudare. Il cinema era all’aperto, in un parco, in altura. All’afa però tutto ciò sembrava non importare e ti si adagiava addosso lo stesso come quando tagli un pezzo di scotch sul bordo di un tavolo, col risultato che si piega e attacca di sotto e non lo stacchi più.

In quell’estate intera non si respirava per niente. C’era afa una domenica pomeriggio a Bologna. E io avevo una t-shirt con una camicia a maniche corte sopra. Stretta. Praticamente mi stavo causando la morte per auto-soffocamento.

Faceva caldo poi a Ferrara, dove ero in piazza Castello per un concerto. Avevo trovato una postazione laterale con ottima visuale, comoda anche per appoggiarmi perché c’era una nicchia in un muro. Accanto però c’era un bidone dell’immondizia che, nel corso dello spettacolo, fu riempito fino a traboccare. Dovevo scegliere tra la comodità della nicchia (e l’essere sommerso dai rifiuti o peggio, essere scambiato anche io per un’immondizia) e il trovarmi un’altra sistemazione. Scelsi la prima, per pigrizia.

Sono sempre stato abbastanza pigro. Mi lancio nelle cose, volo di qua, atterro di là, corro di su, precipito di giù, mi infilo in situazioni scomode, ma poi cerco sempre di trovare una nicchia per riposarmi. Nel ciclismo sarei quello che va in fuga ma poi “succhia la ruota”. Succhiare la ruota nel gergo vuol dire mettersi dietro agli altri, per faticare di meno. Stare alla ruota di qualcuno, infatti, riduce la resistenza dell’aria e la fatica.

Di quell’estate ricordo che ero tornato la prima volta dall’Ungheria. Pensavo che, professionalmente, sarei stato apprezzato per i miei trascorsi. Invece ritornai poi a Budapest perché qui non trovavo niente.

Ora sto pensando di tornare per la terza volta in Ungheria, se non vanno in porto, anzi al traguardo, delle cose.

La vita è fatta di scatti e controscatti, di fughe e arresti.

Proprio come una gara di ciclismo.

Non è che il fotografo sia meschino perché pensa solo ai suoi obiettivi

Una delle mie più grandi ossessioni o ansie è quella di avere ‘la sindrome dell’impostore’; il credere, cioè, che i traguardi, i successi professionali, siano solo frutto del caso o dell’opinione sbagliata di qualcuno che non si è reso conto che in realtà non ho capacità in quel ruolo o che non sono affatto la persona che crede.

Questa paranoia non mi si palesa soltanto nel lavoro ma anche nelle relazioni sociali. Ad esempio, quando qualcuno si confida con me e chiede pareri e consigli e perle di saggezza io penso «Santi numi, questa persona mi ritiene in grado fare considerazioni autorevoli? Dove ho sbagliato? Cosa ho fatto per generare questa impressione?».

È capitato quindi che la mia vecchia CR di Budapest chiedesse il mio punto di vista su una conoscenza nata su internet. Il tale, che a fini narrativi chiameremo Tizio, dopo che lei aveva con cortesia rifiutato un invito a stare a casa sua dopo solo una volta che si erano visti qui in Italia, quando lei è tornata in Ungheria si è fatto più freddo e assente, al limite della latitanza.

CR non riesce a convincersi: perché, se l’unico interesse era una cosa sola, mostrare in precedenza un interesse e un coinvolgimento tali da far pensare altro?

E dovrei saperlo io? Sono terrorizzato da tale responsabilità cui sono chiamato a rispondere!

In realtà penso una cosa: ci sono alcuni che pensano le persone vogliano soltanto sentirsi dire cose piacevoli a prescindere che siano sincere o meno  e, quindi, non sapendo (o non volendo, in malafede) costoro approcciarsi in modo funzionale agli altri hanno come unico modo di agire per raggiungere i propri obiettivi quello di comportarsi in modo da farle fesse e contente.

Mentre dicevo ciò ho avuto un’illuminazione: sono allora costoro i veri impostori!

Persuaso che dal punto di vista dei rapporti sociali la vera impostura sia altro, ho cercato un riscontro anche in altri campi. E un episodio di ieri mi ha fornito un esempio.

Esterni. Paesaggio collinare. Neve accumulata ai bordi della strada. L’auto procede in salita. In senso contrario arrivano altre due auto che scendono. Tocca retrocedere per farle passare, causa la neve che restringe la carreggiata.

La prima auto passa, la seconda si ferma di fianco. È lo sceriffo del paese, o meglio, carabiniere, in abiti civili. Abbassa il finestrino e fa:

– Voi non resiediete qui.
– Eh?
– Qua è divieto di sosta. Sopra e sotto a entrare e uscire.

E se ne va, tra lo sbigottimento e la perplessità mia e degli altri passeggeri.

Soltanto dopo si è capito il mistero: in caso di neve, c’è divieto di transito ai non residenti.

Ecco, se costui riesce a fingersi un carabiniere, io posso essere qualunque cosa!

E quindi scelgo di essere resiediente.

Non è che i liguri in Ungheria chiedano la pasta a Pest

Sono stato a Budapest in settimana. Questa volta non per lavoro ma per un breve viaggio di piacere. Da quando l’avevo lasciata non vi ero ancora ritornato.

Non l’ho trovata molto cambiata, a parte un po’ di movimento per le strade: in questi giorni ci sono delle vive proteste per dei provvedimenti votati dal Parlamento. Il governo non risponde nel merito e sostiene che i manifestanti siano prezzolati e che dietro ci sia Soros (che a quanto ho capito secondo i complottisti è responsabile di un po’ di tutto, dal terrorismo internazionale alle doppie punte e la cellulite). Ho provato a chiedere a un manifestante a chi dovessi inviare i dati per essere pagato anche io per manifestare (un po’ di denaro in più fa sempre comodo) ma mi ha mandato a fa’ ‘n gulash.

Il gulash ovviamente l’ho mangiato ed è stata la cosa più salutare che ho mandato giù: come avevo raccontato all’epoca della mia permanenza in questo Paese, la cucina locale non è la più indicata per il salutismo. Le parole chiave sono grasso, maiale, cipolla, combinati in modi diversi ma col risultato sempre uguale: leggerezza e alito fresco tutto il dì.

Un’altra cosa che non è cambiata è che all’aeroporto c’è sempre e ancora l’imbarco poveracci: per le compagnie low cost, infatti, i gate sono posizionati esternamente alla struttura dell’aeroporto, in un capannone di lamiera (non riscaldato) raggiungibile con un percorso al freddo e al gelo. Per raggiungere l’aereo, poi, non c’è alcun autobus ad attendere i passeggeri ma un altro percorso al freddo e al gelo. E, per ricordarti che sei un poveraccio che sceglie le compagnie low cost con tutte le conseguenze del caso, ti fanno attendere al freddo e al gelo prima di salire sull’aereo.

Un’altra tradizione rispettata è che il mio zaino, come al solito, è stato messo da parte per un tampone rileva-esplosivo. È lo stesso zaino col quale da due anni vado in giro e che ha visto diversi aeroporti: sempre e solo nell’aeroporto di Budapest mi è stato, tutte le volte, controllato. Non so cosa abbia di sospetto solo per la sicurezza di quel posto.

Ho rivisto la mia CR, una sera a cena. Sono contento di averla trovata bene. Anche se con gli uomini continua ad avere contatti con gente strana: dopo aver chiuso con l’ingrugnito che si puntava un coltello alla gola per inscenare una sceneggiata degna di un melodramma, è stata con un tizio che prima di far sesso doveva guardarsi un porno. E dopo aver fatto sesso, doveva guardarsene un altro. Tra una pippa e l’altra, poi, gli scappava anche una pippata perché anche il naso vuole la propria parte.

Adesso, invece, lei è in contatto con uno che fa il fumettista e divide casa con la ex compagna, con la quale ha una figlia. Vivono da separati in casa, ma lui non può permettersi un’altra sistemazione e inoltre resta lì per la bambina. Per mantenersi disegna fumetti pornografici per una rivista: ogni tanto invia a CR qualche esempio di sua opera, domandando, poi: “ti imbarazza?”.

Praticamente è la versione nerd di quelli che mandano le foto del proprio cazzo credendo di far colpo.

Un’ultima considerazione: sono partito dall’Italia portandomi dietro una banconota da 1000 fiorini che mi era rimasta in tasca da quando me ne ero andato via. Sono tornato in Italia che nel portafogli avevo due banconote da 500 fiorini.

Più le cose cambiano, più restano le stesse.

Non è che pensi che un’auto usata sia a km0 perché l’hanno prodotta dietro casa tua

A Milano apre una nota catena internazionale di caffetterie. Le persone commentano. Chi è entusiasta, chi storce il naso, chi dice che vendere caffè in Italia sia come vendere il ghiaccio agli Eschimesi.

Dissento. Dagli Eschimesi il ghiaccio cresce in casa, mentre nel mio giardino non prosperano piante di caffè.

Quando ero al liceo ero pro boicottaggio. Di qualsiasi cosa avesse un marchio. Ero così contro nomi ed etichette che ho boicottato anche il nome di famiglia sul citofono. Non scherzo: la vecchia etichetta era sbiadita da tempo. Ci penso io, dissi credo nel 1997. Non ci ho più pensato né io né i miei per 20 anni.

Adesso non me ne importa niente dell’essere contro.
Disapprovo sempre l’omologazione culturale e la brandizzazione delle città: camminare per le vie centrali di Milano, di Parigi, di Copenhagen, di Berlino o di Budapest non fa differenza. Trovi sempre gli stessi negozi e le stesse merci. Ora a mano che non mi convincano che gli straccetti venduti da H&M – lo dico da acquirente straccione di quegli stracci – siano un prodotto tipico locale, io resto delle mie idee.

Penso anche però che la gente debba poter fare quel che le pare e scegliere cosa preferisce. Difendere e cercare qualcosa di alternativo è giusto e doveroso, inseguirlo a tutti i costi può innescare meccanismi perversi.

Per dire, la ricerca del buono, della qualità, del km 0 ci ha portato ad avere le paninoteche gourmet. È civiltà, questa?

Che a me dovrebbero spiegare se sull’hamburger ci metti strati di bacon, di mostarda, di cipolla indorata e fritta, di strutto, dell’anima de li ‘tacci del cuoco, per un totale di calorie pari al fabbisogno di una settimana, come fai ancora ad avere il barbaro coraggio di definirlo gourmet.

Comunque sono sempre pronto a cavalcare l’onda e lanciarmi in nuove iniziative. Quindi dopo l’invasione di locali bio, vegan, organic, io vorrei aprire una nuova attività: il ristorante anaerobico.

Lo sapete che l’ossigeno fa male? Sapete perché il ferro si arrugginisce? È il prodotto della combinazione, spontanea, del ferro con l’ossigeno, che insieme formano l’ossido di ferro.

Se una lastra di metallo può ridursi in pessime condizioni, pensate cosa può fare al cibo che ingerite! Noi mandiamo giù veleno! Condividete prima che cancellino!

Nel mio ristorante anaerobico potrete gustare il cibo come dovrebbe essere appena prodotto, senza la fastidiosa e imbarazzante intrusione dell’ossigeno.

Tempo di permanenza: dipende dalle vostre capacità di apnea.

Non è che l’erede al trono nuoti solo con lo stile Delfino

Devo avere un problema con gli addetti alla reception per le attività sportive. Li trovo tutti dotati di uno strano senso di ovvietà.

Mi successe ad aprile quando andai a chiedere informazioni in una palestra di Budapest.

Mi è accaduto di nuovo stamattina, quando sono andato a chiedere informazioni in piscina.

Ho deciso infatti di praticare nuoto. Non so per quale insano motivo. Sarà che nelle ultime settimane nell’acqua di rubinetto comunale hanno aumentato la concentrazione di cloro e ne sento il richiamo. Il cloro è stata una buona cosa, ha coperto quel sapore di terra che quell’acqua aveva negli ultimi mesi. Spero facciano qualcosa anche per le blatte che sbucano dai tubi: un mio conoscente se ne è trovata in casa una così grossa che non sapeva se fosse un insetto o Gregor Samsa trasformato.

Quando sono entrato nella reception della piscina mi ha accolto una zaffata di aria al cloro. Per riflesso condizionato mi è venuta sete e volevo il mio rubinetto di casa.

Al tizio che mi accolto ho detto:

– Buongiorno, volevo delle informazioni sulle iscrizioni…
– Prego, qui abbiamo corsi di nuoto

Ma non mi dire. Stavo per replicare Peccato, io cercavo corsi di tamburello!

Mi ha messo davanti una brochure indicando un riquadro:

– Questi sono gli orari.

Ha detto, mostrandosi sempre più sorprendente. Aspettavo mi dicesse che entrando in acqua ci si bagna.

– Come vedi sono indicati gli orari di inizio e fine…inizia un corso e poi finisce…

La sua spiegazione mi ha lasciato un po’ perplesso: in base al suo ragionamento, se quelli nel riquadro sono gli orari di inizio e anche di termine, il martedì e il giovedì per esempio c’è quindi un corso che inizia alle 13:30 e dura 5 ore.

– Scusami, quindi alle 20 inizia un corso o è solo l’orario di fine lezioni?

Chiedo, per metterlo in difficoltà.

– No, alle 20 finisce. Credo. No aspetta ci dovrebbe essere. Non ne sono sicuro.

L’ho mandato in tilt. Magari a quest’ora sta ancora pensando al corso delle 20.

Mi ha poi mostrato la vasca. Abbiamo incrociato una istruttrice. Lei mi ha guardato e ha esclamato Tu mica vieni quando ci sono io?.

Devo aver dimenticato di lavarmi la faccia stamattina e togliere dalla fronte la scritta TOTALMENTE INABILE ALL’ATTIVITÀ NATATORIA.


Ho una fronte spaziosa.


In ogni caso non mi faccio scoraggiare e andrò a fondo della vicenda.
O a fondo della vasca.

Non è che il naturopata soffra di attacchi di pranico

Conoscevo questa donna che, in situazioni di reciproche nudità orizzontali, le mutande dopo essersele sfilate le teneva strette nella mano. A volte le avvicinava al petto e le teneva lì.

Io pensavo fosse una qualche forma di feticismo. Non dicevo niente: in fondo ognuno ha le proprie piccole preferenze. Ad esempio a me piacciono tutte le luci accese come se fosse un set cinematografico.

Altre volte pensavo che il suo fosse invece un qualche atto new age, una forma di recupero energetico attraverso il contatto con la soggettivizzazione del capo intimo…insomma, un giorno ero curioso e glielo chiesi:

– Ma scusa, perché tieni le mutande in mano?
– E dove devo metterle? Non c’è spazio sul divano e non le butto mica per terra, che poi le devo rimettere e mi fa schifo.

Non c’è niente da fare: come dice il proverbio, la risposta più semplice è sempre quella più semplice.

Viviamo in una società che a mio modo di vedere sta perdendo di vista la semplicità.

Ricordo la mia ex coinquilina di Budapest, non la cinese ma la studentessa dell’Ecuador, che mi diede da riflettere su ciò.

Lei ha 10 anni meno di me ma ha già visto mezzo mondo, dato che la madre lavora all’ambasciata. Dopo aver tanto viaggiato – mi diceva – ancora si stupiva del modo di vivere occidentale.

Non capiva perché noi buttiamo via tutto. Facendoci caso, è vero: ormai non ripariamo più quasi nulla, quando qualcosa si rompe lo sostituiamo perché è più conveniente.


“Obsolescenza programmata” e si dice tutto.


L’altra cosa che secondo lei non aveva senso è che per acquistare 3 cose bisogna andare in 3 negozi diversi perché il commercio al dettaglio è iperspecializzato.

In Ecuador, mi diceva, in ogni via, isolato o quartiere c’è un negozio, chiamiamolo un emporio, che vende un po’ di tutto e ripara un po’ di tutto.


Volendo anche io conosco qui gente che con un cacciavite in mano fa miracoli.


Secondo lei così è molto più semplice.

Il mio primo pensiero – anche un po’ supponente devo ammettere – è stato che, in contesti di benessere economico poco diffuso, l’attività da lei descritta sia quella più immediata e congeniale per quel tipo di contesto. È difficile che un Apple Store apra nella periferia di Ibarra. È più facile che qualcuno lì per arrotondare si metta anche a riparar telefoni anche perché forse non possono permettersi di cambiarne uno a ogni minchiata idea di Tim Cook.

Ma io alla fine che diavolo ne so? Non ci sono stato lì e, in fondo, basta che funzioni come diceva il film.

Siamo sicuri che da noi il “sistema” funzioni sempre? Che renda davvero sempre e comunque le cose più semplici?

Se è così, perché allora non esiste un reggimutande da divano?

Non è che le dai appuntamento da Tezenis per stare più intimi

Entro fine maggio lascerò Budapest. Oggi ho comunicato al Tacchino la mia decisione.

Tralasciando tutti i contrattempi che ho avuto e la casa che poi mi picchiava, facendomi capire di essere indesiderato, pure la pianta di aloe è defunta dopo che tra febbraio e marzo era invece diventata un cespuglio rigoglioso. Era ora di levar le tende.

Per di più il sostituto di CR è il sosia di Sam Tarly e io non voglio essere il suo Giòn Snò.

Il Tacchino, quando gli ho parlato, ha reagito di primo acchito con Oh.

Ho già raccontato che molti ungheresi soffrono di ohite. Sia che gli si stia chiedendo di affettare una baguette in panetteria che di posare il portafoglio durante una rapina, la loro reazione sarà sempre la stessa: Oh.

Io me li immagino così in ogni ambito della loro vita.

Prendiamo ad esempio due giovani, Gabor e Judith – nomi tipici locali – colti in un momento di intimità in tutto il loro impaccio e imbarazzo come solo un ungherese è in grado di creare:

Gabor: Cara…pensavo…visto che è da un po’ che ci frequentiamo…ti…ti andrebbe di farlo?
Judith: Oh!
Gabor: Se non te la senti…va bene…
Judith: Oh no no, lo voglio!
Gabor: Oh!
Judith si spoglia
Gabor: Oh!
Gabor si spoglia
Judith: Oh…
Si stendono
Gabor: Oh!
Judith: Oh!
Gabor: Oh!
Judith: Oh!
Gabor: Oh! Oh!…O…h…Oh!!!
Judith: Oh…
Gabor: Scusa…è che mi piaci tanto…
Judith: Anche a Zoltan di Balatonfüred piaccio tanto, eppure è durato di più!
Gabor: Oh!

Non è che il pugile non si lavi solo perché ha gettato la spugna

Salve, sono Gintoki, forse vi ricorderete di me per post come Non è che il palestrato riverente si alleni facendo le genuflessioni.

Sono andato in palestra a chiedere informazioni.

Quando sono entrato ho notato che mancava il pavimento. Ho pensato stessero in ristrutturazione, eppure quando c’ero passato davanti giorni addietro la struttura sembrava operativa. Che avessero deciso di chiudere sapendo del mio arrivo?

Prego? Mi fa la ragazza alla Reception
Ehm…siete aperti vero? Dico alludendo al non-pavimento
Sì sì, non farci caso
Un po’ difficile non farci caso (ri-alludo)…Comunque, posso avere delle informazioni?
Certo! Tanto per cominciare, questa è una palestra!
Ah e vedo che vi allenate nella simpatia
Prego?
Sì, dicevo sembra un posto simpatico…riguardo gli accessi?

E mi sventola davanti un foglio, dicendo che quelle sono le tariffe più basse di tutta Budapest.

Quando mi ha invitato a fare una ricognizione della palestra, ho capito il motivo di prezzi così stracciati. Anzi, straccioni.

I macchinari risalgono più o meno all’epoca Sovietica. Qualcuno è fuori servizio. Le barre di ferro dei sostegni dei tapis roulant sono così arrugginite che anche il batterio del tetano ha paura di prendersi il tetano. Le panche hanno i bordi smangiucchiati.

Ho detto che sarei ripassato. Magari insieme a qualche ispettore dell’ufficio igiene.

C’è un’altra palestra a 7 minuti a piedi da casa.
Non vi sono manco entrato perché la porta d’ingresso aveva i vetri così sporchi che non erano più trasparenti. Un foglio di carta scritto a penna indicava gli orari. Un cartello OPEN di quelli con le lucine a led verdi-blu-rosse che vendono i bengalesi era mezzo fulminato e recava la scritta PEN.
Se tanto mi dà tanto l’interno non doveva esser tanto curato.

C’è ancora un’altra palestra nella stessa zona. Questa è invece una di quelle iper professionali, con accesso solo tramite badge e scansione ottica, parcheggio riservato con taglio delle gomme di avvertimento quando non ti impegni abbastanza nell’allenamento.

Hanno una sorta di club fedeltà cui ci si può iscrivere. La presentazione sul sito sembra quella di una setta religiosa. In corsivo degli estratti:

  • Unisciti a noi e sarai un membro della comunità Life1. Saremo molto felici di darti il benvenuto tra noi.
  • Il nostro team ti ispirerà e motiverà a raggiungere i tuoi obiettivi di fitness.
  • Potrai essere un membro di una comunità energica e orientata al movimento.
  • Gli allenamenti regolari e il nostro gioioso team ti daranno la giusta energia.
  • I nostri club sono totalmente climatizzati e ricchi di luce naturale. L’ambiente è amichevole e confortevole.

Le macchine sono di ultima generazione, con schermo e connessione internet, allenamenti super personalizzati, con personal trainer così personal che ti seguono anche a casa per controllare se in cucina tu stia calibrando bene proteine e carboidrati.

La retta costa così tanto che credo alla fine sia semplice seguire un regime alimentare ferreo: se ti iscrivi non ti restano soldi per mangiare.

Infine, sempre nei paraggi, c’è una palestra di arti pugilistiche. Ma non so se sono pronto a essere tiranneggiato da un ex pugile magiaro come trainer. Non so perché ma l’idea non mi suona simpatica.

Quindi facciamo che per ora faccio footing sul lungoDanubio dietro casa.

Non è che il palestrato riverente si alleni facendo le genuflessioni

Forse mi iscrivo in palestra.

Mi sorprendo da solo mentre me lo dico e lo scrivo.
Non sono mai stato in vita mia in un posto simile. Non so manco cosa ci sia in una palestra e cosa si faccia. Nella mia immaginazione la gente va a bersi il Gatorade.

C’è una palestra a cento metri da casa mia. Forse domani entro per chiedere informazioni.

Il percorso di avvicinamento ad essa l’ho preso molto alla larga. Allo stesso modo in cui mi approccio a una donna.

Sabato l’ho notata. In realtà sapevo della sua esistenza da quando mi sono trasferito in questa zona, ma non l’avevo mai considerata fino alla settimana scorsa. Ho iniziato a cercare informazioni su di lei sui social. Stamattina ci sono passato davanti osservandola più a lungo. Domani, come dicevo, tenterò un primo informale approccio per vedere come va e se ci sono margini per una frequentazione da parte mia.

Qui a Budapest il fitness va molto. Almeno a giudicare dalla quantità di uomini che girano in t-shirt anche a gennaio, con le braccia larghe e tese tipo Robocop. Forse fanno la ceretta alle ascelle e dopo spruzzano un deodorante troppo alcolico e hanno dei bruciori.

Inoltre hanno una forma strana, gonfi e impettiti verso la parte alta con una testolina minuscola e ristretti verso il basso con due gambe sottili.

Un tipico palestrato ungherese

Più che per la forma fisica – la mia disciplina sportiva, il lancio dei coriandoli, non tollera eccessi di muscolatura – è per occupare il tempo libero. I miei appuntamenti con lo storytelling in spagnolo sono purtroppo cessati. Il narratore, un messicano, è stato rispedito in patria per fornire un contribuente in più cui esigere il conto del muro di Trump.