Non è che vai dal barista per avere un parere espresso

Non scrivo da un po’ in questo spazio.

Il motivo è che sono stato un po’ preso. Lavoro, studio – a proposito, settimana scorsa un altro esame in meno. Ne mancano 3 più la tesi – vita privata, non mi consentono di ritagliare un momento in cui mi dico, come facevo di solito, adesso mi isolo (mentalmente) e metto giù qualcosa.

In realtà il tempo, volendo, lo si trova. Diffido sempre delle affermazioni “Vorrei…ma non trovo il tempo”. Se una persona analizzasse il modo in cui spende il tempo durante una giornata sono certo che, nella maggior parte dei casi, troverebbe spazi in cui avrebbe potuto dedicarsi a quel che dice di voler fare.

È una questione di volontà.

È un po’ quella che mi manca ultimamente.
La colpa è del mio rapporto con internet.

O nostro Signore della Rete, dacci oggi la polemica quotidiana per aver di cui parlare.
Mi sono reso conto che tutto ciò che mi viene in mente da scrivere è legato a qualcosa che ho letto o di cui mi hanno raccontato (e che hanno letto su internet) o sulla quale hanno un parere e che è legata a vicende che non si svolgono nella mia vita quotidiana né hanno attinenza con essa né in/con quella della persona che eventualmente me l’ha raccontato.

Considerato che, allora, cerco di orientare la mia vita secondo 3 regole:
1) Non sei obbligato ad avere un’opinione su tutto;
2) Puoi provare ad avere un’opinione su tutto, ma non sei obbligato a rendere partecipi gli altri a tutti i costi;
3) Puoi provare ad avere un’opinione su tutto e rendere partecipi gli altri: assumiti la responsabilità delle stronzate che dirai;
cerco di disintossicarmi dall’invasione non richiesta di informazione ed evitare di applicarmici troppo.
Viva la desistenza.

Per rinfrescarmi le idee ho messo i piedi a mollo perché ragiono con i medesimi.


Comunque la cosa sembra aver funzionato e mi sento pronto a scrivere più regolarmente.


 

Non è che il sovrano temuto dagli studenti sia il Re gistro

Ogni esponente di una generazione pensa che quelli della successiva vivano in condizioni migliori. Certo, se come i nonni si è vissuti la guerra, hai una carta bella pesante da giocarti. “Eh, la guerra” e tutti zitti.

Certo, viviamo nel più lungo periodo di pace che la storia ricordi. Certo, oggi non moriamo di tisi e non ci curiamo con i salassi e le sanguisughe. Certo, oggi posso aprire Youtube e guardare un tizio che spiega come diventare miliardario.


Così generoso da condividerlo con noi. Io invece mi ritirerei a vita privata lontano da tutto, forse è per questo che non sono miliardario: non me lo merito.


Il problema è che tutte queste cose sono esterne all’individuo. Di interiorità e salute mentale di una generazione non se ne parla quasi mai.

Io, ad esempio, non so se vorrei avere 20 anni di meno ed essere un adolescente di oggi. Due anni tra DAD, non DAD e Sugar DAD credo avrebbero compromesso il mio equilibrio mentale. E credo stiano mettendo a dura prova quello dei ragazzi di oggi.

Anche senza pandemia non credo che le cose sarebbero migliori. Chat di genitori e registro elettronico sono due cose che sono contento di non aver mai vissuto. In particolar modo il registro elettronico è ai miei occhi uno strumento del male. È assolutamente giusto che si possa essere informati e ci sia un controllo e sulle attività svolte e sul rendimento, eliminando (credo) assenze ingiustificate e cattivo studio, ma a mio avviso toglie anche responsabilità e senso dell’organizzazione allo studente. Ne ho presi di 4 a scuola e a casa non lo dicevo mai: non è un vanto, però mi adoperavo per recuperare (e lo facevo), in autonomia e senza pressione, riorganizzando il mio lavoro di studio.

Mi immagino invece nel mondo di oggi: in tempo reale il mio 4 che viene notificato tramite app a mia madre, che mi aspetta a casa per rimproverarmi, per poi riferire il tutto a mio padre quando ritorna a casa, che mi rimprovererà ed entrambi mi metteranno sotto sorveglianza affinché io studi per recuperare, dandomi loro una scadenza entro la quale farmi interrogare, trasformando lo studio in un momento performativo e nient’altro, con conseguenti aumenti di stress.

Qualcuno troverà che sia giusto così, non discuto. Credo che però controllo e sorveglianza costanti non preparino alla vita ma semplicemente a essere entità robotiche.

Non è che il cuore batta…chiunque

Sono a corto di eventi curiosi da narrare, la cosa più interessante che ho fatto in questi due giorni è la visita di idoneità agonistica.

Non sono in genere ansioso durante le visite mediche ma ero preoccupato che uscisse fuori qualcosa che non andava. Può capitare quando l’ultimo ECG l’hai fatto 15 anni fa.


E dire che sono un sostenitore della medicina preventiva. Dal mio punto di vista il medico non è uno specialista da cui farsi visitare solo quando si sta male: beninteso, fare esami inutili non serve a niente ed è controproducente, ma ci sono alcune cose – come cuore, colesterolo, organi riproduttivi – che a mio avviso ogni tanto andrebbero controllate in via preventiva.


Da bambino, situazione abbastanza comune, avevo un soffio al cuore, sparito con la crescita.
Non avevo idea di cosa fosse: il cuore soffiava? Tipo i gatti? O c’era qualcuno che soffiava sul cuore (sembra il titolo di un romanzetto: Qualcuno soffiava sul suo cuore, il nuovo libro di Favio Bolo)?

Finché un giorno una dottoressa gentile non mi ha spiegato che cosa fosse.


Anche se quella del medico è una figura ‘neutra’, non collegata quindi a un sesso, nella mia vita ho riscontrato che i medici donna sono in genere più gentili e simpatici dei colleghi uomini.


L’altra caratteristica è che il mio muscolo cardiaco è un po’ più spostato a sinistra del normale. E non è una metafora politica per darmi del comunista.

Lo studio dove ho svolto la visita era alquanto lontano da dove abito, praticamente la parte opposta di Roma (non conoscendo nessuno avevo chiesto in Federazione di indicarmene uno. Ho chiesto alla persona sbagliata perché il coach invece ha poi indicato altri studi più vicini, con delle dottoresse, tra l’altro!). Ho trovato buffo attraversare la città con un vasetto della mia urina – mi era stato chiesto il campione – nella borsa. Ho temuto per tutto il tempo che si aprisse e si spargesse o che oppure a me venisse un colpo all’improvviso e le ultime cose che avrei avuto con me sarebbero state un libro di Michael Chabon (bellissimo) e un campione di urina.

Ho smesso di pensare al mio campione – campionissimo! – quando due signore hanno iniziato a battibeccare sull’autobus.

All’improvviso, infatti, si era diffuso sul mezzo un odore simile a quello dello spray insetticida per mosche, abbastanza fastidioso. Una delle due signore ha accusato un gruppo di turisti – tedeschi, credo – saliti in quel momento di aver sparso tale puzzo. Forse era una specie di amuchina o forse loro non c’entravano nulla.

Signora 1: Guarda questi, vengono in Italia e pensano che c’abbiamo le malattie, je facciamo schifo, si dovrebbero vergognare, che schifo


A essere sincero pure io ho paura di prendere malattie sui mezzi pubblici: credo vengano lavati all’interno solo quando piove approfittando del fatto che le guarnizioni dei finestrini perdono acqua.


Signora 2: eh ma Roma fa schifo, guardi, io me ne sono andata…
Signora 1: ma che cazzo c’azzecca Roma, c’avete sempre in bocca Roma Roma Roma, se non je piace se ne vada e non rompa i cojoni
Signora 2: ma non ce l’ho con Roma o i romani, ma lei è una stronza, dico è colpa di chi l’ha ridotta così, è colpa loro
Signora 1: macché loro, questi non so del Terzo Mondo, sono bianchi, parlano inglese, ma che cazzo dice


Veramente anche nel “Terzo Mondo” si parla inglese, Signora 1 forse lo ignora.


Signora 2: ma che cazzo ha capito, io parlo dei politici
Signora 1: eh e chi li ha votati, io no di certo, forse lei
Signora 2: e manco io, ma guarda questa

Insomma sono andate avanti così e io pensato che le città fanno schifo perché la gente è sempre rissosa e irascibile come delle bertucce.


Chiedo scusa alle bertucce per la battuta poco felice su di loro.


Allo studio sono arrivato in largo anticipo e ho potuto dare un’occhiata all’arredamento. In un post di qualche tempo fa mi sono soffermato a analizzare la bruttezza dei quadri delle sale d’aspetto degli studi dei medici generici.

Una categoria a parte è invece rappresentata dagli studi di dottori specializzati in chirurgia estetica: rimango sempre colpito dalla loro pacchianeria.


Non frequento studi di chirurgia estetica; capita, come in questo caso, che lo specialista che debbo vedere sia ospitato in tali ambienti.


Questa qui è la reception, molto sobria:
2015-10-06 16.15.22

Ma nulla in confronto alla beltà e alla leggiadria di questa imitazione in plastica di una scultura di un torso di donna dalla tonalità rosso cremisi variegato, posta accanto al divanetto della sala d’attesa:

20151006_161259

La visita è stata breve ma intensa. Il mio cuore è a posto. Almeno fisicamente. Quasi speravo vi trovasse qualche stranezza e la spiegasse. Ad esempio il perché diventi così rumoroso quando si tratta di donne.

Ricordo un episodio, quando feci preoccupare una ragazza. La stavo abbracciando da dietro – niente scene erotiche, era un abbraccio puro e Castro (essendo come detto il cuore spostato a sinistra); ci piacevamo ma era ancora quella fase di attesa della prima mossa. All’improvviso il mio cuore iniziò a martellare come un muratore bergamasco. Lei si staccò e si girò dicendo: Ma hai il batterista dei Nile nella giacca o sei solo contento di abbracciarmi?


Dato che forse li abbiamo presente solo io e Zeus, allego un file esemplificativo delle virtù musicali dei suddetti Nile:


Io credo di aver balbettato qualcosa e poi aver indicato un piccione morto per distrarla. Quando la riabbracciai lei poi mi disse: Ma mi fai preoccupare, non è che ti faccio venire un infarto?

Il cuore è strano. E poi ha questo vizio di fare scherzetti al cervello: sempre quando si tratta di ragazze, si diverte a premere sull’arteria che va verso il cranio cosicché la testa comincia a comportarsi in modo poco lucido per la mancanza di ossigeno.

Come si suol dire sempre: il cuore ha le sue minchiate che la ragione poi se ne sbatte.

Chiusa la parentesi cardiovascolare, sull’autobus del ritorno mi è capitato di cedere il posto a una signora e lei, facendo l’espressione che di solito si fa quando si guarda un neonato o un gattino in una cesta, ha esclamato: Ma che carino!

E allora ho pensato che le città non facciano proprio tanto schifo.

Se il proprietario di casa è triste vuol dire che paghi l’afflitto?

Le vacanze son finite ed è tempo di resoconti. In particolare, avendo trascorso il soggiorno per la terza volta di fila con Airbnb, credo sia tempo di fare un piccolo bilancio della mia esperienza con questo sito.


COS’È AIRBNB?
È un sito tramite il quale potete trovare un alloggio per le vacanze, dalla singola stanza a un intero appartamento, il tutto messo a disposizione dagli iscritti. Per non incappare in fregature è bene controllare foto e recensioni, poi dal momento in cui prenotate vi viene bloccato dal sito l’importo del soggiorno sulla carta di credito, ma verrà effettivamente versato a chi vi ospita solo 24h dopo il check-in.


Non so che tipologia di persona possa essere uno che affitta la casa in cui vive a un estraneo lasciandogli le chiavi. Per quelle che sono le mie esperienze – tre, come dicevo – bisogna essere secondo me persone un po’ stravaganti.

La mia prima esperienza fu nel 2013, a Berlino, a casa del buon Sebastian, che affittava la propria stanza mentre lui dormiva invece sotto un ponte nel camper di famiglia.

Non sto scherzando: abitava sotto un ponte della S-Bahn. Una volta gli chiesi il perché, lui disse che era andato a Bonn a vivere con la ragazza e a lavorare e nel frattempo la casa – che appartiene alla famiglia – la affittava, poi la love story finì e quindi è tornato a Berlino ma ha continuato ad affittare la casa (“sossoldi“). Aveva una bandiera gigante del Partito Pirata tedesco all’ingresso e durante il giorno capitava di trovarlo in cucina perché utilizzava il wifi di casa che gli serviva per lavorare (all’estero pare vada alla grande il telelavoro).

Il secondo fu Ivan di Bruxelles l’anno dopo: un tipo abbastanza anonimo e con l’aria afflitta come uno che ha ricevuto una inopportuna cartella di Equitalia. Sicuramente divorziato – c’era una stanza per bambini tenuta in ordine e completa di tutto, tranne che di bambini, presenti solo nel week end -, aveva una bella casa, con tanti libri sull’arte e un pianoforte d’epoca. Ma la cosa più interessante è che aveva piazzato nel proprio studio un’amaca giusto in mezzo la stanza. Non ho capito di cosa si occupasse, una volta scambiando due parole gli chiesi cosa stesse facendo, lui disse sto scrivendo la tesi per il mio master. Gli chiesi di cosa si occupasse come lavoro e lui fece vari versi che potremmo traslitterare in buuh beeeh pffff prima di dire no è troppo avvilente per parlarne. E non ho più affrontato l’argomento.

All’epoca poi sul mio profilo Airbnb avevo questa foto di Kurt Cobain:

Lui pensò fossi io, perché quando prenotai per me e un amico mi chiese: il tuo amico è il gatto? e io pensavo fosse una battuta. Se non che, quando ci incontrammo disse: Ah, non ti riconoscevo, hai tagliato i capelli.

Non sono stupito del fatto che fosse divorziato, ma che avesse trovato una moglie.


Per la cronaca: non c’è alcuna somiglianza tra me e KC e penso sarebbe più facile scambiarmi per uno dell’ISIS.


Infine quest’anno è stato il turno di Elizabeth la viennese, 32 anni, che affitta casa mentre lei va a farsi ospitare dal ragazzo. Aveva il frigo pieno di cose bio-vegan e l’appartamento era caratterizzato dal fatto di non avere mobilia. Nel salotto c’erano un divano e un tavolo e nient’altro: incassata sotto le finestre c’era un minilibreria contenente di tutto, dalle spezie ai soprammobili alle piante. Tutto tranne i libri, che occupavano invece la parete opposta, impilati da terra l’uno sull’altro contro il muro. Si alternavano volumi sulla storia della musica, libri di economia, guide (tipo “impara lo yoga in 10 minuti” o qualcosa di simile) e biografie come quella di Kurt Cobain.

La camera da letto era in linea con il non-arredamento del salotto: al posto di armadio o cassettiere, aveva una libreria Ikea fatta a scomparti quadrati in cui riponeva alla rinfusa tutti i propri abiti. Sulla parete opposta, appesi a dei ganci appendiabiti non c’erano ovviamente dei soprabiti – che senso avrebbe, in una casa dove era tutto al contrario! – ma c’era invece in bella vista tutta la sua collezione di reggiseni: ai quali confesso di aver gettato un’occhiata di sfuggita, constatando che la ragazza avesse buon gusto ma che fosse anche un’ingannatrice perché alcuni sembravano palesemente imbottiti.

Non vedo l’ora di partire per una nuova vacanza e scoprire chi mi ospiterà! Sarà un allevatore di cicale che per hobby suona il fagotto? Una stilista per giganti che in soggiorno ha un baobab? Lo scopriremo solo viaggiando.

La perifrastica non è passiva per gusti sessuali, che si conosca almeno questo

– Ragazzi, ma a voi è capitato che dopo la laurea non abbiate più avuto voglia di aprire un libro?
Io ci rifletto su e mi dico che sì, dopo la laurea voglia di studiare ancora immediatamente dopo non me ne venne, né per concorsi né per master, volevo lavorare e basta. Prima che io articoli in parole tale pensiero, lui aggiunge:
– Cioè tipo vado all’edicola, compro la Gazzetta dello Sport e poi penso Noo, tutte queste pagine, chi ha voglia!

Ah. Capisco. Intendeva in questo senso.

Non mi stupisce. Anni fa, all’università, discorrendo di attualità e scoprendolo alquanto all’oscuro di alcuni fatti del mondo, sbottai dicendo:
– Ma lo apri un giornale, ogni tanto? (Vergognandomi poi del mio atteggiamento da maestrino che, purtroppo, non è affatto migliorato col tempo)
– Certo. La Gazzetta dello Sport!

Lo disse ridendo, ma son sicuro che diceva sul serio. Non fu una sorpresa, considerate le sue difficoltà con le doppie e con i congiuntivi. Una volta lo sorpresi a scrivere “abborto”, convinto che si scrivesse così.

L’esempio vivente che qualcosa che non funziona nel sistema universitario – ma anche in quello della scuola dell’obbligo – c’è.

Oggi pomeriggio riflettevo su queste cose e ho montato tra me e me una polemica. In fondo, a cosa serve conoscere l’italiano? È davvero necessario, al giorno d’oggi, sapere quando mettere un congiuntivo in una frase o avere un vocabolario ampio o conoscere il vero significato di un “piuttosto che” per non usarlo in modo barbaro a pene di segugio? A me sembra sempre meno rilevante.

A proposito di membri: mi è tornato in mente un altro aneddoto del periodo universitario.

Dovevamo, in vista di un esame, studiare una sentenza della Corte Suprema Americana, scegliendola da una rosa di documenti fornitici dalla docente. Mi cadde l’occhio su una sentenza riguardante un’accusa di sodomia. Dato che a volte soffro di regressione mentale sino allo stadio “seconda media”, ridacchiando dissi a un collega (non “abborto”, un altro):

– Ehi, perché non porti questa sulla sodomia?
– Ah ah ah!…Ehm, cos’è?
– Come cos’è?
– È il sadomaso? È quello?

Ecco, forse questo è uno di quei casi in cui conoscere l’italiano può servire e fare la differenza nella vita. Immaginate di trovarvi ospiti a casa di qualcuno, per una cena conviviale, due chiacchiere davanti a un buon vino, insomma in un’atmosfera molto tranquilla. Il vostro anfitrione, con garbo e gentilezza, vi propone a un certo punto:

– Le andrebbe un po’ di sodomia?
E voi, non conoscendo il significato della parola, per non deludere il padrone di casa risponderete una cosa simile
– Certo! Però giusto un po’, che devo guidare, non voglio fare tardi…

Magari poi può piacervi, ma almeno sappiatelo prima!

A parte queste amenità, ho ripreso a pensare alla mia polemica sull’importanza dell’italiano, provando a estenderla anche agli studi umanistici. Ne parlavo qualche giorno fa con una persona, che ha un’impronta di studi del tutto opposta alla mia. Così come io posso citare aneddoti su ateniesi e spartani, lei può dilettarsi a parlare di matematica e mitocondri. Io, premettendo che sono il primo a sostenere la necessità dello studio delle materie scientifiche, difendevo l’importanza degli studi umanistici per il contributo che portano alla costruzione mentale di un individuo.

Il caso dello studio del greco, contro il quale la mia interlocutrice puntava il dito,  è per me significativo: più che studiare la lingua per sapere come diavolo si coniughi un ottativo – esercizio che trovo fine a sé stesso -, la cosa che per me ha un valore è lo studio di un pensiero, di una cultura che ha influenzato i secoli a venire.

Sull’importanza di non mettere da parte la cultura umanistica la penso quindi come Umberto Eco e mi piace condividere questo articolo che riporta un dibattito tra lo scrittore e Andrea Ichino: Il liceo classico? Assolviamolo ma va riformato.

Per coincidenza, in questi giorni leggevo un libro di Tiziano Terzani. In Asia, si intitola, ed è una raccolta di suoi articoli dalla Guerra del Vietnam agli anni ’90, frutto di viaggi e periodi di soggiorno in vari Paesi asiatici. C’è un punto in cui mi ha colpito quando parla della dittatura militare in Birmania:

Il livello di educazione del Paese s’è abbassato notevolmente a causa della povertà. Secondo uno studio dell’UNICEF più di un terzo dei bambini dai cinque ai nove anni non va a scuola. Due terzi di quelli che frequentano abbandonano dopo le elementari. Il problema non sembra preoccupare i militari. Al contrario. I soldati sanno che è dagli intellettuali che viene l’opposizione al loro potere: è nelle università che sono nati i movimenti per la democratizzazione e la modernizzazione della Birmania. È per questo che le università, svuotate tre anni fa, sono ancora chiuse e occupate dall’esercito.
[L’aureola psichedelica, Pagan, febbraio 1991]

Ecco, l’ho trovato significativo. Credo che la cultura tutta contribuisca a modernizzare e democratizzare un Paese. Sembra un’ovvietà, ma fino a quanto lo è?

E poi aiuta le persone a trarsi d’impaccio quando parlan loro di sodomia, che non è poco!

L’inquietante senso artistico delle sale d’attesa

Da bambino (ecco un altro post in cui esordisco con “da bambino…”) ricordo che nella sala d’attesa del mio pediatra era appeso un quadro che mi turbava alquanto.

Ne ho dei vaghi ricordi, comunque rammento che era una composizione cubista raffigurante quelli che credo fossero un uomo e una donna, uno verde e l’altra rossa o forse il contrario, intenti a danzare. O a fare la fila alla cassa del Penny Market, non mi era ben chiaro.

Ebbene, mi spaventava. Saranno stati quei volti ovali senza tratti somatici, quelle gambe a piramide rovesciata, non lo so. Avevo paura di guardarlo anche se poi mi voltavo sempre a dargli un’occhiata fugace.

O forse non era il quadro a darmi problemi ma il fatto stesso di andare dal pediatra, che ogni volta doveva sempre ficcarmi l’abbassalingua in gola per guardare le tonsille, provocandomi conati di vomito (oltre che una sgradevole sensazione di soffocamento). Anche se andavo lì per una bolla su un piede, lui doveva sempre dare uno sguardo alle tonsille! E pure quando pareva dimenticarsene, poco prima di abbandonare lo studio – quando credevo di avercela fatta – sentivo che diceva a mia madre “ah, guardiamo la gola” e tirava fuori dal taschino l’odiata stecchetta di legno.

Nel corso degli anni ne ho viste molte di sale d’attesa. E non ho potuto far a meno di notare che in ognuna di esse c’è almeno un quadro a decorare una parete. Un quadro dalla dubbia bellezza, per non dire dall’aspetto orripilante.

Al che mi son chiesto se esista un mercato di fornitori di materiale da sale d’attesa negli ambulatori e negli studi medici, che, oltre a sedie scomode e tavolini bassi di vetro con finte riviste che nessuno legge, rivende dipinti e croste fatti in modo tale da non mettere a proprio agio il paziente.

E ho riflettuto su tutto ciò mentre ero in una sala d’attesa nuova di pacca, chiedendomi se non fossi io ad avere un pessimo gusto estetico e a capir poco e niente di quadri, mentre osservavo quest’opera posta proprio di fronte a me:

20150113_184115

In realtà credo che questo quadro rappresenti una forte denuncia sociale, io vi leggo una critica alle abitudini di alcuni padroni, che comprano cibo pregiato alle cocorite mentre una mamma cagnetta lillipuziana ha i figli legati a una catena e non può uscire il sabato sera con le amiche.

Vi prego datemi il vostro parere in merito, il dubbio mi attanaglia.