Non è che puoi usare un compressore per gonfiarti i muscoli

Cerco di essere un pianificatore.
Per l’autunno ho in genere qualche attività nuova da iniziare, o un’impresa (personale) da intraprendere. Quest’anno, invece, mi sono fatto cogliere impreparato al rientro dalle vacanze. O, più probabile, non ho voluto pensare a qualcosa di nuovo.

Il lavoro resta uguale. Nel novembre scorso mi ero posto come obiettivo il cambiare azienda entro il termine del 2023. Mancano ancora 4 mesi, ma nei precedenti non è che io abbia avuto delle opportunità. Se ne va, intanto, un’altra persona dal mio reparto. È la terza in 6 mesi. Siamo ormai Dieci piccoli indiani.

Gli impegni sportivi sono i soliti. Il costo della piscina aumenta, la retribuzione di quelli che ci lavorano mi sembra di no. È quella che in economia si chiama legge dei rendimenti marginali: al crescere delle entrate della società il dipendente resta marginale.

Ieri alle 20 ero l’unico iscritto presente e inserviente e istruttore mi han lasciato da solo in vasca. Mentre nuotavo a un certo punto ho pensato che se mi fosse venuto un malore non ci sarebbe stato nessuno pronto a ripescarmi. Non era un pensiero d’ansia. Era più un “però dai che fine del cazzo” e poi ho pensato a qualche titolo sui giornali del tipo “Si poteva evitare”, “Tragedia annunciata”, e anche magari “Se nuoti da solo poi non ti lamentare che arrivano gli squali”.

Ho anche ripreso kickboxing, con la vecchia istruttrice in una nuova palestra addirittura fornita di spogliatoi. La sala attrezzi ho notato è frequentata solo da gente ipertrofica. Quindi mi chiedo: se arriva uno non ipertrofico non viene accettato, viene gonfiato in fretta oppure gli dicono Torna già gonfio?

Mi sono iscritto a un concorso ma più passa il tempo e meno mi interessa.

Mi sono iscritto alla DeeJay Ten (la corsa non competitiva organizzata dall’omonima radio), anche se ci ho provato ad allenarmi ma la corsa continua a non piacermi affatto.

Nella prossima vita voglio rinascere agenda. Di quelle però con delle vignette buffe a fondo pagina.

Non è che i Puffi siano azzurri perché del Napoli

Sono sempre stato per lo più uno sportivo da divano. Da adolescente mi limitavo alla partita di calcetto del sabato, appuntamento fisso per garantirsi di avere durante la settimana seguente un trauma contusivo/distorsivo di cui vantarsi. Anni dopo ho iniziato con la corsa ma non è mai stato un amore tra di noi. Era più un rapporto di convenienza: sto con te per tenermi impegnato.

Poi è arrivato il nuoto, poi la palestra. Attualmente mi divido tra nuoto e kickboxing e aspetto di riprendere, se la bella stagione finalmente arriva, corsa/ciclismo.

I veri ciclisti o i veri runner escono con qualsiasi condizione climatica. Ma qui subentra in me quel discorso di sportività da divano, dove ci si entusiasma per una Parigi-Roubaix sul pavé nel fango e nel letame di vacca o un Passo Pordoi al Giro d’Italia in mezzo alla neve ma non si imiterebbe mai una cosa del genere.

Lo sport davvero mi emoziona. A volte, quando voglio crogiolarmi in piacevole commozione positiva, rivedo il video di qualche impresa: un oro della Pellegrini, il mondiale di Zolder di Cipollini 2022, la 4×100 di atletica di Tokyo 2020 (che poi era 2021).

Siamo abituati, in genere, a differenziare tra sport più puri, onesti o nobili e il calcio; sia perché quest’ultimo è quello con più danaro e interessi economici, sia perché identifichiamo il calcio con una parte di suoi sostenitori: fanatici, violenti, xenofobi.

In realtà nessuno sport è immune dai mali della società. I peggiori disonesti, imbroglioni, scorretti si possono ritrovare tra gli atleti di qualsiasi disciplina. Tra l’altro non sono sicuro che alcuni atleti di altri sport sia delle persone migliori con cui avere a che fare rispetto a un calciatore. Alla fine sono tutti esseri umani, noi assistiamo ai loro sacrifici, alle loro sconfitte e alle loro vittorie, alle loro gioie e i loro pianti come fossero attori sul palco di una tragedia. Perché lo sport è una tragedia greca, attraverso gli atleti noi viviamo la nostra purificazione.

Indubbiamente almeno nella nostra società è il calcio il maggior veicolo di passioni e pulsioni: c’è chi nel difenderlo scomoda Pasolini, io lo lascerei comodo invece perché – poveretto – già troppo spesso viene chiamato in causa e mi chiedo, se fosse vivo oggi, quante persone realmente che lo tirano in ballo sarebbero sue fan.

Tra le passioni di massa il calcio resta (non so per quanto tempo) con le sue sacche di resistenza ancora un qualcosa di genuinamente viscerale, laddove altri sport danarosi e blasonati come il basket NBA o la F1 sono più che altro in gran parte uno spettacolo per ricchi annoiati.

È per questo che per me vedere lo scudetto del Napoli è assistere e partecipare a una grande comunanza di questa visceralità positiva, da anziani a bambini, ragazze e ragazzi, lì, insieme, gioiosi e felici della medesima cosa e che trovano un’identità e una dimensione diverse da quelle, divisive, create dai ruoli della vita quotidiana: famiglia, lavoro, scuola, eccetera.


Credo che sociologi diversi si siano dedicati ad analizzare questi fenomeni: lascio a Google o a ChatGPT trovare materiale esplicativo.


Ed è solo ed esclusivamente questo il senso da attribuire all’evento, laddove la retorica e chi la esprime vogliono infilarci discorsi sociali di riscatto: perché, chi ci ha sequestrati?

Tutto questo per dire che in mezzo a questo teatro di purificazione e autoaffermazione mi son commosso e ho pianto. Io sono qui, io sono con gli altri, noi siamo.


Restando sul discorso sociologico, tutto questo che viene percepito sia dai suoi partecipanti che dai suoi detrattori come una forma di esplosione ribelle (in positivo per chi festeggia, in negativo come caos dell’ordine quotidiano per chi la odia) è in realtà quanto di più conformista ci possa essere: viviamo in una società che da un lato reprime le nostre pulsioni, dall’altra, tramite l’utilizzo dei professionisti dello sport, ci permette di viverle con dosi di intrattenimento. Ma di qualcosa bisogna pur farsi.

E voi cosa volete?
Di che cosa vi fate?
Dov’è la vostra pena?
Qual’è il vostro problema?
Perchè vi batte il cuore?
Per chi vi batte il cuore?
Meglio un medicinale
O una storia infernale?
Meglio giornate inerti
O dei capelli verdi?


Non è che nel basket non puoi migliorare molto soltanto perché non puoi fare passi avanti*


* La “violazione di passi” (o più comunemente soltanto “passi”) è tra le violazioni più comuni nel basket: è il movimento di uno o di entrambi i piedi mentre il pallone è trattenuto tra le mani.


Osservando la mia scarpiera (se ne avessi una, perché in realtà le mie scarpe sono sparse tra Casa Romana e Terra Stantìa) si potrebbe dire che io sia un grande sportivo. Ho due paia di scarpe da corsa, un paio di scarpe da calcetto e un paio di scarpe da basket.

In verità sono uno sportivo tarocco, a partire dalle calzature: un paio di quelle da corsa e quelle da basket le ho prese in saldo, le restanti sono cinesate delle cinesate: perché già normalmente le scarpe sono prodotte in Asia, queste qui sono una versione asiatica di quelle fatte in Asia, in pratica un subappalto di mediocrità.

Inoltre con lo sport ho soltanto dei rapporti occasionali, che capitano quando desideri sport ma non hai voglia di impegnarti in una relazione seria con lui.

Constatato ciò, mi sono iscritto due settimane fa a un corso serale da arbitro di pallacanestro, tenuto da un arbitro che sembra un personaggio di Corrado Guzzanti, sia come aspetto fisico che come modo di parlare e fare commenti. Forse è realmente Guzzanti che prova un suo personaggio prima di proporlo in televisione o teatro.

Dopo due lezioni ho capito una prima cosa: l’arbitraggio è un misto tra una danza e un’arte marziale. I movimenti sono decisi e netti come quelli di Steven Seagal che sgomina una banda, ma eleganti e raffinati come Roberto Bolle.


Poi nel caso a fine partita ti volessero menare sarebbe meglio essere più pratico di aikido che di Lago dei cigni.


Alza-abbassa-corri
Fischia-alza-abbassa
Corri-arretra-avanza

E così via. Se sbagli una sequenza è la fine.

E poi c’è la questione del fischio, che deve essere forte, sicuro, incisivo, tagliente. Ah regà, na lama! Na lama!  – Ha urlato al corso Corrado Guzzanti. In poche parole, deve essere un fischio maschio senza raschio.

La domanda che uno potrebbe porsi è perché mai la decisione di fare l’arbitro.

In verità mi trovo in un periodo di cambiamenti, di riflessioni (e di flessioni per mantenere una forma fisica accettabile) e pensieri e quindi niente di meglio di fare un qualcosa che tenga occupati, permetta di fare un po’ di movimento e dia anche modo di lavorare sulla personalità. In pratica è un po’ come fare un corso di yoga però col vantaggio che è gratuito.12042672_10207821329836079_8000376957344191433_n

La superficie di cannucce di bambù sottostante è la tovaglietta che uso per mangiare, gentilmente concessa da Coinquilino in usufrutto.


Mi sono accorto che è il terzo post di fila il cui titolo è introdotto da “Non”. È casuale, ma ora ho deciso di proseguire per questa strada e pubblicare solo post con il “Non”. Spero di riuscirci il più a lungo possibile e non essere vittima dell’ansia da prestazione. Un po’ come quando da bambino impari ad andare in bicicletta da solo: ti riesce finché non ti rendi conto che Ehi! Sto andando in bicicletta da solo! E quindi cadi.


L’esempio della bicicletta è di vita vissuta ma potrebbe non essere esemplificativo abbastanza perché non so come sia stata per gli altri la prima volta sulla bicicletta. Magari è successo soltanto a me, da buon sportivo tarocco.


L’esperto di grammatica è in decadenza perché declina.

Con il capolinea ho un rapporto difficile.
A cominciare dalla declinazione al plurale della parola: come si dice?

Il plurale delle parole composte italiane è sempre fonte di grattacapi eppure la grammatica dovrebbe essere uno dei capisaldi del sapere di ogni buon cittadino, a mio avviso. Lo so, quelli come me sono sempre dei guastafeste, pronti a correggere il minimo errore altrui. Ma io lo considero solo come uno dei miei passatempi, come recitare degli scioglilingua o sistemare i portapenne. Non dirò altro perché non voglio che facciate i ficcanasi (o le ficcanaso) sulle mie abitudini. Dicevo che volevo parlare di capolinea e, perché no, anche di capistazione.


GRAMMAR-GAME
Adesso provate a ricavare le varie regole grammaticali per la formazione del plurale dalle parole scritte in corsivo.


La prima volta che presi un autobus, da solo, anni e anni fa, sbagliai direzione perché non lessi bene la tabella. Accortomi di aver sbagliato autobus, pensai Fa niente, arriverò al capolinea e prenderò quello giusto. La cosa più logica sarebbe stata invece scendere appena resomi conto dell’errore e aspettare alla fermata sul lato opposto, ma il mezzo si era allontanato sempre di più dal centro città attraversando terre desolate, disabitate e anche un po’ zozze, quindi non me la sentii di scendere.

L’episodio si verificò altre due volte, su altrettante linee diverse. In entrambi i casi raggiunsi il termine della corsa in zone brulle e anche brutte e la cosa mi spinse a odiare i capolinea.

L’ultimo episodio mi si è verificato di recente: allo stazionamento degli autobus (cui stavolta ero arrivato intenzionalmente) al gabbiotto informazioni chiediamo quale fosse e quando partisse il mezzo per la nostra destinazione. L’omino ci scruta e poi esclama, con tono accusatorio, “Voi dove eravate?”. Ho pensato che stesse per dirci “So cosa avete fatto la scorsa estate”, ma invece ha aggiunto
“È partito proprio adesso alle vostre spalle, e stranamente una volta tanto era puntuale”
“E quando parte il prossimo?” chiedo, con candida ingenuità
“Eh non si sa. Vi conviene prendere il treno”.

Nella vita i capolinea sono come il mio primo viaggio in autobus. Innanzitutto è imprevisto e poi te ne accorgi del suo approssimarsi dal cambiamento del contesto intorno a te, che diventa sempre più arido e meno accogliente.

Le relazioni, ad esempio, terminano in questo modo. Almeno per quel che ho vissuto: prima del capolinea c’è un percorso desolante (più o meno lungo, dipende dalla resistenza dei singoli allo scoglionamento) che si fa sempre più accidentato e frustrante. Rimanete solo tu e un tizio ubriaco sul sedile in fondo che puzza come gli avanzi di un ristorante cinese.


Non è vero, basta con le battute scorrette sui ristoranti cinesi.
Nei ristoranti cinesi non buttano via nulla e quello che avanza dai piatti lo ricompongono per formare altri piatti.


La morale è: sali sugli autobus giusti e, se proprio sbagli, scendi prima del capolinea.


Comunque ho notato che capolinea si può declinare al plurale anche come capilinea.