Non è che la foca monaca non possa essere laica

Non sono mai stato a scuola dalle suore. Le persone che ci sono state hanno tutte ricordi orribili, tra punizioni corporali e minacce del tipo «Se ti comporti così tua madre muore».  Certo, magari sono metodi educativi che io non comprendo, ma se questi che conosco da adulti si sono scristianizzati o sono diventati bestemmiatori seriali, forse qualcosa non ha funzionato. Ma il mio potrebbe solo essere un bias cognitivo.

Oggi sono andato in una scuola gestita dalle suore. La dirigente, o Madre Superiora o non saprei come altro definirla, minacciava i bambini con frasi tipo «Voi sprecate il cibo e in Africa non hanno niente. Dovrebbero rinchiudervi a vita in un collegio senza mangiare e senza bere». Il discorso era rivolto a tutti ma il dito era puntato contro uno dei bambini più piccoli, che si rendeva ancora più piccolo e stava per scomparirmi davanti. Un fenomeno fisico affascinante.

Per la mia presentazione avevo bisogno di far scorrere delle diapositive in PowerPoint. Avevo pensato di chiedere a uno dei bambini di farmi da assistente, ma la suora ha intimato loro di non muoversi, sgridandoli e invitando una maestra a mettersi al pc.

Ho chiesto alla maestra di scorrere le slide su e giù quando glielo chiedevo. Ho visto lo smarrimento formarsi nei suoi occhi. Un altro fenomeno fisico affascinante!

Le ho detto «Usa le frecce». Lei ha iniziato a muovere a caso la freccia del mouse sperando che accadesse qualcosa. Perché non lasciano fare le cose ai bambini, che ne capiscono di più?

La suora superiora con me è stata invero molto gentile. Mi ha fatto trovare il caffè, servito con il servizio buono, e i pasticcini. Non smetteva di ringraziarmi, di dirmi quanto ero buono, bravo e bello. Quando mi sono congedato mi ha abbracciato e baciato sulle guance.

E io nella mia testa pensavo che da piccolo per lei di sicuro sarei stato uno di quei bambini cui lei avrebbe prospettato di morire infilzato su uno spiedo gigante mentre dei diavoli mi arrostivano a fuoco lento, cantandomi nel mentre tutto il repertorio di Gigi d’Alessio.

Non ero un bambino scostumato né maleducato, ero vivace e avevo problemi a stare fermo a lungo e composto sulla sedia. Il più delle volte ero scomposto. Altre, decomposto (capita di svegliarsi la mattina in preda a una zombieficazione incipiente).

Eppure da grande sembra io sia diventato bravo buono e bello.

Sarà perché non sono andato dalle suore?

Non è che sei uno specialista di antifurti perché allarmi

Ogni persona ha delle piccole paranoie legate al vivere quotidiano. O almeno è quello che mi racconto per convincermi, per sentirmi meno strano. Una delle preoccupazioni più forti che avverto è quella di essere scambiato per un malintenzionato.

Ad esempio, per il progetto che in questo periodo sto seguendo mi trovo a frequentare le scuole.


Molti adulti dovrebbero tornare a frequentare le scuole, ma questo è un altro discorso.


Ogni volta che metto piede in un istituto scolastico penso che il personale all’ingresso chiamerà la polizia, allarmato dall’arrivo di un estraneo sconosciuto.

Quando, invece, mi trovo a camminare per una strada dove non c’è nessuno a parte un’altra persona, cerco di attuare una serie di strategie per rendere nota la mia presenza e mostrarmi innocuo. Innanzitutto tossisco: un malintenzionato arriverebbe alle spalle di soppiatto, invece, senza farsi notare. Magari poi cambio marciapiede. Uso il telefono. Mi fermo a guardare una vetrina.

Insomma compio tutta una serie di azioni che credo non facciano altro, invece, che farmi sembrare più sospetto. Stile investigatore da strapazzo che sta pedinando qualcuno. Manca solo il giornale finto.

Ci sono poi negozi in cui, quando giro tra gli scaffali per cercare qualcosa di interessante, temo di essere scambiato per uno che vuol taccheggiare. Però in quel caso forse non sono io a pormi il problema ma è il commesso asfissiante che tende a stare appollaiato alla spalla del cliente (l’unico presente), nella speranza che questo compri qualcosa.

L’unico risultato, invece, è infastidirmi è spingermi ad andarmene e non tornare mai più.

Non so da dove si origino in me simili fissazioni. Forse tendo ad assorbire troppo la sovra-rappresentazione negativa del mondo che ci circonda. Invece di trovarmi dalla parte di chi ne è spaventato, mi trovo dalla parte di chi ha timore di essere scambiato per lo “spaventatore”.

O lo spaventapasseri.

Non è che il ciclista piromane bruci le tappe

C’era quella sera la gara olimpica di ciclismo su strada. Vincenzo Nibali era in fuga ma a una decina di km dall’arrivo cadde e si ruppe la clavicola. Il ciclismo è lo sport più infame di tutti. La beffa ti può cogliere in qualunque momento. Qualcuno può dire che è così in tutti gli sport; può accadere lo stesso con un tiro da 3 punti sulla sirena o con un rigore al 90°. Non è proprio la stessa cosa. Il ciclismo non è altro che un lento tormento, senza sosta. Se a questo aggiungi la beffa finale, comprendi quanto sia una disciplina proprio infame. C’è un aneddoto, molto noto, su Marco Pantani. Un giorno Gianni Mura gli chiese perché andasse così forte in salita. Lui rispose: «Per abbreviare la mia agonia».

Stavo seguendo la gara di ciclismo sul telefono, prima di andare al cinema. Era un’estate molto calda. Mi ricordo che anche il movimento del respiro mi faceva sudare. Il cinema era all’aperto, in un parco, in altura. All’afa però tutto ciò sembrava non importare e ti si adagiava addosso lo stesso come quando tagli un pezzo di scotch sul bordo di un tavolo, col risultato che si piega e attacca di sotto e non lo stacchi più.

In quell’estate intera non si respirava per niente. C’era afa una domenica pomeriggio a Bologna. E io avevo una t-shirt con una camicia a maniche corte sopra. Stretta. Praticamente mi stavo causando la morte per auto-soffocamento.

Faceva caldo poi a Ferrara, dove ero in piazza Castello per un concerto. Avevo trovato una postazione laterale con ottima visuale, comoda anche per appoggiarmi perché c’era una nicchia in un muro. Accanto però c’era un bidone dell’immondizia che, nel corso dello spettacolo, fu riempito fino a traboccare. Dovevo scegliere tra la comodità della nicchia (e l’essere sommerso dai rifiuti o peggio, essere scambiato anche io per un’immondizia) e il trovarmi un’altra sistemazione. Scelsi la prima, per pigrizia.

Sono sempre stato abbastanza pigro. Mi lancio nelle cose, volo di qua, atterro di là, corro di su, precipito di giù, mi infilo in situazioni scomode, ma poi cerco sempre di trovare una nicchia per riposarmi. Nel ciclismo sarei quello che va in fuga ma poi “succhia la ruota”. Succhiare la ruota nel gergo vuol dire mettersi dietro agli altri, per faticare di meno. Stare alla ruota di qualcuno, infatti, riduce la resistenza dell’aria e la fatica.

Di quell’estate ricordo che ero tornato la prima volta dall’Ungheria. Pensavo che, professionalmente, sarei stato apprezzato per i miei trascorsi. Invece ritornai poi a Budapest perché qui non trovavo niente.

Ora sto pensando di tornare per la terza volta in Ungheria, se non vanno in porto, anzi al traguardo, delle cose.

La vita è fatta di scatti e controscatti, di fughe e arresti.

Proprio come una gara di ciclismo.

Non è che il chirurgo sia bravo con l’ortografia perché sa mettere i punti

Mi si sono strappati due paia di jeans in una settimana. Era prevedibile. Io i jeans li uso, strauso e ne abuso fino al logoramento totale.

Ne ho altri nell’armadio che sono in pratica nuovi e che non indosso mai perché non sono più della mia taglia. Negli anni mi sono ristretto e rimpicciolito. Il curioso caso di Benjamin Gatton.

Forse sto scomparendo. A volte desidero farlo davvero. Andare via verso destinazione ignota (agli altri: io saprei dove sto andando) e lasciare un messaggio con scritto «Non cercatemi. Sto bene. » con tanto di punto alla fine, perché anche i punti stanno scomparendo. Le persone non usano più mettere il punto al termine della frase.

Pigrizia o cambio di interpretazione? Più la seconda, forse. Se utilizzi il punto in un messaggio, chi ti legge pensa che tu abbia un tono severo, freddo, distaccato. Alla peggio, che tu sia innervosito.

Da un certo punto in poi, qualcuno ha iniziato ad attribuire al punto, fino a quel momento un onesto e neutrale duro lavoratore dell’ortografia, un carattere negativo. Il punto, d’un tratto, si è ritrovato demansionato.

Non è solo dai messaggi scritti che sta sparendo la punteggiatura. Ho notato che anche nelle conversazioni informali a voce la gente non mette il punto. I discorsi sembrano sospesi, senza mai uno stacco. Io ti parlo, poi tu mi parli sopra, poi un’altro interviene: in mezzo, nessun punto. Al massimo, mettiamo puntini sospensivi…per far sembrare di aver detto tutto quando in realtà non stiamo dicendo niente.

Poi ci sono quelli che non vanno mai dritto al punto. Aprono parentesi, mettono due punti, introducono subordinate, ma il punto non lo piazzano mai.

Ecco perché vorrei sparire. Per andare alla ricerca di un punto fermo.

Non è che se ti dicono che c’è un problema col clima tu pensi si sia rotto il climatizzatore del SUV

È bellissimo quanto sta accadendo nel mondo in queste settimane. Il formarsi e concentrarsi di un sentimento comune sul clima, una spinta che chiede cambiamenti in positivo per il Pianeta, ha mosso tante coscienze riunitesi nelle manifestazioni di stamattina. Tutto ciò porterà risultati?

La mia percezione è purtroppo no.

Non è disprezzo, il mio, anzi.
È rassegnazione di fronte all’ottusità.

Se c’è chi risponde «Vaglielo a dire a chi non arriva a fine mese e fa la spesa al discount di mangiare eco-sostenibile, equo-solidale, di stagione, km0, no CO2, no sfruttamento dei suoli», prima di andarsene sgasando, bollando come tendenze radical chic la salvezza generale penso che qualcosa ancora non funzioni bene.

Sì d’accordo, ammetto le mie colpe. Confesso: ho mangiato pizza gourmet con la mozzarella di una bufala cui prima di strizzare le tette hanno offerto una cena e un mazzo di fiori perché il corteggiamento è importante.

Sono un privilegiato, è vero. Dal mio trono fatto di libri pseudo-impegnati (al Monte dei Pegni) e appropriazioni culturali new age – a proposito sto cercando un’app per la meditazione Zen, consigli? –  punto il dito perché non ho una mazza cui pensare.

Punto il medio. Contro quello che se ne va sgasando. Contro quell’altra scimmia – con tutto il rispetto per il primate – che ride perché «Eh sì dai scendo in piazza e così si abbassa la temperatura uh uh». Contro quell’altro ancora che dice che è solo una macchinazione dei poteri forti. E ci metto pure quello che, con l’aria paternalista da pretino di borgo medioevale (senza offendere i preti dei borghi medioevali), con una pacca sulla spalla ti dà la sua benedizione perché «Noi adulti abbiamo sbagliato ora tocca a voi giovani cambiare le cose». Loro, e di tanti altri come loro, è la giustificazione per non fare un cazzo. Perché quello che critica, quello che denigra, quello che dispensa buoni consigli è sempre quello che non fa un cazzo.

Prima questo! Prima quest’altro! I veri problemi! Perché non fate questo??

Vorrei dire bravo amico, sei conscio di tanti problemi. Nel concreto, cosa fai quindi tu per risolverli, quindi, oltre a inquinare l’aria con le tue ciarle?

Ma non do la colpa solo all’ignavo. Credo che ormai sia davvero troppo tardi e per salvarci dovremmo semplicemente spegnere tutto, da un giorno all’altro.

Che utopia. L’altro giorno si sono spenti per qualche ora i social ed è stato il caos. Io manco me ne ero accorto, sarà che non avevo niente da dire e quindi non mi servivano. È una vita, in realtà, che non ho niente da dire.

Anche se una cosa da dire l’avrei. Una piccina piccina.

Andatevene un po’ a fanculo.

Non è che al fotografo non bisogna dargli Korda

Ho conservata la tessera di un’edizione di un film festival di Bologna. Ricordo andai a vedere un documentario sulla nota foto del Che scattata da Alberto Korda e la sua successiva evoluzione come icona. Mi trovavo nella Turrita di passaggio, mi ero fermato da un amico dopo essere stato a Firenze. Ero andato a consultare un libro per completare la tesi triennale. Era l’unica copia esistente in Italia e l’avevo trovata.

A quel tempo ero ancora ingenuo. Non che io ora sia un’aquila, una volpe o qualunque altro animale cui vengono attribuite caratteristiche umane. Pensavo però che il mio lavoro di ricerca sarebbe stato riconosciuto e apprezzato. Invece il mio relatore neanche lesse la tesi. L’assistente che mi seguiva mi congedò con un “Ah bene”.

Non mi ricordo più chi fossi, all’epoca. Cosa volevo, cosa cercavo, cosa desideravo. Sono diventato ciò che mi aspettavo? Di certo, no. Attualmente cambio aspettative e direzioni di mese in mese: figuriamoci preventivare tutto ciò vari anni fa.

Era la prima volta che prendevo l’alta velocità. Ricordo mi si tapparono le orecchie e mi venne la nausea. Era anche la prima volta che facevo un lavoro del genere, di ricerca e ricostruzione di dati e storie. Forse per questo mi sembrava qualcosa di grandioso. Mi sono sempre sentito un po’ in ritardo rispetto agli altri nel fare le cose.

La tessera del film festival, col suo laccetto, la tengo appesa al mobile porta-cose che tengo vicino al letto. Vorrei dire che mi ricorda qualcosa, mi serve come memoria di chi ero, eccetera eccetera. In realtà no. Mi piace soltanto la sua grafica.

Non è che il barbiere che ti rade male faccia una figura barbina

Tra gli accorgimenti e le attenzioni che metto in atto per contrastare la gastrite c’è quello di dire no al caffè. Non è un gran problema perché non ne sono mai stato un gran bevitore, inoltre non ne sento il bisogno per svegliarmi. Come surrogato sono passato all’orzo. E devo dire che il caffè d’orzo fa proprio schifo. A parte in qualche bar dove invece è più che accettabile. Così sto facendo un censimento mentale dei posti dove posso berlo senza disgusto: potrei magari sviluppare un’app alla fine, un Orzoadvisor.

Ieri ero al bancone di un bar, attendendo la mia tazzina. Prendo una bustina di zucchero, la agito con aria altera e…questa mi vola via dalle dita. Con circospezione mi guardo intorno fischiettando sperando che nessuno mi abbia visto e ne pesco un’altra.

Purtroppo non riesco ad avere la nonchalance di chi compie ogni gesto in maniera precisa, efficace, deciso e senza sbavature. Ad esempio come l’uomo d’affari in questo video


Il video è tratto da Playtime – Tempo di divertimento di Jacques Tati. Un film che caldamente consiglio di vedere.


Io inciampo, urto, faccio cadere, divelgo, perdo.

Questo però mi ha permesso di sviluppare quella che chiamerei “disinvoltura di ritorno”. Constatato che mi è impossibile fare le cose senza compiere qualche atto goffo, ho consolidato in me la noncuranza del lasciar scorrere via.

Esempio. Una volta passeggiavo, di sera, con un gruppo di persone. Il marciapiede era delimitato da una linea di paletti di ghisa, sormontati da una graziosa sfera del medesimo materiale dalle dimensioni di una palla da baseball, posizionata giusto ad altezza ginocchio umano.

Caso ha voluto che il mio di ginocchio incontrasse la suddetta sfera in maniera alquanto violenta.

Invece però di contorcermi a terra in preda al dolore, con le mani in faccia come un calciatore cui hanno tirato la maglia – non fatelo mai a casa, tirare la maglia può causare danni gravissimi al corpo umano, loro sono atleti e per questo riescono a reggere il trauma – al momento dell’impatto ho finto di fermarmi, con l’aria concentrata e lo sguardo rivolto in alto, come se mi fossi all’improvviso ricordato di un mio commilitone in Cappadocia.

Dentro di me stavo morendo e desideravo una fiala di morfina, ma all’esterno ho ostentato tutta la disinvoltura di questo mondo.

Il disinvolto di ritorno ha un potere che il disinvolto generico non ha: questi come reagirebbe a un evento tanto imprevisto da mettere in crisi la sua nonchalance? Non saprebbe cosa fare! Il disinvolto di ritorno sa sempre come rimediare a una figuraccia, invece. Anche a costo di fingere che stava di proposito affondando con l’intera scarpa in una pozzanghera: voleva testare l’idrorepellenza della calzatura.

Rivelo comunque un segreto. Nell’intimo di quattro mura mi lascio anche io andare e metto da parte la mia disinvoltura di ritorno.

Ad esempio, l’altro giorno ero a casa. Ho estratto dalla tasca un fazzoletto di carta, senza neanche tirare fuori il pacchetto. Un gesto ampio, secco, la mano che sale in alto e, poi, con un colpo di polso si abbassa per spiegare il fazzoletto in un gesto continuo, morbido ma deciso. Il fazzoletto si spiega e mi finisce con un angolo in un occhio.

Mi sono messo le mani in faccia rotolandomi per terra chiedendo un calcio di rigore.

Non è che ti serva il navigatore per cercare la tua strada

Si avvicina la data del matrimonio del mio amico e io penso soltanto a due cose: il vestito e la busta. Che sommate mi danno SPESA. Anzi, GROSSA SPESA. Lo so che sembra un discorso gretto, ma ultimamente sono molto sensibile al tema della povertà. La mia. Attendo il momento per svoltare, come dicevano i giovani. Non lo attendo mani in mano, direi anzi che mi sto dando ben da fare. Ho solo l’ansia che una volta svoltato io possa trovare:

  • la via bloccata
  • una strada senza uscita
  • una brutta strada
  • un posto di blocco (nel caso decida per svoltare verso attività illecite)

Al matrimonio non sarà presente un altro mio amico. L’amico che si sposa mi ha detto che non ha pensato a invitarlo perché non è che poi negli anni ci sia stato chissà quale rapporto. Avevo quasi pensato di chiedergli di invitarlo, poi mi son detto che il matrimonio è il suo e non ho mica diritto a dire chi deve invitare e forse sarebbe stato anche poco rispettoso. Il non-invitato però si aspetta di esserci e temo il momento in cui dovrò essere io a dire che è un non-invitato. E più passa il tempo da quando ho saputo che fosse un non-invitato e più mi sento in colpa senza neanche aver capito per cosa in concreto.

Ho già parlato della mia attenzione verso la povertà. Purtroppo sono sempre stato molto distratto e incline a perderla, l’attenzione. Così se ho un surplus di denaro in tasca mi trovo a spenderlo. Ma vuoi mettere avere degli occhialini da nuoto specchiati? O un balsamo da barba al profumo di foresta canadese? Che io neanche ci sono mai stato e per quanto ne so quello che ho nel barattolo potrebbe essere profumo di Vergate sul Membro al tramonto.

Mi occupo anche della povertà in generale, quella seria di cui dovremmo preoccuparci tutti. Una insegnante mi ha fatto i complimenti «…per quello che fate. Meno male ci siete voi che li aiutate, così non vengono qua in Italia». Cara maestra, non è proprio così il concetto, sarebbe un po’ più lungo ed elaborato.

Missing the Point

In piscina, stasera, mentre sfoggiavo i miei nuovi occhialini specchiati che mi facevano sembrare un moscone, sono stato agganciato da IL FISSATO. È uno che si cronometra anche il tempo della minzione, stressa il figlio perché si muova a insaponarsi e racconta agli altri – cui non gliene può fregar di meno – dei km di corsa che fa a settimana. Io avevo appena messo il piede sulla scaletta per uscire dalla vasca, boccheggiando. Neanche il tempo di emergere dall’acqua che lui mi fa

– Senti, per andare più veloce che devo fare?

Io lo guardo perché penso mi voglia prendere per i fondelli. Non è che io sia proprio un sirenetto. La butto sull’ironia

– E lo chiedi a me?!
– Sì sì ti vedo veloce

Sconvolto dalla responsabilità che mi sta dando, provo ad azzardare una risposta tecnica. È una questione di scorrevolezza, è quel che vorrei dirgli.

– È una questione di SCIOGLIEVOLEZZA.

È ciò che ho detto. Sarà stata la carenza di ossigeno nel cervello o la cronica mia goffaggine sociale.

Adesso me lo immagino in un negozio Lindt alla ricerca della mitica scioglievolezza del Lindor.

Se è porno tolgo:

Non è che il cimitero sia un posto underground

Per chi ama un certo tipo di musica va messo in conto che il concetto di ‘underground’ non ha riferimenti metaforici ma è da intendersi alla lettera. Il fruitore di concerti –  che per forza di cose non dovrà soffrire di claustrofobia e/o attacchi di panico, altrimenti è meglio che cambi genere – deve abituarsi a locali sotterranei che in certi casi definire dei ‘buchi’ è anche un complimento.

Il microclima all’interno, possa soffiare anche il vento siberiano fuori, è sempre a livelli amazzonici. C’è anche quell’umidiccio tipico della foresta, poi ti rendi conto che è solo sudore (tuo e degli altri) che condensa su soffitto e pavimento.

Il calore, come in un’incubatrice, favorisce la crescita. Dei prezzi. Acqua a 2,50 €, nota birra tedesca di Brema a 4 €. Mi fermo perché in genere svengo alla terza riga del listino e non so cosa venga dopo.

L’altra caratteristica di posti del genere è che sono diventati più di tendenza e quindi capita ci sia gente che paga un biglietto non per seguire il concerto ma giusto per stare a pascolare, bere, parlare, passeggiare avanti e indietro pestando i piedi. Pare che stia lì solo perché si ottengono coiti. Solo che non ho mai capito se la musica sia propiziatrice dell’accoppiamento o meno: io mi sono sempre e solo concentrato sul seguire il concerto e sono sempre tornato a casa senza coiti.

Sono stato a sentire un gruppo sabato scorso. In uno dei buchi così descritti. Si esibivano gli I Hate My Village, gruppo formato da Fabio Rondanini (Afterhours e Calibro 35), Adriano Viterbini (Bud Spencer Blues Explosion), Alberto Ferrari (Verdena), Marco Fasolo (Jennifer Gentle).

Il locale aveva anche dei ventilatori. Li hanno accesi a concerto finito.
Fortuna che mi vesto a cipolla e posso denudarmi. Anche le mie ascelle alla fine comunque erano a cipolla.

Non è che per Sherlock Holmes la scuola fosse elementare

«L’insegnante è un vero eroe!» firmato, Paperino&Paperoga. Così si chiudeva una vecchia storia su Topolino in cui i due cugini venivano inviati, quali cronisti del Papersera, a fare un servizio sull’attività da insegnante calandosi per un giorno in queste vesti. Dopo essere stati calciati (letteralmente) via da Università, Licei, scuole medie, una scuola elementare li accoglieva e i risultati erano, com’è prevedibile, disastrosi e massacranti per i due.

L’insegnante è un vero eroe. L’ho sempre pensato. Ora che però sto toccando con mano la realtà, occupandomi, come raccontavo in un altro post, di far delle lezioni tematiche in giro per scuole, ne ho compreso il senso appieno.

Dopo l’esperienza traumatica in un ITC devo dire che bambini e ragazzini di elementari e medie che ho successivamente incontrato sono stati molto bravi ed educati, interessati e curiosi. Sarà stato perché la figura mia di estraneo incuteva un po’ di timore reverenziale il che li teneva buoni.

Ciò nonostante, dopo 5 ore se ne esce provati e io mi chiedevo: come fanno le insegnanti tutti i giorni?


La spiegazione «tanto fanno tre mesi di vacanza all’anno» non è contemplabile, ma se non siete convinti provate a dirla a un docente e poi, se vi restano integre le dita, scrivetemi.


Quando questa esperienza finirà la inserirò nella lista delle “Cose divertenti che non farò mai più”.

Alcune cose che ho imparato:

– La lavagna interattiva è fantastica, finché funziona. E se funziona, a non funzionare bene è il pc a essa collegato;
– Se il pc funzionava bene è stato poi sicuramente rubato;
– Quando un insegnante vede avvicinarsi un genitore teme sempre che questi abbia qualche rimostranza sul perché suo figlio è stato richiamato o ha preso un brutto voto. E l’insegnante non l’ammetterà mai, ma vorrebbe replicare «Perché suo figlio è un imbecille, caga il cazzo e non studia»;
– I ragazzini di oggi sono fortunati. Ora in classe fanno il “progetto merenda” e insieme studiano un menù settimanale bilanciato per l’intervallo. Ai miei tempi nessuno se ne fregava che facevi merenda con le merendine riciclate del discount, asciutte come il Sahara e dalla densità di un stella di neutroni, che ti si piantavano nell’esofago e là restavano per le ore successive;
– Ogni classe di età ha il suo puzzo tipico tal che in un paio di giorni riesci anche a distinguerli e puoi trovare le classi a fiuto;
– Fuori le scuole ci sono volontari della Protezione Civile o vigili o chi altri che all’ingresso e all’uscita regolano afflussi/deflussi e fermano il traffico. Sempre ai famosi miei tempi, ci si gettava nelle strade come mandrie di bufali d’acqua che entrano nei fiumi, tra automobilisti che smadonnavano e altri che sudavano freddo perché arrotare un bambino non è una cosa carina per la propria fedina penale.

Non è che servisse un gatto contro il ratto delle Sabine

Sembra che la notizia più letta e condivisa in questi due giorni sia quella di un ratto incastrato in un tombino e io sono sconvolto da tanta banalità e superficialità: qualcuno si è interessato al tombino? In che condizioni era? Come si sentiva? No.

Allora ci ho pensato io e sono andato a intervistare il tombino protagonista, suo malgrado, del fatto.

G: Salve Signor Tombino
T: Mi chiami pure Tom
G: Signor Tom, lei si è trovato a essere il tombino più chiacchierato della storia, lo sa?
T: Guardi, non vorrei sembrare scortese, ma non me ne importa niente. Cioè apprezzo anche il lavoro che ora sta facendo lei, ma a me, guardi, queste cose non interessano proprio e non vorrei sembrare che non so accettare qualcosa di buono…non lo so non sono bravo in queste cose, non sono come mia sorella. Lei è una…grata
G: Vogliamo parlare dell’incidente? Quale è la sua versione?
T: È successo tutto così in fretta. Io stavo lavorando come al solito, in mezzo alla puzza dei vostri scarichi, che, parliamone, non vorrei essere volgare ma che cacchio mangiate? Comunque, ero al lavoro, quando arriva ‘sto ciccione di topaccio…
G: Mi scusi, non facciamo body shaming, per cortesia. Sia politically correct
T:…quando arriva un topo chubby che voleva fare il figo
G: Voleva fare il figo? Con chi? Perché?
T: Ma con la topa, no? La compagna lo infamava dicendo che si era appesantito – sfido, con quello che mangiano: ormai nella spazzatura con quello che buttate mangi come da Cracco. E comunque, lui voleva zittirla perché si sa come siamo noi maschi, dobbiamo far vedere che la femmina ha torto gonfiando i muscoli. Al topo però si era gonfiata solo la panza. Comunque lei a dirgli che non ci passava nel buco, lui invece «Ma taci, zoccola! Ti faccio vedere io»
G: Ah, la insultava pure?!
T: Ma no, zoccola nel senso dell’animale. Pantegana, sorca, non mi faccia fare l’elenco dei dialetti
G: Sì ma si contenga che alcuni dei vocaboli che ha detto nel linguaggio comune hanno significati più osceni
T: Certo che siete proprio strani! Fate i puritani, le sconcezze no, occhio a non dire questo, poi però non visti ne fate di cotte e di crude. Siete maestri nel nascondere la vostra merda, e fidatevi che so quel che dico per il lavoro che faccio
G: Senta, torniamo al topo
T: Niente, poi sto deficiente era convinto che dove passa la testa passa tutto il resto. Ma se sei un microcefalo mentre hai il girovita di una betoniera, mi sa che non ci passi proprio!
G: Poi cos’è successo?
T: Poi un casino, arrivo di curiosi, i vigili, i pompieri…tutti lì appresso a quest’imbecille, non potevo manco augurarmi che lo lasciassero perdere – chi è causa del suo mal pianga sé stesso, no? – perché poi me lo dovevo piangere io. Poteva andare peggio, comunque, abbiamo scongiurato un arrivo più indesiderato
G: Cioè? Gli amici del topo incastrato?
T: Macché, un tizio con l’armadio pieno di felpe e divise. Fosse venuto pure lui a farsi un selfie me ne sarei andato
G: Alla fine comunque l’hanno liberato. Tutto è bene…no?
T: Capirai, quanto me ne fregasse…senta comunque, giacché è qui, me lo farebbe un favore? Vorrei utilizzare il mezzo per un messaggio sociale, uno slogan, diciamo, che vorrei la gente adottasse affinché capisca che non può buttare qualsiasi cosa nello scarico perché poi ve la ritrovate nei mari, nei fiumi, nei laghi, in quello che mangiate
G: Prego
T: La tua merda è come la peperonata. Più ne mandi giù, più ti torna su.

Una conversazione illuminante. E voi, avete mai intervistato un tombino?