Non è che il raffreddore ti faccia sprecare Tempo

– Sai che lei è qualche giorno che si fa sentire poco e niente?
– Avrà capito di essere petulante e insistente [Ma non ti lamentavi che rompeva le palle? Ora è un problema se non si fa sentire?]
– No, ieri mi ha scritto dicendo che ha conosciuto un ragazzo al mare
– Ah [Buon per lei! C’è gente che va a prendere Sole e alla fine prende sòle…]
– Cioè dopo che mi rompeva le ovaie, lei e l’ex, che non poteva vivere più, che stava disperata, mo’ trova uno ed è tutto a posto
– Eh beh [Come dicono in Giappone, Kyoto scaccia Kyoto…]
– Forse sarò io all’antica, ma secondo me ci vogliono dei tempi tecnici da rispettare, dopo la fine di una storia. Non so
– Beh ci sono persone con un disperato bisogno di attaccarsi a qualcuno…

Mentre dicevo ciò avrei voluto porre una domanda: Scusa, non era andata così anche tra di noi, con tu che mi tiravi per la camicia verso di te che a momenti mi saltava un bottone – quello dei pantaloni – mentre c’era ancora il cadavere caldo del tuo ex e io volevo fargli marameo mentre non mi vedevi ma si sa che non bisogna macchiarsi di ὕβϱις (hybris) come sapevano i Greci perché poi dopo le cose son finite e io alla fine potevo solo far marameo a ‘sta ceppa?

Ma mentre pensavo a tutto questo ho perso tutto il filo della conversazione e sono tornato sulla Terra mentre ci stavamo già salutando.

C’è una categoria di persone che mi lascia perplesso ed è quella di chi contesta agli altri le stesse cose che fa lui. Categoria a cui credo di appartenere, perché io ad esempio contesto le persone che contestano gli altri. Essendo io contestatore, sono al contempo stesso da contestare.

La seconda cosa che mi lascia perplesso è la definizione di tempo tecnico.
Sembra un concetto mutuato dal mondo sportivo: Ehi, arbitro! Il Mister chiede un tempo tecnico!.

Come si sa quando un tempo è tecnicamente giusto?

Nella mia vita ho sempre sbagliato tempi, sarà per questo che non son diventato chitarrista. Suonavo un tempo in testa che non corrispondeva a quello che stava tenendo la mano. Se adattavo il tempo mentale a quello della mano, quest’ultima lo cambiava a sua volta.

È un po’ quindi come succede con le persone: spesso vanno a tempi diversi nella propria testa.
Che tempi!

Della vita dolce ormai breve tempo mi resta e spesso gemo per timore dell’Ade*

* Anacreonte.


Ieri se ne è andato il mio professore di latino e greco del liceo, a causa di un male incurabile.
Chi l’ha visto negli ultimi mesi dice che era ridotto in modo irriconoscibile e rassegnato all’inevitabile.

Mi resterà sempre impressa una frase che mi disse e che secondo me ancor oggi mi qualifica in pieno.

Bisognava decidere la data della gita di 5 giorni: combinazione voleva che quell’anno (2003) ci fossero delle vacanze lunghe ad Aprile causa aggancio della Pasqua con il ponte del 25 aprile. La possibilità che la gita si tenesse prima delle festività pasquali poteva significare circa 3 settimane di vacanza per quel mese.

Il Prof. venne in classe sostenendo invece che la gita si dovesse tenere durante le vacanze pasquali: chiese a noi di decidere, ventilando però l’ipotesi di minacce e ritorsioni in caso avessimo scelto la soluzione “3 settimane di vacanza”.

Alcuni quindi si lasciarono persuadere. Io, invece, che sapevo bene che anche lui non voleva fare un ceppa ma non poteva dirlo apertamente, mi alzai e dissi: Prof, io voto per andare in gita prima di Pasqua. Lo ammetto, mi fa comodo, ma preferisco essere coerente.

Lui mi guardò con il suo tipico sorriso sardonico, che sul suo volto caratterizzato da una pelle scurissima – in netto contrasto con il capello brizzolato e gli occhi blu – era sempre inquietante, e fece:
Gintokiammiro sempre la coerenza con cui difendi le stronzate.

Ecco, me la dovrei tatuare da qualche parte come monito e insegnamento.

Era il tipo che sapeva inquadrare una persona e capirla subito. Come se avesse lo scanner ottico dei Saiyan.

Per la cronaca, come era prevedibile, ad Aprile di quell’anno godemmo poi di 3 settimane di vacanza.

A una cena durante la gita ordinammo una bottiglia di vino e brindammo col Prof. alla faccia di Mirsilo: da poco avevamo studiato Alceo e impresso ci era rimasto il verso con cui il poeta di Mitilene festeggiava la morte del tiranno Mirsilo.


“Ora bisogna ubriacarsi e ciascuno beva a forza: perché Mirsilo è morto”.


Archiloco del quale tutti ricordiamo dei versi oscuri: che avrà voluto dire con “sfiorando la bionda peluria, emisi la bianca forza”?

È difficile da spiegare a chi legge, ma quando il Prof recitava qualche verso dei lirici greci, con la sua voce profonda e raschiante tipica di 40 anni (o anche più!) di Pall Mall, riusciva sempre a dar loro una carica di pathos e teatralità.

Non a caso lui era anche presidente del teatro pubblico campano (da ora p.t.p.c.) e con la scuola e gli studenti ha organizzato spettacoli che ha portato in giro in tutta Italia.

In virtù dei suoi impegni, come vicepreside, come p.t.p.c. e come altro non so cosa, in classe ci entrava di rado e per un tempo ridotto. Inoltre, quando al mattino fuori la scuola lo vedevamo entrare nell’edificio con giacca e cravatta, capivamo che non sarebbe venuto a far lezione.

Quando era in classe, inoltre, non era mai una lezione convenzionale. Per cominciare, un buon quarto d’ora si perdeva in cazzeggio, in cui ci prendeva per il culo o raccontava aneddoti scolastici su questo studente o quel docente. I libri sono stati aperti di rado. Alcuni li ho comprati e riposti e mai più toccati. Amava impostare una lezione discorsiva, improntata sul ragionamento: più che liceale, era una lezione universitaria.

Com’è come non è, le cose che lui ha spiegato le ricordo ancor oggi a 12 anni di distanza. A volte mi chiedo perché la scuola non sia tutta così e perché debba ridursi a mero un travaso di nozioni da un libro di testo a una testa vuota, col risultato che il giorno dopo un’interrogazione lo zuccone ha già dimenticato tutto.

Io lui comunque lo odiavo. Ne avevo stima e profondo rispetto, ma lo odiavo. Lo odiavo perché in alcuni periodi mi eligeva a vittima sacrificale per fare lezione: mi chiamava alla cattedra, faceva domande molto complicate, poi si metteva a ragionare e spiegare.

Una volta invece mi chiamò giusto perché doveva in modo sadico tormentare qualcuno. Dovette accorrere dalla vicepresidenza perché, senza nessuno in aula, noi ci eravamo lasciati andare a eccessive turbolenze. Nero in volto, ancor più nero del solito tanto che sembrava il tizio di CSI Las Vegas con gli occhi azzurri, decise per punizione di sparare nel mucchio. Punirne uno per educarne 22.

Si piazzò in fondo all’aula dando le spalle alla finestra e alla luce, col risultato di essere in penombra. Era una nera figura.

Primo colpo:
V., vieni.
L’avevo scampata. Ero il soldato Ryan, sarei sopravvissuto all’imboscata.
Lei: Professore, vengo la prossima volta.
Bene V., 2.

Maledetta stronza. In quel momento le ho augurato un’infezione di clamidia orofaringea. Poteva andare al patibolo e in qualche modo scamparla, visto che prendeva sempre 7 e 8. Poteva salvarci tutti, invece no!

Secondo colpo:
Gintoki, vuoi venire?.
Ovviamente la fortuna ti grazia una volta sola.
Io: Certo.
Ostentavo sicumera. In fondo avevo studiato. E sarei stato l’eroe che avrebbe salvato tutti.

Presi la sedia per accostarmi alla cattedra.

Chi ti ha detto di prendere la sedia?
Pensavo…
Hai pensato male.

Cominciò a incalzarmi di domande. Io rispondevo, mi barcamenavo.

Lui: Smettila di gesticolare. E non presentarti mai più con quelle cose sulle braccia.


Ai tempi – ancor oggi in verità ma un po’ di meno – mentre parlavo avevo l’abitudine di muovere le braccia peggio di Alberto Angela.
E poi all’epoca andavo in giro con delle catene intorno al braccio.


Poi cominciai a incartarmi su me stesso. Picconata su picconata mi demoliva pezzo per pezzo. A un certo punto diedi una risposta che era giusta  ma forse l’avevo detta in modo contorto.

Lui, gelido: Non ho capito.
Poi aggiunse, rivolto alla prima della classe: A., tu hai capito che intendeva?

Lei mi guardò e fece: n-no

Stronza. Stronzissima. Raddrizzatrice di Pisistrati. Etéra del ditirambo.
Tu hai capito, perché tu la risposta la sai, la sai sempre. Potevi giungermi in soccorso, invece per sfilarti dai guai mi hai lasciato in mezzo al maelstrom. Scommetto se fosse stato qualcuno dei tuoi amici saresti salita in cattedra, invece dato che ero un Gintoki qualsiasi, da te disprezzato, mi hai lasciato così.

Rimpiansi di non averle detto qualcosa di offensivo in quel momento, ma ero ormai paralizzato dal terrore.

Stavamo ragionando sulla battaglia di Anfipoli e sulle circostanze che portarono al fallimento di Tucidide – allora stratego della flotta ateniese – e che gli costarono l’esilio. Quando volle sapere quale fu l’errore tattico dello storico/militare, balbettai qualcosa e lui disse, accompagnando le parole con un gesto che sembrava quello di un arbitro che espelle un calciatore: Vatti a sedere.

Andai al mio posto e diedi un pugno sul banco che mi fece volar via l’orologio.

Quell’episodio entrò a far parte degli aneddoti. Ogni tanto mi pigliava per il culo, mi chiedeva se volessi dare qualche pugno alla cattedra oppure se il muro di fianco a me fosse al riparo dalla mia ira.

Era una di quelle persone che vale la pena di incontrare nella vita. Se è vero che siamo la somma delle nostre esperienze, lui era un’esperienza formativa necessaria. Madre, finito il liceo, ogni tanto mi diceva: Tu hai passato troppo poco tempo con lui!.

Già. Troppo poco tempo.

Non è che a una nave vuota brontoli la plancia

Oggi (ormai ieri per voi che leggete) è stato il giorno del colloquio con la Dr. Comesfromethesea (puntata precedente).

Mi sento alquanto stranito per come sono andate le cose.

Per cominciare, sono stato lì dentro un’ora (comprensive anche di un’interruzione causa visita urgente del responsabile di un Paese africano) e la per maggior parte del tempo ha parlato lei, mentre io prendevo appunti. Era come stessi facendo io il colloquio a lei.


Potrebbe essere una nuova tecnica di selezione. L’intervistato intervista l’intervistatore.


Tutto è partito quando lei mi ha rivelato che pur lavorando in quell’ufficio (che chiameremo CC) lei in realtà è parte di un ufficio di un’altra sezione (che chiameremo CD). Ho chiesto maggiori informazioni, perché pensavo che la ricerca riguardasse un candidato per l’ufficio CC* e lei ha iniziato a parlare e mostrarmi organigrammi e darmi opuscoli e sventolarmi brochure.


* Questo potrebbe essere stato un autogol da parte mia, purtroppo mi è sfuggito perché sono rimasto spiazzato quando mi ha rivelato la cosa.


Al che io ho iniziato a prendere appunti, per mostrarmi interessato.

L’equivoco si sarebbe potuto evitare se il consulente che mi ha trovato l’opportunità si fosse preso la briga e anche il gusto di chiedere informazioni (avendo un contatto interno, mentre io dalla pagina Linkedin di lei potevo apprendere ben poco) su chi mi avrebbe incontrato. Ma si sa che lui di mestiere fa il Tizio, uno che dà tutto per scontato come un negozio in svendita fallimentare.

È stato nel momento in cui lei stava spiegando nel dettaglio i ruoli e le attività degli uffici che ho iniziato a non capire più cosa dicesse. Quello che ho sentito era: oh kivici up, ghettint ciù off nighidi wapidi bliblidoblidi dalek dalek klingon.

Questo mi succede quando cado nella trappola di voler capire il discorso a livello sintattico perdendo di vista il semantico. Ogni volta che il mio cervello switcha nella modalità parola-per-parola mi perdo.

Tutto ciò è stato il male minore.

A un certo punto dal mio stomaco sono cominciati a partire dei brontolii, inquietanti come quelli di un temporale in rapido avvicinamento quando avevi appena fatto il bucato di una settimana.

Ho utilizzato l’arte del colpo di tosse o dello schiarimento della gola sincronizzati per celare i gorgogliosi rimbombi. Va bene che era mezzogiorno, va bene che Steve Jobs aveva detto “stay hungry”, ma qui si esagerava: perché proprio durante il colloquio doveva accadere?

Comunque il lato positivo del fatto che abbia parlato sempre lei è il fatto che io abbia potuto massimizzare i miei sforzi linguistici. Ero preoccupato dal dover fare lunghi discorsi in inglese – ho già problemi a fare brevi discorsi in italiano -, invece l’andamento della conversazione è stato tale da permettermi di intervenire con argute osservazioni e sagaci phrasal verbs.


Ciò che contraddistingue il p.v. sagace è che è inaspettato. È facile mescolare un get in, un take off, un keep on, un Bon Jovi. Meno è gettare nel minestrone un “knuckle down”.


Ancora una volta ho messo in pratica l’arte della ignoranza non rivelata, e in un’altra lingua, per giunta!

Il prossimo passo deve essere l’apprendimento dello scoglionamento non celato: quando non vuoi/sai dire qualcosa, non esiti a mostrare il tuo fastidio nel dover rispondere.

Un esempio è stato l’arbitro che oggi ha tenuto una lezione sui referti di fine partita. Non spettava a lui, ma il collega che avrebbe dovuto esserci aveva avuto un contrattempo. Dopo essersi arrabattato nello sforzarsi di spiegare alcune cose, nel lasciare poi in sospeso un altro argomento ha detto “Questo, sì, potrei…beh spiegarlo anche io…però non so perché doveva spiegarvelo PincoPallino…io non so spiegare, non parlo con la gente, sono un arbitro”.

Ha detto proprio così: io non parlo con la gente, sono un arbitro.

In quel momento la mia ammirazione per lui è schizzata alle stelle. Da domani la frase di esternazione dello scoglionamento sarà “Io non parlo con la gente. Sono un arbitro”.

A meno che non sia poi il mio stomaco a voler parlare per me.

Non è che nel basket non puoi migliorare molto soltanto perché non puoi fare passi avanti*


* La “violazione di passi” (o più comunemente soltanto “passi”) è tra le violazioni più comuni nel basket: è il movimento di uno o di entrambi i piedi mentre il pallone è trattenuto tra le mani.


Osservando la mia scarpiera (se ne avessi una, perché in realtà le mie scarpe sono sparse tra Casa Romana e Terra Stantìa) si potrebbe dire che io sia un grande sportivo. Ho due paia di scarpe da corsa, un paio di scarpe da calcetto e un paio di scarpe da basket.

In verità sono uno sportivo tarocco, a partire dalle calzature: un paio di quelle da corsa e quelle da basket le ho prese in saldo, le restanti sono cinesate delle cinesate: perché già normalmente le scarpe sono prodotte in Asia, queste qui sono una versione asiatica di quelle fatte in Asia, in pratica un subappalto di mediocrità.

Inoltre con lo sport ho soltanto dei rapporti occasionali, che capitano quando desideri sport ma non hai voglia di impegnarti in una relazione seria con lui.

Constatato ciò, mi sono iscritto due settimane fa a un corso serale da arbitro di pallacanestro, tenuto da un arbitro che sembra un personaggio di Corrado Guzzanti, sia come aspetto fisico che come modo di parlare e fare commenti. Forse è realmente Guzzanti che prova un suo personaggio prima di proporlo in televisione o teatro.

Dopo due lezioni ho capito una prima cosa: l’arbitraggio è un misto tra una danza e un’arte marziale. I movimenti sono decisi e netti come quelli di Steven Seagal che sgomina una banda, ma eleganti e raffinati come Roberto Bolle.


Poi nel caso a fine partita ti volessero menare sarebbe meglio essere più pratico di aikido che di Lago dei cigni.


Alza-abbassa-corri
Fischia-alza-abbassa
Corri-arretra-avanza

E così via. Se sbagli una sequenza è la fine.

E poi c’è la questione del fischio, che deve essere forte, sicuro, incisivo, tagliente. Ah regà, na lama! Na lama!  – Ha urlato al corso Corrado Guzzanti. In poche parole, deve essere un fischio maschio senza raschio.

La domanda che uno potrebbe porsi è perché mai la decisione di fare l’arbitro.

In verità mi trovo in un periodo di cambiamenti, di riflessioni (e di flessioni per mantenere una forma fisica accettabile) e pensieri e quindi niente di meglio di fare un qualcosa che tenga occupati, permetta di fare un po’ di movimento e dia anche modo di lavorare sulla personalità. In pratica è un po’ come fare un corso di yoga però col vantaggio che è gratuito.12042672_10207821329836079_8000376957344191433_n

La superficie di cannucce di bambù sottostante è la tovaglietta che uso per mangiare, gentilmente concessa da Coinquilino in usufrutto.


Mi sono accorto che è il terzo post di fila il cui titolo è introdotto da “Non”. È casuale, ma ora ho deciso di proseguire per questa strada e pubblicare solo post con il “Non”. Spero di riuscirci il più a lungo possibile e non essere vittima dell’ansia da prestazione. Un po’ come quando da bambino impari ad andare in bicicletta da solo: ti riesce finché non ti rendi conto che Ehi! Sto andando in bicicletta da solo! E quindi cadi.


L’esempio della bicicletta è di vita vissuta ma potrebbe non essere esemplificativo abbastanza perché non so come sia stata per gli altri la prima volta sulla bicicletta. Magari è successo soltanto a me, da buon sportivo tarocco.