Non è che i compagni di università di Napoleone fossero i colleghi del Corso

Nel precedente post parlavo della salute mentale degli adolescenti. In questi giorni invece mi trovavo a riflettere sugli universitari e la loro vita.

Il mio progetto 2aL – seconda laurea, prosegue. La scorsa settimana ho portato a casa un 30 e un 30 e lode, grazie ancora all’utilizzo della modalità a distanza. In virtù di ciò con i miei colleghi di corso non ho avuto molti contatti. Anzi, direi nessuno: li ho visti fisicamente soltanto una volta. Per me in realtà sono solo delle figure bidimensionali che vedo su uno schermo e di cui leggo nelle varie chat dei corsi.

Pur non avendo io una propensione nel far comunità insieme a loro, ho in qualche modo sviluppato qualcosa di affettivo nei loro confronti. La maggior mi sembra molto in gamba, lo vedo dall’interesse che hanno verso la Storia e verso la ricerca storica, dalle considerazioni e gli interventi che fanno alcuni, dalla volontà di far le cose per bene. E tutto ciò mi è di una qualche forma di conforto, di rassicurazione, nonostante le condizioni.

Vale lo stesso discorso che facevo per chi va a scuola: non riuscire a vivere questa esperienza nella modalità consueta da studente dev’essere per loro molto penalizzante e frustrante.


Poi, a dirla tutta, il semestre appena trascorso era in modalità mista: si poteva seguire in presenza, previa prenotazione. Peccato che le aule disponibili non avessero disponibilità di posti congrua rispetto alla richiesta, quindi riuscire a prenotare il posto era sempre una lotteria.


Non va per niente bene.

Per raccontare, la mia piscina ha chiuso da oggi le porte. I costi di gestione sono alti e i frequentanti attualmente pochi a causa di quarantene e paura di. Sperano di riaprire presto. Intanto, lo staff che ci lavora ha appreso della chiusura da un semplice foglio appeso in bacheca.

E io capisco le difficoltà economiche che si trova ad affrontare chi ha un’impresa, un’azienda, una società privata. Ma non posso capire che uno scopra che non lavorerà da un foglietto che legge quando si presenta al lavoro.

Eppure, non lo so. Cosa dire, cosa fare? Le esigenze dei lavoratori, le esigenze e gli obblighi della proprietà, le esigenze degli studenti, le esigenze e gli obblighi dell’università, le esigenze del cittadino, le esigenze e gli obblighi delle istituzioni. Come si gestiscono tutte insieme?

Come si vive tutti insieme e non si sopravvive?

Non è che se chiedi un parere al campanaro lui ti fa sentire pure l’altra campana

Montespertoli, Zappolino, Perito, Ponte in Valtellina, Casalguidi, Castelnuovo Berardenga, Castel Lagopesole. Non è Nomi, Cose, Città.

Ricordo quando ci giocavo alle medie mi toglievano sempre punti perché inserivo città che nessuno conosceva per far punteggio pieno e pensavano le avessi inventate.

Una volta mi misi a piangere per frustrazione.

In questo breve elenco ci sono alcune delle località in cui mi è capitato di soggiornare, in questi anni. In genere per diletto, piacere. Posti che mi hanno sempre fatto porre una domanda: chissà come sarebbe vivere in un paesino di qualche centinaio di anime.

Una noia mortale. Sicuro.

Eppure, delle volte, subisco la fascinazione del ritiro, dell’isolamento, della dimensione monocellulare del piccolo centro.

Sono velleità da cittadino, me ne rendo conto. Ma io sono un cittadino atipico, come tante altre cose cui mi sento di appartenere metà e metà.

Appartenenza.

Chissà cosa vuol dire. T’appartengo e io ci tengo, era un tormentone di Ambra. Mi sovviene perché una mia amica, in anni recenti, ebbe un periodo di fissa in cui doveva cantarla – ovviamente con l’intento di diffondere un po’ di trash.

Io appartengo a molte cose, mio malgrado. Ma forse non ci tengo. Ci tengo a targhe alterne. Ci tengo quando non c’è altro e non hai fame di qualcosa in particolare. Ci tengo perché alla fine dai sennò poi qualcuno se la prende a male.

E allora potrei anche tenerci a un posto piccolo. Non vi apparterrei mai. Per quelle che sono le dinamiche di paesino si resta sempre un estraneo.

Ma, in fondo, si è sempre estranei di qualcun altro.

Un Paese di torri, campanili, campane

Non è che al cittadino indignato basti una crema emolliente per calmare l’irritazione

Ho riprovato l’ebbrezza di andar dal barbiere e ho smesso di andare in giro con una coppola à la Peaky Blinders per nascondere un tentativo di taglio casalingo mal riuscito.


È bella la coppola ma non quando ci sono 30°.


Andare su prenotazione e non dover attendere un paio d’ore è certamente un’innovazione, ma qualcosa nel contesto è venuto a mancare: le presenze solite.

L’habitat del salone di un barbiere è stato, dai tempi antichi, il social network per eccellenza, dove la predominanza l’hanno sempre avuta i discorsi d’indignazione (magari più pacati ma pur sempre con quel dna di sdegno primigenio).


Prova ne è Per l’invalido, una celebre orazione di Lisia del V secolo a.C.; in questa, l’imputato, tra le varie accuse mossegli doveva difendersi dall’ospitare nella propria bottega (quella di un barbiere, per l’appunto) mascalzoni dediti a insolenze e cospirazioni verso il prossimo.


Io confesso di provare un piacere al limite del feticismo per i discorsi dell’uomo della strada, purché a piccole dosi e dal peso specifico contenuto. Potrei sembrare un po’ borioso e con la puzza sotto il naso – e probabilmente è così – ma il mio non è un esercizio di scherno e dileggio, quanto più un interesse viscerale di chi vuol conoscere e capire il mondo che lo circonda.

Mancandomi il contesto della barberia, durante questi tre mesi ho scoperto, su segnalazione di un amico, un gruppo facebook di indignati (il titolo della pagina precisa proprio che sono degli indignati) della mia città. Mi offre dei retroscena su una realtà nella quale io non mi sono mai integrato e che cerco di recuperare attraverso un’analisi dei contenuti veicolati attraverso lo strumento social.

A inizio quarantena ricordo il post di un cittadino che lamentava di essere uscito di casa per andare a fare la spesa e di aver visto troppe persone in fila al supermercato. Un altro ha risposto “Sì vero anche io, è uno scandalo”, un altro faceva eco “Anche io sono uscito e ho visto un sacco di gente ma cosa hanno da uscire” e così via finché qualcuno ha fatto notare che probabilmente si erano quindi visti tra di loro.

Qualche giorno fa, invece, una cittadina preoccupata postava la foto di un vespidae appoggiato contro la sua finestra, annunciando terrorizzata l’arrivo, anche nella nostra città, del terribile calabrone asiatico o vespa killer: il sindaco cosa fa? Perché non interviene?


Ogni inizio estate arriva la notizia della vespa killer, perché si sa che certe vespe fanno giri immensi e poi ritornano.


A parte qualcuno che faceva notare che al massimo era un comune calabrone, il vero genio è stato quello che ha commentato scrivendo Bravi fate bene proteggetevi: zanzariere di XXX a YYY (nome di città) tel. 000000. Marketing 1 – 0 Indignazione.

Molte poi in questa pagina le segnalazioni di disservizi: la TIM per cadute di linea, l’Enel per interruzioni energia elettrica, le Poste per il postino che sbaglia sempre buca delle lettere. Purtroppo queste aziende, per evidente codardia, ancora non hanno deciso di iscriversi alla pagina degli indignati e le denunce cadono nel vuoto.

Infine, il dibattito che mi ha illuminato: le piste ciclabili costruite per accaparrarsi i voti dei ciclisti.

Analisi del contesto: a fine 2019 è stata creata una pista ciclabile (anche spezzata) che fa il giro di un isolato. Lunghezza: 600 metri. Presenza di noi ciclisti (occasionali e regolari) in città: insignificante. Per dar l’idea, in base al principio Gallera occorrerebbero due ciclisti per formarne uno.


Il principio Gallera è quel fenomeno fisico per cui, per esempio, se metto vicine sul fuoco due pentole d’acqua quando la temperatura di entrambe sarà a 50° potrò dire che la temperatura dell’acqua sarà 100.

 


Però a quanto pare qualcuno ha il timore che una segreta lobby del pedale stia tramando per mettere le mani sulla città.

E secondo me hanno ragione. Ho visto le città europee cosiddette bike friendly: Berlino, Copenaghen, Utrecht e così via. I ciclisti, da noi esemplari timidi e timorati, lì sono sciami sfreccianti che travolgono tutto e tutti. Le strade appartengono a loro, non frenano mai ma scampanellano per terrorizzare come fossero tanti Hector Salamanca.

La verità è che ogni popolo oppresso si trasforma in oppressore: per questo la lobby del pedale fa paura, perché la storia è destinata a ripetersi.

Indignate, gente, indignate.

Non è che l’animale che non si riposa mai sia il mai-a-letto

Da bambino mi è capitato di venir deriso per il mio essere goffo e impacciato e, a tratti, sempliciotto.
Non che oggi io sia meglio, ma l’età adulta ti insegna a mascherare, dissimulare, riderci sopra.


Uno stato d’impasse può benissimo venir camuffato da momento introspettivo: “Non mi sono bloccato, sto riflettendo sul da farsi”.


Ricordo una volta col nonno andai dal tizio che ci vendeva i conigli. Non ricordo il suo nome, per me era solo il tizio che ci portava un coniglio appena giustiziato e ancora caldo che il giorno dopo sarebbe finito sulla nostra tavola.


Lo so, è una immagine orribile, ma si può sopravvivere non pensandoci: il genere umano non ha messo a punto forse il più sofisticato strumento di adattamento ambientale, e cioè l’ignoranza selettiva¹?


¹ Come ci ha ricordato il celebre monologo di Quinto potere:
[…] Ce ne stiamo in casa e lentamente il mondo in cui viviamo diventa più piccolo e diciamo soltanto: “Almeno lasciateci tranquilli nei nostri salotti per piacere! Lasciatemi il mio tostapane, la mia TV, la mia vecchia bicicletta e io non dirò niente ma… ma lasciatemi tranquillo!” […].


La fattoria del tizio era sulla montagna che copre il versante interno del Vesuvio.


Come ho già raccontato in passato il cono del Vesuvio è sorto all’interno di un vulcano preesistente e che se un versante – quello del lato marino – è collassato, quello che dà sull’entroterra è rimasto in piedi. Il profilo tipico del Golfo mostra il cono del Vesuvio a destra e sulla sinistra uno sperone che appartiene al cratere del cono vulcanico precedente: ho scoperto che molti non Campani si confondono e pensano che l’intera struttura sia il Vesuvio e che addirittura l’avvallamento centrale sia la sua bocca! ¹


¹ Ma anche vari Campani non hanno ben presente la cosa, a riprova del fatto che la geografia oggigiorno sia un’opinione, tant’è che è opinione che non sia il caso di farla studiare a scuola².


² Va detto che se parliamo di conoscere soltanto se la Dora Baltea sia un affluente di sinistra o di destra del Po o quali siano i prodotti tipici di Andorra, forse è limitante. Sarebbe magari utile anche insegnare a Gennaro e Ahmad, compagni di banco, qualcosa sui rispettivi posti di origine.


Di quella scampagnata ricordo soltanto la visita al recinto dei maiali.
Non ne avevo mai visto uno dal vivo e l’incontro fu per me agghiacciante. In primo luogo, non pensavo fossero così grossi. Credo che quelli che vidi avessero le dimensioni di una 500 o almeno nei miei ricordi li rivedo così.
L’odore era nauseante e pur provando a non respirare ti entrava dentro e attivava i recettori dell’olfatto per farsi sentire lo stesso.
Sapeva di vomito stantìo, seppur privo di quell’afrore acido tipico dei succhi gastrici.


David Foster Wallace fu molto più creativo (del resto era David Foster Wallace!): “Pare che la morte in persona si stia facendo una cacata”. Anche se la frase la attribuisce al padre di una sua amica, così almeno racconta in un saggio presente in Tennis, tv, trigonometria, tornado (e altre cose divertenti che non farò mai più).


E io di vomito me ne intendo, avendo in passato nella mia vita perso di vista delle volte il limite oltre il quale la sbronza finisce nel punto di non ritorno.


È un gioco di equilibrio funanbolico sulla lama di un rasoio: un goccio in più, un’emozione forte, un sussulto e finisci poi a implorare che ti aprano il torace con un’incisione a Y per estrarti tutte le viscere e gettarle via.


Insomma, l’esperienza non era delle migliori.
Ero nauseato e terrorizzato da quei rosei esseri e non facevo nulla per celarlo. Avevo paura che saltassero fuori dal recinto e potessero aggredirmi anche perché avevo sentito storie orribili di persone azzannate dai maiali. Ad esempio un operatore ecologico raccontò a mio padre che c’era qualcuno che portava a pascolare i maiali nei dintorni di una discarica; un giorno, dopo aver sversato, mentre era fuori dall’automezzo fu inseguito da uno degli animali che riuscì ad afferrarlo al polpaccio prima che lui si mettesse in salvo al volante.

I nipotini del tizio della fattoria – due bambini all’incirca della mia età – che erano anch’essi presenti al mio rendez-vous suino, ridevano di me. Si facevano beffe dell’imbarazzo di un cittadino ignorante.

E io sarei voluto andare a casa per la vergogna, chiudermi nella mia stanza lontano da loro che sapevo essere migliori di me perché temprati su cose sulle quali io ero un semplice verginello.

L’inadeguatezza è una sensazione che ho provato e provo spesso nella vita e che oggi potrei personificare nella sindrome da Jon Snow: la condizione di non sapere niente.

Però ogni tanto provo a saper qualcosa.


Che è già qualcosa.


Non è che da forestiero irriconoscente io sia un immingrato

Trovandomi da più di tre mesi in Ungheria sono andato all’ufficio immigrazione per chiedere un tessera di registrazione per la permanenza nel Paese oltre i 90 giorni.

Il primo ostacolo è stato che il suddetto ufficio preposto al rilascio tessere si trovi in un posto dimenticato da dio e divinità minori. Capolinea della metro e tre fermate di un autobus degli anni settanta per giungere in un quartiere dormitorio.

Sul mezzo ho avuto difficoltà a reperire il pulsante di prenotazione della fermata, fino a che ho pensato che fosse del tutto assente e che l’autista fosse obbligato a fare tutti gli stop. Poi mi sono reso conto del mio scarso spirito d’osservazione quando una signora ha pigiato un bottone verde, simile come forma a quello ON/OFF che c’è sulle ciabatte elettriche, posizionato in alto sopra la porta.

È chiaro: qui se vuoi far fermare l’autobus devi spegnerlo.

La prima sorpresa è stata trovare un clima più rigido rispetto al centro città: essendo a 11 km di distanza dal centro in spazi più aperti il freddo si faceva sentire, grazie a un vento che spazzava via anche le adenoidi.

La zona inoltre è territorio di caccia di cornacchie, corvi e corvidi vari. Mentre camminavo mi osservavano dall’alto forse pregustando il momento in cui avrebbero cavato gli occhi dal mio cadavere assiderato.

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Un simpatico esemplare è anche sceso dall’albero per seguirmi da vicino:

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Dopo qualche invocazione ad Anubi, sono arrivato dove sarei dovuto arrivare.

Dall’esterno l’ufficio è irriconoscibile: in pratica l’edificio è una casa, fatta eccezione per un cancello di lamiera sul quale è appiccicato un foglio stampato al computer che ti dice che, sì, quello è proprio l’indirizzo di Harmat utca 131!

L’ambiente interno è molto più accogliente. C’è persino una macchinetta per fare le fototessere e una fotocopiatrice a gettoni. Strumenti molto utili perché quando ci si reca in un ufficio pubblico capita sempre di dimenticare una foto o una copia di un documento. Sarebbe bello trovarli anche negli uffici nostrani.


Ora so che qualcuno commenterà dicendo “Guarda che anche qui a Cunnilinguo sul Clito tutti gli uffici pubblici hanno queste macchinette…”: ne sono lieto e non vedo l’ora di visitare questi uffici pubblici, perché io in tanti anni di frequentazioni non ho avuto il piacere di usufruire di simili modernità.


L’impiegata all’accoglienza richiama la mia attenzione.
Mostro orgoglioso la ricevuta della mia prenotazione. Sono un cittadino diligente e mi sono prenotato online come prescrive il sito internet.

Mi dice che non serve.

L’impiegata controlla i documenti che ho con me, li guarda una volta, li guarda due, poi scappa via sul retro per tornare con una collega.

Alla collega mostro di nuovo con orgoglio la mia prenotazione, che lei con orgoglio mi respinge.

Controlla i documenti una volta, poi li mischia e poi li controlla di nuovo. Stavo per chiederle se dovessi dividere il mazzo, ma poi lei è sparita sul retro dicendomi di aspettare.

Torna dopo 10 minuti, dicendomi che devo pagare il bollo da 1000 fiorini (3 euro e qualche chicco d’orzo).
Ah. Ecco cosa avevo dimenticato.

Mi indirizza a un ufficio postale. Lei parla bene inglese, tranne che per dare indicazioni. L’ufficio l’ho io trovato a istinto: sono in quartiere dormitorio, sulle strade non si affacciano negozi. Dove potrebbero essere dei servizi? Al centro di un aggregato di palazzi.

Difatti, all’interno di una lunga fila di container (la zona è in ristrutturazione), tra tabaccai, negozi di alcolici, negozi di tutto al prezzo che vuoi, c’è anche un ufficio postale.

Vuoto.

Entrare in un ufficio postale e non dover fare la fila è sempre un momento da assaporare con soddisfazione. È una di quelle occasioni in cui sfodero la camminata da Sceriffo di Nottingham nel Robin Hood della Disney: pancia avanti, testa alta e braccia ciondolanti all’indietro.

“Salve! Stavate aspettando me?” è da esclamare entrati nell’ufficio postale

Una volta nel fare ciò sono stato bruciato da una vecchina apparsa da dietro che mi è passata avanti.


Le vecchine sono sempre infide. Riescono a esibirsi in scatti da velocista per soffiarti il posto, per non parlare dei colpi proibiti che ti sferrano con i gomiti ossuti per farsi largo.


Torno all’ufficio immigrazione.
Mi danno un numero. Con la mia prenotazione ormai ci ho fatto dei filtrini.

Finalmente è il mio turno, vado allo sportello dove c’è la stessa tizia di prima che non sa dare indicazioni. Esamina di nuovo i miei documenti, li gira, li mischia e li timbra a caso.

E poi mi dice che non vanno bene perché ci vuole anche un estratto conto bancario perché vogliono essere certi che io sia in grado di mantenermi e quindi devo tornare giovedì.


Onde evitare di dare un’immagine distorta o sembrare un ingrato, vorrei anche sottolineare che nell’ufficio sono molto gentili e cortesi e che la suddetta impiegata prima di dirmi di tornare giovedì si è assicurata ci fosse qualcuno che parlasse inglese perché lei non ci sarebbe stata.


 

Certi atteggiamenti non sono proprio canini

Una storia di ordinaria follia.

Un conoscente (che definiremo Conoscente), l’altro giorno recandosi al lavoro in una ridente città – che chiameremo Ridente Città – ha trovato un barboncino che vagava in strada. Senza segni evidenti di malesseri o maltrattamenti e con il collare al collo (in fondo un collare in che altro posto dovrebbe stare?), ma senza medaglietta.

Di sera, uscito dall’ufficio, ha saputo che il cane era stato preso in custodia da un anziano signore, che aveva anche provato a chiedere in giro se fosse di qualcuno senza ricevere alcun riscontro positivo.

Conoscente, una volta parlato con Anziano Signore, decide di portare il cagnolino a casa. Lo fa controllare dal veterinario che gli pratica anche un’iniezione preventiva non so per quale infezione.

Il giorno dopo Conoscente si reca all’Asl per identificare il microchip e tramite esso risalire al/la proprietario/a. Rintracciato il numero di telefono, chiama e risponde una donna che conferma di essere la proprietaria del cane e che sostiene che l’animale fosse scappato. Piccolo particolare: la non tanto ridente città – che chiameremo NTR Città – dove abita la donna è a 28 km da dove il cane è stato ritrovato.


Un cane di nome Forrest Gump, non c’è che dire.


La donna poi aggiunge: “Sai che ti dico, a me mi ha scocciato ‘sto cane, tienitelo”. <Clic>.

Conoscente prova a richiamarla ma lei si inalbera e riattacca.

Conoscente, ormai avendo preso a cuore e anche un po’ nel pancreas la questione barboncino, da buon cittadino si dirige dai Carabinieri, cui spiega la situazione. I CC chiedono a Conoscente di  chiamare nuovamente la donna, col telefono in viva voce. La signora conferma di non volere più il cane e inizia a urlare improperi. Al che interviene il carabiniere che spiega alla signora che rischia grossi guai per abbandono dell’animale. La donna riattacca e spegne il telefono.
Il carabiniere consiglia a Conoscente di rivolgersi ai Vigili per la denuncia di ritrovamento (non è mi è chiaro il perché questo passaggio di consegne).

Il giorno dopo, i Vigili fanno un tentativo telefonando alla signora e spiegando che in quel preciso istante stavano per procedere a un verbale da 10mila euro. La signora allora si scusa per lo spiacevole malinteso, affermando che quella che aveva risposto al telefono sino a quel momento fosse sua figlia, nota in famiglia per avere un carattere fumantino e un po’ borderline.


Piccola pausa lettura per esclamare Ahhh, certo.
Fatto? Andiamo avanti
.


Dice che è sua intenzione risolvere al più presto la cosa e farà avere sue notizie per concordare il recupero del cane.

Trascorrono due giorni, nei quali il barboncino – diventato tra l’altro un po’ aggressivo – resta a casa di Conoscente. Poi i Vigili ricevono una telefonata dalla signora per l’appuntamento per il ritiro. I Vigili avvisano Conoscente, che carica il cane in auto e si reca al comando.

A prendere il barboncino si sono presentati 3 gentiluomini (poi qualificatisi come il padre e due fratelli della proprietaria del cane) che dall’aspetto e dal modo di parlare si capiva che dovevano essere iscritti a qualche club letterario ospitato nella Curva A dello Stadio San Paolo, praticanti di sport come lo sputo del nocciolo di oliva e il lancio del mozzicone di sigaretta. Insomma, persone che hanno le qualità intellettuali per confutare la Critica della ragion pura di Kant, perché tanto la ragione se la prendono sempre loro e se è pura sanno come tagliarla e smerciarla.

I tre letterati prendono in consegna il cane – non senza difficoltà perché l’animale alla loro vista diventa feroce come un Vittorio Sgarbi che ha visto una capra – rassicurando che da loro starebbe stato bene, perché “hanno un intero campo dove ci sono altri cani”.


Un camposanto?


E con questo termina la storia.
Conoscente avrebbe volentieri tenuto il cane ma non poteva certo farlo.

L’esperto di grammatica è in decadenza perché declina.

Con il capolinea ho un rapporto difficile.
A cominciare dalla declinazione al plurale della parola: come si dice?

Il plurale delle parole composte italiane è sempre fonte di grattacapi eppure la grammatica dovrebbe essere uno dei capisaldi del sapere di ogni buon cittadino, a mio avviso. Lo so, quelli come me sono sempre dei guastafeste, pronti a correggere il minimo errore altrui. Ma io lo considero solo come uno dei miei passatempi, come recitare degli scioglilingua o sistemare i portapenne. Non dirò altro perché non voglio che facciate i ficcanasi (o le ficcanaso) sulle mie abitudini. Dicevo che volevo parlare di capolinea e, perché no, anche di capistazione.


GRAMMAR-GAME
Adesso provate a ricavare le varie regole grammaticali per la formazione del plurale dalle parole scritte in corsivo.


La prima volta che presi un autobus, da solo, anni e anni fa, sbagliai direzione perché non lessi bene la tabella. Accortomi di aver sbagliato autobus, pensai Fa niente, arriverò al capolinea e prenderò quello giusto. La cosa più logica sarebbe stata invece scendere appena resomi conto dell’errore e aspettare alla fermata sul lato opposto, ma il mezzo si era allontanato sempre di più dal centro città attraversando terre desolate, disabitate e anche un po’ zozze, quindi non me la sentii di scendere.

L’episodio si verificò altre due volte, su altrettante linee diverse. In entrambi i casi raggiunsi il termine della corsa in zone brulle e anche brutte e la cosa mi spinse a odiare i capolinea.

L’ultimo episodio mi si è verificato di recente: allo stazionamento degli autobus (cui stavolta ero arrivato intenzionalmente) al gabbiotto informazioni chiediamo quale fosse e quando partisse il mezzo per la nostra destinazione. L’omino ci scruta e poi esclama, con tono accusatorio, “Voi dove eravate?”. Ho pensato che stesse per dirci “So cosa avete fatto la scorsa estate”, ma invece ha aggiunto
“È partito proprio adesso alle vostre spalle, e stranamente una volta tanto era puntuale”
“E quando parte il prossimo?” chiedo, con candida ingenuità
“Eh non si sa. Vi conviene prendere il treno”.

Nella vita i capolinea sono come il mio primo viaggio in autobus. Innanzitutto è imprevisto e poi te ne accorgi del suo approssimarsi dal cambiamento del contesto intorno a te, che diventa sempre più arido e meno accogliente.

Le relazioni, ad esempio, terminano in questo modo. Almeno per quel che ho vissuto: prima del capolinea c’è un percorso desolante (più o meno lungo, dipende dalla resistenza dei singoli allo scoglionamento) che si fa sempre più accidentato e frustrante. Rimanete solo tu e un tizio ubriaco sul sedile in fondo che puzza come gli avanzi di un ristorante cinese.


Non è vero, basta con le battute scorrette sui ristoranti cinesi.
Nei ristoranti cinesi non buttano via nulla e quello che avanza dai piatti lo ricompongono per formare altri piatti.


La morale è: sali sugli autobus giusti e, se proprio sbagli, scendi prima del capolinea.


Comunque ho notato che capolinea si può declinare al plurale anche come capilinea.


Le vie del “s’ignora” sono infinite

Riflettevo (io rifletto sempre, il più delle volte, purtroppo, male come uno specchio consunto dal tempo) sul vivere nell’ignoranza e sugli effetti che questa ha nel normale svolgimento della vita di un individuo.

Beninteso, col termine “ignoranza” non mi riferisco semplicemente o banalmente a una mancanza di cultura scolastica.

Intendo anche una ignoranza relativa, rispetto all’attualità, alle norme sociali, alle attività pratiche.

Io, per esempio, ignoro come fare il bucato nella lavatrice. Quindi lavo tutto a mano e non mi pongo il problema. Tanto son solo le cose mie, quindi non mi ci vuol molto. Dovessi un giorno lavare i panni anche di altri, forse sorgerebbero difficoltà.

Se fossero indumenti femminili, li rivenderei ai feticisti su internet e risolverei il problema.

Mi sorprende – ma non più di tanto – quanto sia infatti fiorente il mercato online della vendita e dell’acquisto di intimo femminile usato; usato da chi, poi bisognerebbe appurare. Magari il povero pervertito crede di aver acquistato mutande di Josephine mentre invece erano di Giuseppino. Però lui non lo sa, quindi è felice e contento perché ignora.

Happosai non usava internet

Amenità a parte, accanto ai drogati di iperinformazione (“vai a vedere quel video su youtube, prima che lo tolgano! Informati! Condividi!”) esistono coloro che vivono al di sotto della soglia di cultura d’attualità. Conosco molte persone che ignorano cosa sia o da dove provenga l’ISIS e non sono interessate a saperlo, per dire. È vitale saperlo? In fondo bene o male qualcun altro penserà per loro.

Non è un’esagerazione parlare di delega al prossimo di temi di ampia portata. In alcune democrazie esiste un disinteresse fisiologico verso le attività di governo (quelle che non riguardano direttamente il cittadino, come interventi sulle tasse, sanità, istruzione e via dicendo): il cittadino ha fiducia nel lavoro dell’amministrazione.

Forse la parola giusta è proprio fiducia. L’ignoranza si basa su una fiducia (o una fede) sul fatto che vada tutto bene nel modo in cui sta andando.

In certi casi è un’ignoranza autoindotta: nel senso che si finge di non sapere, un po’ come quando in un luogo affollato o rumoroso inconsciamente tendiamo a isolare suoni e rumori che non ci interessano, allo stesso modo il cervello esclude alcune cose che non vogliamo vedere.

Penso alle dinamiche relazionali, a quante volte le persone si pongono nella condizione di non vedere alcune cose dell’andamento della coppia, confidando nel fatto che tutto stia procedendo bene. Un po’ come credere di aver comprato le mutande della donna dei propri sogni.

Ma quanto può reggere una simile ignoranza?

A scanso di equivoci, questo non è un post personale, quindi non ho comprato mutande online, non sto vivendo nell’ignoranza relazionale (…spero…) e dell’ISIS mi ritengo informato!…Però la storia che non so fare la lavatrice è vera.

Gli anziani disertano bar per riempire centri scommesse (e pure Achille è d’accordo)

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Una scorciatoia dietro casa mia, decorata da inserti di rifiuti che sbucano dal terreno. Sullo sfondo, a sinistra, la gigantesca antenna Telecom

Oggi ho fatto una passeggiata quasi senza meta per la mia città, approfittando della mite giornata autunnale. Ho riflettuto che qui non esco mai se non per uno scopo, che sia vedere qualcuno o svolgere qualche commissione.

Il fatto è che questa città da provincia meccanica non ispira molto a camminare per il gusto di farlo.

Siamo immersi in una conca vegliata dal Gigante e non c’è quindi un panorama. Non c’è il mare, quindi niente lungomare. E nemmeno un lungolago o un lungofiume. Forse l’ultima cosa è un bene, considerando l’attitudine all’abusivismo edilizio che tanti addusse lutti agli Achei italici (e altri ancora continua a farne).

Non ci sono percorsi o luoghi di interesse storico-artistico, a parte una chiesa settecentesca spoglia e la tomba di uno scrittore dell”800.

C’è un parco pubblico molto vasto in cui se non ci si reca per correre, di giorno, per farsi una canna in compagnia o fare robe col partner, di sera, è solo uno scenario di desolante mestizia.

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Non sembra, ma questo qui secondo un architetto doveva essere un ingresso di un parco. Foto scattata dall’interno

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La prospettiva inganna: sembra boscoso, ma c’è un albero ogni morte di papa. E questi stuzzicadenti fogliati che si vedono son lì da 16 anni. Mai cresciuti

Non c’è una vera zona commerciale né negozi tipici o caratteristici. Il commercio qui è in lento declino. Questa città è una rappresentazione in scala ridotta dell’Italia: di tradizione agricola, ha conosciuto il boom economico industriale che ha portato a un incremento demografico. Poi il “boom” ha fatto “spif” come una miccetta bagnata e negli ultimi 25 anni circa 10mila abitanti sono stati persi. E il numero dei residenti dichiarati è superiore a quello degli effettivi che realmente ci vivono.

Così, per dare un senso alle mie passeggiate, i piedi mi conducono sempre verso la libreria dove vado a leggiucchiare. È sempre un pericolo per me entrarci, perché corro il rischio di uscire comprando qualcosa anche quando il portafogli piange. Oggi ho resistito, a malincuore. Non percepire da due mesi lo stipendio è una buona leva dissuasiva (e poi mi chiedono come mai ho la gastrite).

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Tormenti amorosi e ortografici

È tutta qui una passeggiata per la solitudine del cittadino. A meno di non essere un pensionato e ritrovarsi la mattina con i propri coetanei fuori al centro scommesse a barattare la pensione con due chiacchiere e qualche azzardo.

Poi ho pensato di sbagliare io, nel cercare qui qualcosa che non c’è.

Ecco, si dice che la creatività è vedere cose dove gli altri non ne vedono. Ma ostinarsi nel cercare di vedere delle cose non è creativo. È cretino.

Una passeggiata è una buona metafora di vita.

E passeggiando impari a schivare e a subire anche schivate, come interazioni che si riducono in paradossi di Zenone: Achille era uscito per una passeggiata, forse come la mia. Trova la tartaruga ma non riuscirà mai a raggiungerla. Invece di interrogarsi sulla fisica e sulla filosofia, qualcuno ha fatto delle domande alla tartaruga? Probabilmente scopriremmo che non vuol essere raggiunta, altrimenti procederebbe in senso contrario. Sta aspettando che Achille si stanchi e capisca da solo di cercarsi un’altra tartaruga. O forse si compiace tutto sommato che il “piè veloce” si affatichi dietro la sua scia.

Non è meglio ricordarsi allora di esser felino e scomparire un bel giorno come fanno tutti i gatti? Magari c’è un Paese dei Gatti nascosto dietro una siepe, una siepe come quella che hanno divelto dal Parco perché devono sistemarci invece un vetro costato 100mila euro.

Allora non restano che i centri scommesse. Anche quelli son metafore di vita. Si vive di attese e azzardi e intanto il meglio che è nel mondo fuori scorre via senza che ci si renda conto.