Non è che il cannibale al ristorante chieda che gli mandino un cameriere. Ben cotto.

Credo che io e M. siamo i clienti migliori per i posti dove si mangia e/o dove si beve. Non perché facciamo qualcosa di particolare. Semplicemente applichiamo le buone regole del vivere civile. Salutiamo, ringraziamo, trattiamo con rispetto e cortesia il personale. Se ci chiedono se vogliamo far servire portate diverse tutte insieme, rispondiamo sempre che preferiamo ciò che causa meno disagio in cucina. Per me è un atteggiamento normale. Soltanto che poi noto diventiamo per i camerieri delle perle rare. Li vediamo raggianti quando parlano con noi, scambiamo qualche battutina, insomma sembra che quando ce ne andiamo li lasciamo col piacere di far il mestiere che svolgono. Delle volte ce l’hanno proprio detto che siamo brave e belle persone.

Beninteso, non capita sempre di trovare personale affabile: mi ricordo una volta un cameriere che ci lanciò, tipo frisbee, il piatto sul tavolo, così, mentre era di passaggio. O quello che provò a far finta di nulla nel portare una bottiglia di prosecco calda, lasciandola sul tavolo e scappando via. Ci saranno di sicuro poi camerieri che cercano di essere molto gentili semplicemente per ingraziarsi una mancia, magari. Ma la maggior parte mi accorgo che è sinceramente molto contenta di aver a che fare con noi due; me ne rendo conto vedendo come invece deve essere difficoltoso gestire, ai tavoli di fianco, clienti che sono tutto fuorché che cortesi o quantomeno memori del fatto che di fronte hanno pur sempre un essere umano.

Cosicché, per ciò che ho avuto modo di vedere, ho messo insieme una piccola lista di clienti a mio avviso insopportabili per i quali io finirei licenziato se fossi un cameriere, aggiungendo per qual motivo anche:

IL/LA VIP
Che sia da sola o in compagnia questa persona mantiene lo stesso copione: atteggiamento scocciato, infastidito, forse è l’atto proprio di dover mangiare a essere noioso, forse è il ritrovarsi insieme a dei plebei, non so. Mocassino e caviglia in vista, capello appena uscito dal parrucchiere che ogni due per tre scioglie al vento – anche se vento non ce ne è – passandosi la mano dietro l’orecchio, barbetta rada e occhiale da sole, borsetta da millemila euro, zainetto di pelle col porta tablet, questi i connotati per lui e per lei. Controlla in modo compulsivo il telefono, si fa degli autoscatti, siede magari di sbieco a gambe accavallate. Guarda dall’alto in basso il personale, a volte trattandolo proprio come un servitore, a cui rivolge dei veri e propri ordini del tipo “Sì però sbrigati”, oppure “Non mi piace, me lo rifai?”, e via così.
Motivo di licenziamento: un secchio di letame rovesciato in testa, arrivando alle spalle.

LEI NON SA CHI SONO IO
Arriva, magari con una comitiva degna di una squadra di calcio (più panchinari), senza avere prenotato e pretende di accomodarsi. Il cameriere magari si prodiga nel trovargli una soluzione: magari aspettare, oppure accomodarsi a un tavolo più defilato. Com’è ovvio, non solo non apprezzerà l’intenzione, ma se ne andrà via con visibile scocciatura perché è inaudito che un posto non faccia largo alla sua nobile persona.
Motivo di licenziamento: porgere una ciotola di avanzi dicendo di accomodarsi fuori e farsi bastare quelli. E prenotare, la prossima volta.

IL PADRONE DI TUTTO
Sovente sempre un uomo, spesso dalla classe di un cinghiale, sempre molesto e fastidioso. Entra e si siede senza chiedere se e dove può accomodarsi, tratta il personale con confidenza eccessiva, se è una cameriera a servirlo ci scappa anche qualche battuta molesta, ride e urla come se ci fosse soltanto lui nel locale e stesse a casa propria.
Motivo di licenziamento: una chiamata alla Guardia di Finanza per farlo perquisire perché sicuramente uno così sovraeccitato è in possesso di una dose di bamba. E se non ce l’ha troverei il modo di fargliela trovare addosso.

LA DISCOTECA
Guarda video YouTube e storie Instagram col volume dello smartphone al massimo, perché tanto di sicuro i vicini apprezzano.
Motivo di licenziamento: una tromba da stadio suonata all’improvviso alle sue spalle.

LA FAMIGLIA CON PROLE
La famiglia con prole vede il ristorante come un momento di pace personale: dato che i gentili pargoli, evidentemente, a casa rompono e tediano, portarli fuori vuol dire lasciarli razzolare liberamente in uno spazio delimitato mentre i genitori possono mangiare tranquilli. Certo, fa niente se corrono tra i tavoli, disturbano, tirano fuori un Super Santos che fanno volare sopra le teste altrui: son ragazzi, dai.
Motivo di licenziamento: monterei una recinzione elettrificata intorno al loro tavolo.

GUSTI DIFFICILI
A tutti può capitare di chiedere una variazione: metti che un ingrediente non sia gradito o non si possa mangiare ma che a quel piatto non si voglia proprio rinunciare, si chiede la cortesia di non inserirlo. La mia filosofia è: se è qualcosa che si aggiunge ma non entra nella preparazione, allora chiedo la variazione. Se invece è un ingrediente che entra a far parte del processo produttivo, desisto. Esempio: un tuorlo su una tartare si può non mettere. Ma dalla crema pasticcera di certo non puoi toglierlo né chiedere una torta alla crema senza crema! Però ci sono quelli che invece chiedono rivisitazioni così puntuali e complete che, a un certo punto, diventa un altro piatto. Come chiedere una carbonara senza uovo e senza guanciale. Praticamente la cacio e pepe, chiedi quella, no?!
Motivo di licenziamento: se si tratta solo di gusti e non di allergie/intolleranze, servirei tutto ciò che ha chiesto di non mettere e obbligherei a mangiarlo.

E ci sarebbero tanti altri begli esemplari da descrivere ancora!

Non è che ti serva un gps se ti perdi nei ricordi

In genere qui sopra parlo di rado di cose mie intime e personali. Oggi è uno di quei casi.

Settimana scorsa se ne è andato mio nonno. L’ultimo di tre che mi restava. E, come le altre volte in precedenza, mi trovo a riflettere sul fatto che un accadimento del genere rappresenta la chiusura definitiva di un’epoca: la propria infanzia.

L’infanzia l’ho superata e da parecchio, chiariamo – anche se indugio a volte in atteggiamenti infantili – ma la cesura anagrafica, il prima e il dopo, la avverto sempre in una situazione come questa.

È buffo ma in questi giorni mi erano venuti in mente solo episodi curiosi o divertenti che li riguardano o che vedono coinvolto il mio me di allora e loro tre.

Ad esempio, avevo già raccontato su questo blog della modalità con cui venivo avvisato di una telefonata per me. A casa mia non abbiamo mai avuto il telefono, per dissidenza politica contro la SIP da parte dei miei. Quindi il numero che utilizzavo era quello dei miei nonni materni, all’appartamento di fianco. Quando qualcuno chiamava cercandomi all’inizio mio nonno veniva a bussare alla porta. Poi passò a bussare sul muro divisorio. Infine, arrivò all’urlofono: i miei amici che chiamavano abitualmente avevano imparato a staccare l’orecchio dalla cornetta per non perdere l’uso del timpano.

Il look di mia nonna paterna era sempre uguale, con i capelli raccolti in una piccola crocchia. Solo una volta, che mi trovavo ad andare a casa sua, la trovai mentre li pettinava: erano lunghissimi, da seduta le arrivavano a terra. E, soprattutto, nonostante l’età erano molto più neri di quel che sembrava dalla crocchia. Roba da far invidia a un metallaro.

Grazie ai nonni materni ho imparato come si fa il pane, il vino, le conserve di pomodoro. Sono competenze che, considerando che la mia generazione dovrebbe seriamente riconsiderare la nobile vita dei campi, potrebbero tornare sempre utili.

Uno dei “drammi” nel pranzare dai nonni materni era fare i conti con la cintura. La porzione servita dalla nonna era sempre abbondante. Poi arrivava lo sguardo inquisitorio del nonno, che esaminava il piatto e, constatandolo non sufficiente, rimproverava la nonna al grido di “Ma non gli fai mangiare niente a questo ragazzo, mettine altro”. E giù altre cucchiaiate di cibo.

Mia nonna paterna era fissata con gli uccellini. Aveva una stanza della casa in cui c’erano solo gabbiette di volatili. Quando lei e mia zia si trasferirono vicino da me, ci volle un trasporto a parte solo per loro. Ogni volatile aveva poi la propria miscela di mangimi: come cacchio facesse a ricordarsele non lo so.

A tavola ogni Natale o Pasqua tutti e tre finivano a parlare di aneddoti vari su persone note in città ai loro tempi, conosciute ai più non con nome e cognome ma solo col soprannome. Uno di questi era il mitico Sette Pistole, uno che, per far capire il tipo, una volta per rispondere a un’insolenza si presentò nella fabbrica dove lavorava con un “ferro”, facendo fuggire via l’insolente che gli aveva mancato di rispetto.

Mia nonna paterna doveva sempre ricordare a tavola un episodio di quella volta che – io avrò avuto 5-6 anni – eravamo in visita a un bioparco e fummo sorpresi dalla pioggia mentre passeggiavamo in riva a uno stagno. Mentre gli adulti corsero a ripararsi io cercavo di acchiappare/calpestare coi piedi le rane che cominciarono a saltar fuori da ogni dove. Sembrava piovessero dal cielo. Ma non eravamo in Egitto e non c’erano tizi con lunga barba e bastone ricurvo nei paraggi.

Ci sarebbero tanti altri aneddoti ancora. Magari ne riporterò altri, più avanti.

Non è che il professore di matematica non possa soffrire i calcoli

È da qualche mese che la signora che assisteva mio nonno se ne è tornata nel suo Paese d’origine. Confesso un po’ mi manca: non so perché m’avesse preso molto in simpatia, quando mi vedeva mi abbracciava sempre soffocandomi nel suo prominente petto e mi chiedeva un sacco di cose su di me. La nuova signora che ha preso il suo posto invece a stento mi saluta e mi guarda con sospetto.

Gli entusiasmi e la cortesia sono sempre o eccessivi o scarsi.

Ho avuto un esempio di entusiasmo eccessivo l’altro giorno.

Ho una ex che da 3/4 anni a questa parte, cioè da quando è entrata nel cimitero (allegorico) delle ex, mi scrive a puntuale cadenza semestrale per chiedermi Come va?. In genere la conversazione si conclude – o la lascio cadere io – dopo qualche breve scambio di frasi. L’altro giorno invece in occasione del suo contatto ormai calendarizzato mi son trovato a chiederle se conoscesse una buona piscina – una volta lei gareggiava – , visto che quella dove vado ha chiuso in anticipo per lavori.

– Io ne conosco solo una, che fa gli ingressi liberi, di fronte a dove mi sono trasferita, dove vado in palestra
– Ah
– Se vuoi t’accompagno a vedere
– …Ok

Ci troviamo lì, dopo un paio di saluti formali mi presenta alla tizia delle reception, la quale sul foglio con il programma dei corsi mi scrive un problema di trigonometria che sto ancora cercando di risolvere:

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Non ho capito nulla delle opzioni che mi ha descritto, anche perché non mi interessavano: volevo soltanto sapere se potessi avere 6 ingressi da qui a fine mese.

Espletata questa pratica, Ex poi mi fa:

– Ci pigliamo un caffè, aperitivo, qualcosa?
– Beh se
– Sennò anzi il caffè ce lo pigliamo sopra tanto io abito qua, ti faccio vedere casa

Non mi aveva dato tempo di rispondere. Comunque salgo da lei, mi fa fare il giro turistico della casa e a ogni cosa che mi mostra io fingo meraviglia e ammirazione anche se guardare case altrui mi annoia.

Poi mi fa accomodare, mi offre da bere, chiacchieriamo. Ogni tanto guardo l’orologio ma sembra non cogliere questi miei segnali non verbali. Così a un certo punto dico:

– Dai, ora ti tolgo l’ingombro

Che è la formula che uso sempre per dire che me ne voglio andare via ma per non sembrare maleducato nel desiderare di andare via allora mostro che sono molto educato nel non voler essere d’impiccio.

– Ma no dai figurati, non ti preoccupare, anzi possiamo pure andare a cena al pub qua vicino, oppure puoi cenare qua andiamo al supermercato a fare la spesa oppure guardiamo in frigo e vediamo cosa c’è

Il passaggio ceniamo fuori->usciamo a comprare da mangiare->non usciamo proprio e restiamo chiusi qui mi ha fatto colare delle gocce di sudore dalla nuca, dove finiscono i capelli, al collo, raccoltesi sul cordino del ciondolo e colate poi sul davanti seguendo il medesimo cordino fino a confluire verso lo sterno dove mi si è formata una pozzetta di disagio liquido.

Mi sono ricordato di essere arrivato lì con l’auto del lavoro e ho pensato di usarla come scusa.

– Eh sai com’è sto con l’auto aziendale…non voglio tenerla in giro la sera…poi se la vedono…oppure magari succede qualcosa…sai com’è
– Se vuoi puoi andare a posarla e poi tornare qua con la tua ti aspetto
– Devo scappare mi dispiace comunque l’invito lo ritengo valido per un’altra volta ciao.

Così sono fuggito perché francamente quella sorta di frenesia che avvertivo in lei nell’avermi a casa sua mi procurava una vaga sensazione di soffocamento, oltre che di trappola.

E poi avevo un problema di trigonometria da risolvere che mi aspettava!

Non è che tu debba aprir la porta per fare un’uscita a vuoto

Negli ultimi tempi non ho molta voglia di uscire e fare cose, a meno che non si tratti di mangiare. La conversazione riempie la mente ma il cibo riempie molto meglio dice un antico proverbio ticinese.

Giacché però mi conosco e so che anche quando non ho voglia di far qualcosa poi la faccio e scopro di divertirmi, mi son fatto trascinare a una serata diversa dalle altre.

C’è questo tale che, in cambio di una cifra simbolica, apre le porte (e soprattutto la cantina) della propria villa per ospitare serate di musica e cibo da dita e degustazioni di vino.

La differenza tra il degustare e conciarsi di merda sta tutta nel modo in cui tieni il bicchiere in mano. Il risultato però è il medesimo: il giorno dopo non ricordi come ti abbiano riportato a casa.

A questi eventi si presenta molta gente strana.

Mentre parlavo con due amici, un tale ci si è seduto di fronte:

– È libera?
– Certo…
– Ma ci sono persone del posto, qui? Non ne ho ancora incontrata una…
– Non saprei…lei è autoctono?
– No no io vengo da (non capisco dove). Voi di dove siete?
– Io e lui (indico il mio amico) da Terra Stantìa. Lei (indico la mia amica) da Località-di-mare.
– Ah va be’ lei quindi è bagnata.

L’abbiamo ignorato mostrandogli il gelo emanato dalle nostre spalle.

Nel corso della serata è tornato più volte tra noi tentando di attaccar bottone ma ha avuto poco successo.

Conosco bene la paura di far una gaffe o un’uscita a vuoto, per fortuna ho un forte istinto di autoconservazione che mi porta a mordermi la lingua prima di dir cose irreparabili, sacrificando l’organo per un fine superiore, cioè mantenere la dignità.

È importante mantenere sempre la disinvoltura.

Mi sono presentato a uno che pensavo fosse il proprietario. Apriva bottiglie, mesceva vino, intratteneva persone.

Non era il proprietario ma un tizio che passava di lì. Ma sono stato disinvolto fingendomi una persona cordiale e socievole.

Una signora si è girata verso di me dicendo qualcosa mentre scendevo le scale. L’ho fissata con uno sguardo inquisitorio come a dire Chi sei e cosa vuoi?. Mi ha guardato quasi spaventata esclamando un ciao interrogativo. In realtà prima si stava rivolgendo alla sua amica dietro di me. Quando me ne sono accorto ho finto di aver sentito un rumore in un’altra stanza e sono scappato via. Sempre disinvolto.

Mentre ormai il vino cominciava a mietere le prime vittime, un tale con una camicia più brutta delle mie ci si è avvicinato battendo le mani – fuori tempo – e mimando mosse di danza, credo per invitarci a unirci a un ballo cui lui era l’unico partecipante perché tutte le persone erano a morire stravaccate da qualche parte.

L’ho ignorato fingendo di essermi ricordato di un mio commilitone durante la Prima Guerra Mondiale. Sempre con disinvoltura ma con un livello di difficoltà esponenzialmente aumentato dai gradi alcolici.

Siamo andati via dal luogo relativamente presto. Direi prima che la situazione si trasformasse in Eyes Wide Shut.

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Non è che il pugile non si lavi solo perché ha gettato la spugna

Salve, sono Gintoki, forse vi ricorderete di me per post come Non è che il palestrato riverente si alleni facendo le genuflessioni.

Sono andato in palestra a chiedere informazioni.

Quando sono entrato ho notato che mancava il pavimento. Ho pensato stessero in ristrutturazione, eppure quando c’ero passato davanti giorni addietro la struttura sembrava operativa. Che avessero deciso di chiudere sapendo del mio arrivo?

Prego? Mi fa la ragazza alla Reception
Ehm…siete aperti vero? Dico alludendo al non-pavimento
Sì sì, non farci caso
Un po’ difficile non farci caso (ri-alludo)…Comunque, posso avere delle informazioni?
Certo! Tanto per cominciare, questa è una palestra!
Ah e vedo che vi allenate nella simpatia
Prego?
Sì, dicevo sembra un posto simpatico…riguardo gli accessi?

E mi sventola davanti un foglio, dicendo che quelle sono le tariffe più basse di tutta Budapest.

Quando mi ha invitato a fare una ricognizione della palestra, ho capito il motivo di prezzi così stracciati. Anzi, straccioni.

I macchinari risalgono più o meno all’epoca Sovietica. Qualcuno è fuori servizio. Le barre di ferro dei sostegni dei tapis roulant sono così arrugginite che anche il batterio del tetano ha paura di prendersi il tetano. Le panche hanno i bordi smangiucchiati.

Ho detto che sarei ripassato. Magari insieme a qualche ispettore dell’ufficio igiene.

C’è un’altra palestra a 7 minuti a piedi da casa.
Non vi sono manco entrato perché la porta d’ingresso aveva i vetri così sporchi che non erano più trasparenti. Un foglio di carta scritto a penna indicava gli orari. Un cartello OPEN di quelli con le lucine a led verdi-blu-rosse che vendono i bengalesi era mezzo fulminato e recava la scritta PEN.
Se tanto mi dà tanto l’interno non doveva esser tanto curato.

C’è ancora un’altra palestra nella stessa zona. Questa è invece una di quelle iper professionali, con accesso solo tramite badge e scansione ottica, parcheggio riservato con taglio delle gomme di avvertimento quando non ti impegni abbastanza nell’allenamento.

Hanno una sorta di club fedeltà cui ci si può iscrivere. La presentazione sul sito sembra quella di una setta religiosa. In corsivo degli estratti:

  • Unisciti a noi e sarai un membro della comunità Life1. Saremo molto felici di darti il benvenuto tra noi.
  • Il nostro team ti ispirerà e motiverà a raggiungere i tuoi obiettivi di fitness.
  • Potrai essere un membro di una comunità energica e orientata al movimento.
  • Gli allenamenti regolari e il nostro gioioso team ti daranno la giusta energia.
  • I nostri club sono totalmente climatizzati e ricchi di luce naturale. L’ambiente è amichevole e confortevole.

Le macchine sono di ultima generazione, con schermo e connessione internet, allenamenti super personalizzati, con personal trainer così personal che ti seguono anche a casa per controllare se in cucina tu stia calibrando bene proteine e carboidrati.

La retta costa così tanto che credo alla fine sia semplice seguire un regime alimentare ferreo: se ti iscrivi non ti restano soldi per mangiare.

Infine, sempre nei paraggi, c’è una palestra di arti pugilistiche. Ma non so se sono pronto a essere tiranneggiato da un ex pugile magiaro come trainer. Non so perché ma l’idea non mi suona simpatica.

Quindi facciamo che per ora faccio footing sul lungoDanubio dietro casa.

Non è che chi fabbrica imballaggi non veda l’ora di togliersi dalle scatole

Non ho scelto io di essere un gatto. Ma ricordo quando è stato il momento in cui lo sono diventato.

Fin da piccolo sono stato circondato dai felini. I miei genitori mi avevano insegnato che ci si lava le mani dopo aver toccato un gatto e io avevo sviluppato una sorta di fobia igienista. Dopo aver toccato un micio non accostavo le mani a nient’altro prima di averle lavate, pensando che ci fosse un qualche effetto collaterale legato al pelo.

Una sera, dopo aver giocato con un gatto, feci merenda senza lavarmi le mani. Il mio spuntino consisteva in un paio di fette di pane col pomodoro. Ancora oggi considero del pane col pomodoro, un po’ d’aglio, origano e olio, il miglior spezzafame di questo mondo. Con buona pace dei mulini non colorati.

Mi resi conto a metà del pasto che non mi ero lavato le mani. Ormai il danno era fatto, così continuai a mangiare. Mi aspettai però, in seguito, terribili conseguenze per aver maneggiato del cibo seppur io fossi contaminato dal contatto con l’animale.

E, difatti, mi sono in breve tempo trasformato in un felino anche io.

Una delle cose che condivido con loro è l’esigenza di sentirsi contenuti. Al gatto piace stare nelle scatole. Perché è un animale predatore e un contenitore è un ottimo posto dove acquattarsi in vista di un agguato. Ma è anche perché le scatole offrono un rifugio sicuro e riparato dove sentirsi tranquilli. Il gatto è un animale che soffre molto lo stress e ha bisogno di zone comfort (si veda anche: Perché ai gatti piacciono tanto le scatole? ).

Anche a me piace ritagliarmi bolle di sicurezza così rigide da essere solide come degli scatoloni.

L’altra sera cercavo un posto dove guardare la partita di calcio. Sono andato in una pizzeria di Király utca dove ero già stato, in cui il capo/pizzaiolo è un algerino che ha imparato il mestiere a Napoli. Se gli dici “sasicce e friarielli” lui capisce al volo e ti batte il cinque.

Ho chiesto a una delle cameriere se ci fosse un posto libero per quella sera. Ho spiegato che avevo provato a contattarli tramite il sito ma non sapevo se avessero mai ricevuto la richiesta.

– Per quante persone?
– Solo io
– Oh

L’ho accennato in passato. Una delle particolarità degli ungheresi è quella del Oh, accompagnato da un’espressione del viso mista tra stupore e apprensione. Come se tu dicessi “Oddio mi sento male e sto per vomitare”. Oh.

Chiedi di spiegarti in inglese quel che ti hanno detto. Oh.

Chiedi di poter restituire un oggetto. Oh.

Chiedi di poter vedere la partita. Oh.

Dopo aver oheggiato, la cameriera mi ha risposto dicendo di dover chiedere al capo conferma sulla partita. Piccolo particolare: ogni santissima partita del Napoli viene trasmessa in quel locale, dato che il capo è un Azzurro convinto e le pareti sono decorate da bandieroni e sciarpe. E la cameriera non può non saperlo, visto che è un anno almeno che lavora lì.

Ma un’altra particolarità degli ungheresi è quella di rendere tutto sempre farraginoso e schematico, come se fosse una richiesta di visura catastale.

Alla fine la partita comunque l’ho vista, seduto a un tavolino laterale attaccato al bancone, che mi sovrastava in altezza. Mi sentivo protetto e a mio agio e fuori dalla vista altrui. Di solito sono abituato a far cose da solo ma non mi sono mai abituato all’idea di essere osservato. Non mi piace, anche se magari nessuno mi sta osservando, in realtà. È il cosiddetto “effetto riflettore”,  che già avevo accennato qui. Ho bisogno quindi di una mia “scatola” da dove poter guardare il mondo.

Ho poi scambiato qualche commento con un distinto signore bolognese, seduto al tavolo di fianco. Senza che io gli avessi chiesto nulla, dal calcio è passato a raccontarmi di sua figlia 13enne nata qui a Budapest che, da buona nativa digitale, lo sovrasta nella tecnologia, anche se poi ha un nipote che è laureato in informatica e fa assistenza IT per le Poste, ci ha messo poco a laurearsi non come un altro suo figlio che a trent’anni se la prende comoda anche se sta studiando Economia che è difficile.

Oh.
Ho fatto io.

Devo aver toccato un ungherese che mi ha trasmesso l’Ohite.


E comunque ai vostri figli fate toccare liberamente i gatti.


Non è che solo perché sei giovane tu non possa avere un pasto fisso

Un diagramma di flusso che sinteticamente spiega una conversazione telefonica-tipo con Madre.

Diagramma Madre

Potrebbe sembrare che Madre si preoccupi che il figlio assuma il corretto quantitativo di kcal e nutrienti giornalieri. Il “cosa?” è invece puramente retorico: in realtà non gliene frega nulla, la domanda sussiste in virtù dell’atto stesso di dover sussistere in funzione dello stereotipato rapporto Madre-Figlio del Sud, che viene poi parodisticamente replicato in aneddoti finti e sketch di dubbia comicità da presunti comici dalla dubbia comicità.

Siamo noi stessi il nostro sketch comico e perpetuiamo un sistema fondato sulla derisione delle abitudini alimentari altrui.

Tentando di bloccare lo scorrere del diagramma ho esposto polemicamente le mie rimostranze a Madre, la quale, dopo aver espresso disappunto per il mio atteggiamento acido, mi ha chiesto: Quindi ti stai preparando per mangiare?.

Non è che nel basket non puoi migliorare molto soltanto perché non puoi fare passi avanti*


* La “violazione di passi” (o più comunemente soltanto “passi”) è tra le violazioni più comuni nel basket: è il movimento di uno o di entrambi i piedi mentre il pallone è trattenuto tra le mani.


Osservando la mia scarpiera (se ne avessi una, perché in realtà le mie scarpe sono sparse tra Casa Romana e Terra Stantìa) si potrebbe dire che io sia un grande sportivo. Ho due paia di scarpe da corsa, un paio di scarpe da calcetto e un paio di scarpe da basket.

In verità sono uno sportivo tarocco, a partire dalle calzature: un paio di quelle da corsa e quelle da basket le ho prese in saldo, le restanti sono cinesate delle cinesate: perché già normalmente le scarpe sono prodotte in Asia, queste qui sono una versione asiatica di quelle fatte in Asia, in pratica un subappalto di mediocrità.

Inoltre con lo sport ho soltanto dei rapporti occasionali, che capitano quando desideri sport ma non hai voglia di impegnarti in una relazione seria con lui.

Constatato ciò, mi sono iscritto due settimane fa a un corso serale da arbitro di pallacanestro, tenuto da un arbitro che sembra un personaggio di Corrado Guzzanti, sia come aspetto fisico che come modo di parlare e fare commenti. Forse è realmente Guzzanti che prova un suo personaggio prima di proporlo in televisione o teatro.

Dopo due lezioni ho capito una prima cosa: l’arbitraggio è un misto tra una danza e un’arte marziale. I movimenti sono decisi e netti come quelli di Steven Seagal che sgomina una banda, ma eleganti e raffinati come Roberto Bolle.


Poi nel caso a fine partita ti volessero menare sarebbe meglio essere più pratico di aikido che di Lago dei cigni.


Alza-abbassa-corri
Fischia-alza-abbassa
Corri-arretra-avanza

E così via. Se sbagli una sequenza è la fine.

E poi c’è la questione del fischio, che deve essere forte, sicuro, incisivo, tagliente. Ah regà, na lama! Na lama!  – Ha urlato al corso Corrado Guzzanti. In poche parole, deve essere un fischio maschio senza raschio.

La domanda che uno potrebbe porsi è perché mai la decisione di fare l’arbitro.

In verità mi trovo in un periodo di cambiamenti, di riflessioni (e di flessioni per mantenere una forma fisica accettabile) e pensieri e quindi niente di meglio di fare un qualcosa che tenga occupati, permetta di fare un po’ di movimento e dia anche modo di lavorare sulla personalità. In pratica è un po’ come fare un corso di yoga però col vantaggio che è gratuito.12042672_10207821329836079_8000376957344191433_n

La superficie di cannucce di bambù sottostante è la tovaglietta che uso per mangiare, gentilmente concessa da Coinquilino in usufrutto.


Mi sono accorto che è il terzo post di fila il cui titolo è introdotto da “Non”. È casuale, ma ora ho deciso di proseguire per questa strada e pubblicare solo post con il “Non”. Spero di riuscirci il più a lungo possibile e non essere vittima dell’ansia da prestazione. Un po’ come quando da bambino impari ad andare in bicicletta da solo: ti riesce finché non ti rendi conto che Ehi! Sto andando in bicicletta da solo! E quindi cadi.


L’esempio della bicicletta è di vita vissuta ma potrebbe non essere esemplificativo abbastanza perché non so come sia stata per gli altri la prima volta sulla bicicletta. Magari è successo soltanto a me, da buon sportivo tarocco.


L’ossessione alimentare ci renderà lottatori di consumo

Durante l’adolescenza credevo il mondo ruotasse intorno al sesso.
O forse ero io a crederlo, avendo tutti i giorni davanti i fondoschiena delle mie compagne di classe che finivano col monopolizzare la mia attenzione anche quando non erano davanti a me.

Comunque mi sbagliavo.
Il mondo – quello occidentale – ruota intorno al cibo. Ho l’impressione che ne siamo invasi e ne consumiamo troppo.

O forse la summa è il cibo + sesso. O anche il sesso col cibo, dipende dai gusti di alcuni.

Non accendo mai la tv eppure finisco indirettamente per essere invaso da programmi di cucina di cui non comprendo più l’utilità, la funzione e la credibilità.


Anche se confesso che Chef Rubio, l’ex rugbista divenuto cuoco, mi è simpatico.


Non comprendo come sia possibile che in giro ci siano programmi come quello di quel tale che va in giro a cercare i posti dove il cibo viene servito a metro: panini di dieci piani con venti tipi diversi di formaggio fuso e pizze con strati geologici di ingredienti che per esplorarli tutti servirebbe Alberto Angela.

Spegnere la televisione e uscire con altre persone significa molto spesso stare intorno a un tavolo. E stare intorno a un tavolo vuol dire mangiare. Anche solo arachidi e patatine San Carlo, ma bisogna mangiare perché si deve ingannare il tempo – che non si sa cosa di male abbia fatto ma va preso per il culo in ogni caso.


A proposito, mi chiedo sempre se le ciotole di arachidi salate non terminate dai clienti vengano svuotate, oppure vengano riproposte ad altri tavoli. Pensate, la prossima volta che infilate la mano dentro, alle mani altrui nella medesima ciotola.

Apprezzo in questo senso il pub dove vado sempre, che ti butta a tavola manciate di arachidi ancora nel guscio.

Probabilmente il gestore ruba i sacchi per gli elefanti allo zoo.


Una volta uscendo la sera per strada ciò che sentivo era puzza di ascella e scie di profumo lasciate da qualcuno a cui si era evidentemente rotto lo spruzzatore. Oggi ogni afrore è coperto da kebab, patate fritte, olii vari bruciati e generici odori di cose cucinate (spesso male). Anche se per quanto riguarda l’ascella come si suol dire l’odore vince sull’olio.

Salumerie e pescherie di sera diventano pub e sfizioserie.
Che è come se un nightclub di giorno fosse un ambulatorio ginecologico.

E poi la gente fa foto al cibo.
Sono stato con una persona che prima di mangiare doveva fare una foto al piatto. Questa doveva essere la prova che non fosse sana di mente, eppure ho ignorato il segnale di pericolo e ne ho pagato le conseguenze.


La persona in questione potrebbe dire di me che non sono sano di mente e potrebbe anche addurre delle motivazioni.
Ma io non faccio foto al cibo e ciò mi pone in vantaggio.


Infine, credo che quelli che si credono esperti di diete abbiano portato a una progressiva riduzione dell’integrità del sacco scrotale. Quelli che “sapete che non bisogna mangiare questo? Sapete quanto fa male quest’altro? Sapete cosa mettono qui dentro?”. Una volta quelli alimentari erano consigli da rivista da parrucchiere, oggigiorno grazie a internet sono diventati tutti quanti esperti da parrucchiere e mi chiedo se ciò abbia portato a una crisi delle riviste da parrucchiere.

Per carità, anche io predico bene e Ruzzle male: seguo anch’io una dieta, quella macroidiotica.

La dieta macroidiotica si basa sul fatto che fino a quando qualcosa non ti fa male, si può mangiare. Ci vogliono anni di prove per sviluppare tale consapevolezza. Ad esempio, prima di giungere alla conclusione, durante l’adolescenza, che litri di bevande gassate mi facessero male, ho passato lunghe notti a meditare sul grande trono di ceramica.

E ancora imparo cose nuove.

È difficile essere macroidiotico oggigiorno, in quanto le multinazionali, le nazionali e pure le regionali cercano sempre e comunque di contrastarti.

La dieta macroidiotica ha un limite: dovendo testare ciò che mangi prima di sapere se e quanto puoi mangiarlo, rischi di ingerire qualcosa che ti faccia molto molto male.
In quel caso, principio della macroidiotica sui cibi sconosciuti è quello di far provare prima qualcun altro.

Perché, ricordate, il macroidiota è colui che può essere pericoloso per sé stesso me anche per gli altri.

Il vicino-laser

 

Rientro a casa, parcheggio l’auto nel viale e chiudo il cancello. Apro la porta e vengo accolto da un odore familiare, che mi ricorda qualcosa dei tempi andati…a male. Avevo dimenticato di portar fuori la spazzatura. Ma non l’umido, il misto: quelle che impuzzolentiscono la pattumiera sono le vaschette di cibo per gatti, che una volta gettate nella spazzatura in poco tempo assumono un odore che sa di pesce marcio conservato in un calzino usato, di quelli di spugna che non lasciano traspirare neanche l’amianto.

Dopo aver ponderato se fosse il caso di arricchirsi vendendo tale segreto chimico ai russi o allo stato islamico, mi tappo il naso, chiudo il sacchetto e mi dirigo verso la porta. Tra le grate vedo un laser verde puntato sul mio balcone.

Emozionato perché per un attimo penso che il nonno laser disegnato da Sio esista veramente, esco fuori.

Alzo gli occhi e con grande delusione scopro che si tratta solo del mio dirimpettaio idiota, che accortosi di essere stato scoperto spegne il laser e china il capo grattandosi dietro la testa.

Gettata l’arma chimica e dato da mangiare al gatto che vive nelle piante sul balcone, sono rientrato in casa pieno di dubbi.


Non sto scherzando, come le foto di repertorio provano: ho un gatto pensile che ha sviluppato un rapporto simbiotico con la pianta appesa sul balcone, tanto che se la annaffio è lui che cresce.

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Non si capisce più dove finisca il gatto e dove inizi il terriccio.


Come dicevo, ho vari interrogativi:

1 – Perché il mio vicino prova un laser a mezzanotte e trenta?
2 – Perché lo prova sul mio balcone?
3 – Perché appena sono uscito fuori ha smesso, privandomi della possibilità di guardare il suo mirabolante laser verde all’opera?

Cercava l’amore e finì in spiaggia: da una donna da amare si ritrovò con una donna da mare


Questa è una storia che potrebbe essere vera ma potrebbe benissimo essere falsa: si sa che ogni fondo di verità ha una leggenda alla base.

È disponibile anche in versione audio letta da Gintoki (che poi sono io!), in presa diretta e con errori per la serie “buona la prima perché mi son scocciato!” con tono monocorde e l’incedere Jovannottesco che neanche un logopedifta potrebbe rifolvere.

Ascolta la storia (oppure non ascoltarla!)


Tizio era un giovane. Un giovane di genere “tipo”, fiero delle proprie tonsilliti stagionali. Si trovava in quell’età che porta un individuo a non essere socialmente definibile né come un ragazzo né come un adulto, la qual cosa gettò Tizio in una crisi personale, che superò solo dopo aver saputo il costo di un ciclo di sedute di psicoterapia.

Tizio (un altro Tizio) convinto e deciso della propria affermazione

Stanco di delusioni in campo sentimentale, un giorno esclamò, con decisione, convinzione e una ventata di alitosi:
“Basta con donne uguali a me, instabili e nevrotiche!”
rivolto a un ausiliare che gli stava contestando il biglietto di sosta scaduto.


O.T. (OFF TIZIO)
Ma anche dalle vostre parti gli ausiliari della sosta girano per strada tronfi e impettiti come degli sceriffi?


Il caso volle che sulla strada di Tizio, del tutto inaspettatamente, si mettesse una bella e avvenente ragazza.

Per evitarla, Tizio andò a sbattere con la macchina.

Raccontò l’incidente su facebook, perché una cosa non accade finché non viene scritta su facebook. Una sua vecchia conoscente, letto il post, gli scrisse su whatsupp – perché ormai non esisti e non sei reperibile se non hai whatsupp – chiedendogli cosa mai fosse successo. Da quel momento i due cominciarono a sentirsi spesso e fare lunghe chiacchierate al telefono.

Insomma, avete già capito dove condurrà questa storia: da un carrozziere perché un’auto non si ripara mica da sola.

Nel frattempo i due uscivano, bevevano, mangiavano: insomma facevano tutte le cose che in genere fanno un uomo e una donna che escono. Ma anche che fanno due uomini o due donne, ma questo non bisogna raccontarlo ai bambini perché poi lo riferiscono a casa e si sa che gli adulti sono impressionabili.

Non erano comunque tutte rose e fiordi (come dicono in Norvegia): i due erano completamente all’opposto in tutto.
Lei vegetariana, lui onnivoro;
lei andava ai concerti di Leegabue, lui preferiva Lee Ranaldo;


Lee Ranaldo è quello dei Sonic Youth.
I Sonic Youth sono quelli che hanno saccheggiato il frigo di Peter Frampton in “Homerpalooza”, uno degli episodi più belli della storia dei Simpson


lei ammirava estasiata rocce nei musei di scienze naturali e lui nel frattempo dormiva;
lui ammirava estasiato Rothko nei musei d’arte e lei nel frattempo dormiva;
lei amava i cani, lui i gatti;
lei voleva andare da Starbucks, lui rispondeva stocazz’;
lei faceva foto al cibo prima di mangiarlo, lui aveva già finito di mangiare mentre gli stavano scattando la foto;
lei amava il mare, tanto da definirlo la propria vita, lui non lo amava affatto ma dietro lunghe lamentele di lei si era deciso ad andarci, prima che lei si sentisse troppo ingrassata per stare in costume, decidendo di non andare più.

La vita, quindi, scorreva tra un litigio e un’incomprensione e momenti di tranquilla compagnia intervallati da qualche buon coito.

Visto che le cose non avevano la piega comunque di un gioco e viste le prospettive di vita di entrambi che sembravano antitetiche – l’una stanziale, l’altra seminomade – tra i due si conversava anche del futuro ipotetico prossimo remoto venturo.

Il futuro in questo caso prevedeva che un giorno Tizio andasse a vivere da lei, perché era fuori discussione che lei abbandonasse la propria casa e la ridente città in cui viveva; che si sposassero, perché lei accettava la convivenza solo se limitata a un anno o poco più e poi esigeva il matrimonio; che avrebbero avuto un cane e un gatto purché ognuno si fosse occupato dei rispettivi animali. Ma, se Tizio aveva intenzione – come era sua intenzione – di avere un lavoro che lo portasse, per la natura stessa di tale lavoro, a stare due-tre mesi lontano da casa, il gatto avrebbe fatto una brutta fine o sarebbe stato regalato, perché era fuori questione che lei se ne occupasse. Troppo impegno e, per giunta, per un animale non amato.

Tizio prese allora una decisione importante.

Si sarebbe messo alla ricerca dell’ausiliare che gli aveva contestato il parcheggio, perché non tutti sanno che il protrarsi della sosta non è un’infrazione (non comporta una multa!) e, quindi, richiede semplicemente il pagamento della differenza di tariffa come integrazione. Tizio l’aveva saputo e ora non si sarebbe fatto sfuggire l’occasione di rivalsa.

La morale della storia è: le vie del cuore sono strane e tortuose ma se vuoi parcheggiare controlla di avere spiccioli sufficienti per il parchimetro.

In Mongolia a fine pranzo chiederò il dessert del Gobi

Partire, dormire…sognare, forse.

E così domattina si parte per la Capitale.

Quando non mi fingerò un infiltrato dell’ISIS (vengo da Sud, ho la barba, sarebbe perfetto), impiegherò il mio tempo frequentando un master.

Alla fine vado a vivere nell’appartamento del regista-produttore-filmmaker-organizzatore di festival del cinema. Era la soluzione che al momento mi offriva maggiori vantaggi e convenienze. Lui appare come un tipo distinto e tranquillo. Certo, forse avrei dovuto controllare se nei vasi delle piante del terrazzo ci fossero i resti della precedente coinquilina, una giovane architetta. Lui ha detto che dopo tre anni ha lasciato la casa perché si è trasferita. Mi fido, comunque se all’improvviso non vedrete più il blog aggiornato per giorni, date l’allarme.

Nella mia vita pratica al momento non cambierà molto e poi nel week-end scenderò comunque giù. È invece l’approccio mentale verso la mia vita che subisce un cambiamento.

Ho rinunciato a un posto di lavoro circamenonquasi sicuro. Dove per sicuro intendiamo lavorare un paio d’anni con contratti a progetto di tre mesi in tre mesi, a 600 euro al mese per 40 ore a settimana. Anzi, 45 ore, perché la pausa in realtà è come se non si facesse. Una colf credo che all’ora guadagni di più, il che mi porta a pensare: perché non vado a fare la colf a progetto?

In attesa di diventar un provetto pulitore di case (nel frattempo vorrei propormi come lavapiatti, se qualcuno ha bisogno), voglio provare a costruirmi un’altra vita. Alla peggio c’avrò provato e poi andrò a lavare piatti.

Nel frattempo questa è la scena che si presenta a casa mia per ciò che concerne il mio trasferimento

Madre è convinta che io stia andando in Mongolia in mezzo al deserto del Gobi (uno juventino andrebbe nel deserto dei gobbi, invece? Ah ah…ah). Poco ci mancava mi volesse consigliare di mettere in valigia un paio di galline e un caciocavallo.

Non oso pensare se mai un giorno per lavoro realmente dovessi andare in un posto meno servito da comodità da qualche parte nel Mondo, cosa vorrebbe farmi portare in valigia.

Io ho deciso che, almeno all’inizio, queste tre cose mi saranno indispensabili in una nuova casa:

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Il testone è Jesus de Il Grande Lebowski, gentile regalo di amici. Veglierà su di me.
Il bancha, per chi non lo sapesse, è tè verde giapponese.
Il libro mi serve e lo pubblico senza imbarazzo, perché vorrei imparar a mangiare più salutare e non dover salutare il mangiare.