Non è che se alzi il pollice sull’erba stai facendo OK su prato.

Ho fatto un colloquio di lavoro via Skype, ieri. Non sto pensando di cambiare ma se capitasse qualcosa di migliore perché no.

Non era purtroppo questa l’occasione giusta, per quanto la città da dove veniva la proposta offra molte opportunità.

C’era una cosa in una delle due intervistatrici che mi infastidiva molto. Era una delle classiche persone da “piuttosto che” usato in modo improprio. Non sono un maniaco della corretta grammatica, negli anni mi sono abbastanza ammorbidito. Diciamo che dopo aver rischiato il linciaggio per aver corretto, per l’ennesima volta con conseguente rottura di maglioni, l’uso del pronome maschile per riferirsi a una donna, ho cominciato a mordermi la lingua.

Se non che, dopo aver ignorato i primi 2-3 “piuttosto che” fuori posto, costei ne ha infilata una combo in sequenza che mi ha fatto partire un tic all’occhio.

Non c’è nulla da fare, resto un insofferente viscerale.

Ad esempio una delle cose che mi dà più fastidio è quando, utilizzando i moderni strumenti di rimbambim…comunicazione, tu scrivi o registri un articolato messaggio e ti rispondono con l’emoticon del pollicione alzato.

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E nient’altro.

Attenzione: ci sono due tipi di pollicione. Ho notato che gli amici maschi rispondono in modo genuino col pollicione. Questo perché la comunicazione maschile, retaggio credo del Neolitico, segue schemi essenziali e primitivi. Cibo! Birra? Cazzo proprio stasera che c’è la partita?. In genere così sono le conversazioni con i miei amici. Il pollicione quindi non è indifferenza, è semplicemente un “Non sono in grado di esprimere altro”.

Le donne, invece, ho notato che quando rispondono col pollicione in genere sarebbero in grado di esprimere altro ma semplicemente non vogliono. Perché in quel momento ce l’hanno con te e quindi ti riservano assoluta sufficienza e indifferenza in quanto qualcosa in ciò che hai detto/scritto le ha urtate ma non ti diranno cosa.

In entrambi i casi, a me che mi sono sprecato a intavolare un discorso parte il tic all’occhio e quindi rispondo con un dito medio.

La terza cosa che mi causa insofferenza è quando qualcuno si ostina a entrare in dettagli clinici personali di cui farei a meno. Beninteso, non sono un insensibile e se una persona vuole condividere con me io sono sempre disponibile. Forse anche troppo.

C’è però il mio responsabile, uomo over50, che ogni volta che lo vedo deve aggiornarmi riguardo lo stato della sua prostata e delle sue minzioni. E per fortuna che lo vedo una volta al mese al massimo.

Oggi mi ha detto che c’è un farmaco che non vuole prendere perché ha scoperto gli causa disfunzione erettile. Non che io debba farci qualcosa con quello…, ha tenuto a precisare.

Ecco, tra scoperta e precisazione non so cosa più mi abbia fatto venire un altro tic.

Quasi quasi ricontatto la tizia del “piuttosto che”.

L’esperto di grammatica è in decadenza perché declina.

Con il capolinea ho un rapporto difficile.
A cominciare dalla declinazione al plurale della parola: come si dice?

Il plurale delle parole composte italiane è sempre fonte di grattacapi eppure la grammatica dovrebbe essere uno dei capisaldi del sapere di ogni buon cittadino, a mio avviso. Lo so, quelli come me sono sempre dei guastafeste, pronti a correggere il minimo errore altrui. Ma io lo considero solo come uno dei miei passatempi, come recitare degli scioglilingua o sistemare i portapenne. Non dirò altro perché non voglio che facciate i ficcanasi (o le ficcanaso) sulle mie abitudini. Dicevo che volevo parlare di capolinea e, perché no, anche di capistazione.


GRAMMAR-GAME
Adesso provate a ricavare le varie regole grammaticali per la formazione del plurale dalle parole scritte in corsivo.


La prima volta che presi un autobus, da solo, anni e anni fa, sbagliai direzione perché non lessi bene la tabella. Accortomi di aver sbagliato autobus, pensai Fa niente, arriverò al capolinea e prenderò quello giusto. La cosa più logica sarebbe stata invece scendere appena resomi conto dell’errore e aspettare alla fermata sul lato opposto, ma il mezzo si era allontanato sempre di più dal centro città attraversando terre desolate, disabitate e anche un po’ zozze, quindi non me la sentii di scendere.

L’episodio si verificò altre due volte, su altrettante linee diverse. In entrambi i casi raggiunsi il termine della corsa in zone brulle e anche brutte e la cosa mi spinse a odiare i capolinea.

L’ultimo episodio mi si è verificato di recente: allo stazionamento degli autobus (cui stavolta ero arrivato intenzionalmente) al gabbiotto informazioni chiediamo quale fosse e quando partisse il mezzo per la nostra destinazione. L’omino ci scruta e poi esclama, con tono accusatorio, “Voi dove eravate?”. Ho pensato che stesse per dirci “So cosa avete fatto la scorsa estate”, ma invece ha aggiunto
“È partito proprio adesso alle vostre spalle, e stranamente una volta tanto era puntuale”
“E quando parte il prossimo?” chiedo, con candida ingenuità
“Eh non si sa. Vi conviene prendere il treno”.

Nella vita i capolinea sono come il mio primo viaggio in autobus. Innanzitutto è imprevisto e poi te ne accorgi del suo approssimarsi dal cambiamento del contesto intorno a te, che diventa sempre più arido e meno accogliente.

Le relazioni, ad esempio, terminano in questo modo. Almeno per quel che ho vissuto: prima del capolinea c’è un percorso desolante (più o meno lungo, dipende dalla resistenza dei singoli allo scoglionamento) che si fa sempre più accidentato e frustrante. Rimanete solo tu e un tizio ubriaco sul sedile in fondo che puzza come gli avanzi di un ristorante cinese.


Non è vero, basta con le battute scorrette sui ristoranti cinesi.
Nei ristoranti cinesi non buttano via nulla e quello che avanza dai piatti lo ricompongono per formare altri piatti.


La morale è: sali sugli autobus giusti e, se proprio sbagli, scendi prima del capolinea.


Comunque ho notato che capolinea si può declinare al plurale anche come capilinea.