Non è che al muratore serva uno stilista per una camicia di stucco

Nostalgici delle figurine puzzolenti e del Paperino’s, ho deciso di proseguire il post di ieri sugli anni ’80-’90 perché vivere nella nostalgia è come entrare in un grosso tendone da circo vuoto: sa di plastica esausta, di polvere e di selvatico. Esattamente gli stessi odori che avevano le sorpresine contenute nelle buste di patatine. Posso mai lasciare qualcuno abbandonato, così?

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“Il buon sapore di cicca americana”: ma chi l’ha detta ‘sta minchiata? E perché mai un Paperino deforme inchiodato all’asta dello spazzolino come in una tortura medioevale avrebbe dovuto interessare a un bambino?

Se ancora non credete alle mie parole e ritenete di aver vissuto un’epoca magica, ripensate a uno dei prodotti peggiori dei Novanta: le boy band e la loro musica. Roba che oggi Despacito è un’opera di pregevole fattura musicale.

Trattandosi di un prodotto preconfezionato per il grande pubblico, nella composizione di ogni boy band c’erano degli elementi ricorrenti:

– Quello con l’aria pulita da bravo ragazzo cui le mamme avrebbero dato l’imene delle figlie
– Quello con l’aria da scavezzacollo poco raccomandabile cui le ragazzine avrebbero voluto dare l’imene
– Quello di cui nessuno si ricorda il nome e su cui girano voci di omosessualità
– Altri componenti a caso inutili che servivano a fare numero

Se alle ragazze piacevano perché erano fighi, i ragazzi li seguivano per copiarne la figosità: la calvizie precoce a 30 anni successiva è dovuta all’abuso di gel di dubbia composizione negli anni precedenti, per imitare le acconciature dei fantocci musicali che andavano per la maggiore.

Il gel: tutti ti dicevano “Ma cosa ti sei messo in testa?” ma nessuno che ti ammoniva su cosa ti mettevi sulla testa. Delle paste multicolor che puzzavano di petrolchimico della periferia di Vergate sul Membro che ti fossilizzavano i capelli per un paio di settimane. Se prendevi di testa un Super Santos i tuoi capelli da istrice erano capaci di bucarlo.

Gli outfit comprendevano più o meno elementi come: camicie XXL, t-shirt sopra t-shirt a maniche lunghe, salopette di jeans, jeans ascellari con effetto “scusa ho il pannolone per un problema di dissenteria che mi sono beccato in Messico”, canottiere da muratore bergamasco, tute di acetato modello spacciatore di crack.

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A una girl band (le Spice Girls) dobbiamo invece l’affermazione di uno scempio pedonal-stilistico: le scarpe con le zeppe. Anche per uomini, perché il ridicolo dev’essere no gender. Sul motivo perché una persona sana di mente dovrebbe indossare scarpe scomode per camminare, per guidare, per vivere, non mi soffermo. Ognuno sceglie di torturarsi come preferisce.

Per i più piccoli invece c’erano altri tipi di calzature: quelle con le lucine posteriori. Sembra che i led lanciassero un codice morse per i bulli che diceva più o meno “Per favore picchiatemi perché me lo merito”.

E voi ancora state lì a rimpiangere quell’epoca?!

FINE SECONDA PARTE

(il che non vuol dire che ce ne sarà per forza una terza)

Sono brutto e polemico, chiamatemi Vittorio Sgorbio

La scuola elementare (a proposito: Sherlock Holmes non ha mai detto “elementare Watson”, che si sappia: sono stanco di sentirlo dire!) è territorio di nascita e proliferazione di leggende metropolitane.

Agli inizi degli anni ’90 ne ricordo alcune. I braccialetti gommosi profumati che causavano intossicazioni (qualcuno diceva che se sudavi con quel braccialetto addosso ti veniva la polmonite!), le figurine con la colla tossica (o la droga nascosta sul retro!), i braccialetti auto-arrotolanti (delle strisce che tu picchiavi sul braccio e si arrotolavano) che potevano causare lividi, il bere acqua dopo aver sudato che poteva causare ogni genere di danno all’organismo, sino a portare alla morte (perché poi la sintesi di ogni discorso era che si moriva, come ha detto mio cuggino).

C’erano oggettivamente delle cose che facevano proprio schifo. Gli Sgorbions ad esempio. Se qualcuno non li ha presenti (povero lui!), ecco un esempio di questa serie di figurine

Ovviamente, piacevano ai maschi. Ma ho sorpreso anche qualche bambina intenta a scambiarsele. Io le bramavo ma a casa non me le compravano.

Un giorno un compagno di classe me ne regalò una. Evento più unico che raro, perché i bambini non regalano mai niente. C’è una sorta di sadica perfidia nel bambino che sa di avere qualcosa che un altro non ha, fosse anche una gomma da masticare.

Ecco, parliamo delle gomme da masticare: c’era la gomma a nastro, che io non ho mai avuto perché a casa dicevano che pure quella fosse tossica. Mi chiedo come sia possibile che io da adulto, per una sorta di ripicca, non sia diventato dipendente dal metadone.

Comunque, dicevo che un mio amico mi regalò una cartolina Sgorbions, questa:

La conservavo gelosamente come fosse il mio tesssoro, finché poi credo di averla persa. I ladri. I ladri. Quegli sporchi piccoli ladri. Dov’è? Dov’è? Ce l’hanno tolto, rubato. Il mio tesoro. Maledetti! Noi li odiamo! È nostro e lo vogliamo. Gollum! Gollum!

Oppure sarà finito nel buco nero delle cose dimenticate. Ci sono cose che possediamo che sembrano sparire nel momento in cui non sono più oggetto della nostra attenzione, come se dicessero Ok, ho fatto il mio tempo, mi ritiro.

Probabilmente finiscono tutte su una gigantesca isola deserta, abitata dai personaggi famosi che dicono che sono morti ma in realtà si sono tutti ritirati in un posto segreto che sa solo mio cugino ma che non lo dice a nessuno perché poi lo fanno sparire pure a lui.

Da bambino volevo nuotare nei soldi

Mettendo in ordine un vecchio cassettone, mia zia ha trovato dei miei vecchi disegni che nonna aveva gelosamente conservato.

La cosa particolare è che su quei disegni c’era il prezzo.

Sì, perché io li vendevo.

Da bambino avevo deciso quale sarebbe stato il mio futuro: volevo essere un miliardario. Un pargolo di poche pretese, insomma. Pensavo che però sarebbe stato meglio mettersi in affari sin da piccoli, in modo da avvantaggiarsi per il futuro e anche anticipare la concorrenza di altri futuri miliardari. E così decisi di vendere i miei disegni ai parenti.

Ero convinto di essere un artista in erba. Poi da adulto mi è rimasta solo l’erba, l’arte è finita da parte.

Avevo molte convinzioni da piccolino.

Per esempio ero convinto che:

  • Gli spot pubblicitari fossero in diretta e ogni volta gli attori dovessero presentarsi negli studi per rifarli;
  • Visto che la benzina inquinava, potevano mettere nei motori un altro liquido: l’acqua, ad esempio. Solo che visto che l’acqua è più facilmente reperibile, chi vende la benzina non era d’accordo per mero interesse economico e quindi se ne fregava, continuando a inquinare. Oh diciamo che non ero così lontano dalla realtà!
  • Anche se nel mondo le persone parlavano lingue diverse, il pensiero fosse in un’unica lingua, universale. Che a me sembrava italiano ma in realtà non lo era, era la lingua del pensiero.
  • Fare il militare voleva dire che ti sparavano addosso e tu dovevi correre per evitare i proiettili.
  • Ci fosse una regola nel calcio secondo la quale era obbligatorio per i giocatori passarsi il pallone, altrimenti non mi spiegavo perché un calciatore col pallone tra i piedi non andasse diritto verso la porta per fatti propri.
  • Girare con un mazzetto di figurine in tasca potesse dare potere, infatti me le portavo ovunque, anche quando non ero a scuola.
  • Gli oggetti, quando non visti dagli umani, si animavano e parlavano tra di loro.
  • Sarei diventato un giornalista (ma non volevo fare il miliardario? Un miliardario giornalista? Ah, ci sono: un editore miliardario! Dove l’ho già sentita?). L’avevo dimenticato, ma già intorno ai 6-7 anni mi dedicavo a produrre un mio giornale. Questo che ho riesumato non deve essere più recente del 1992, all’interno c’era un ritaglio di un articolo di Repubblica che parlava del Ministro dell’Ambiente Ruffolo (considerando che ha ricoperto la carica tra il ’90 e il ’92, i conti tornano).
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Notare l’originalissimo titolo della testata, il prezzo modico e la strategia di marketing per attrarre lettori: allegare regali.

Beata ingenuità infantile.