Non è che se tocchi il fondo sei per forza un maniaco

Erano 5 minuti che mi ero seduto e già desideravo essere altrove. Fissavo il bicchiere fingendo di cercarvi dentro qualcosa perso nel ’97 come fanno tutti quelli che guardano un bicchiere per non dover parlare con gli altri. Alla fine poi una persona di cui ignoravo le generalità e le adenoidi ha deciso che doveva parlare con me.

Sono settimane che mi sento stanco. Non voglio sentirmi obbligato a riempire i silenzi. Non voglio sentirmi obbligato a riempire spazi. Non voglio rivendicare l’assenza di diritti ma i diritti dell’assenza.

A tal proposito vorrei iscrivermi a un partito politico. Uno di quelli che lo 0,1 % è un miracolo. Voglio mostrare attivamente la mia adesione non ai perdenti, perché perdente è chi partecipa e perde, mentre chi già in partenza è fuori da qualsiasi competizione non perde. Non conta proprio un cazzo.

Ultimamente dico spesso “cazzo”.

Anche la persona che ha deciso di socializzarmi diceva spesso “cazzo”: apparteneva alla categoria di quelli che sentono spesso il bisogno di sottolineare che mi sta sul cazzo questo o mi stanno sul cazzo quelli. A me stanno sul cazzo le persone che dicono sempre che qualcosa/qualcuno sta loro sul cazzo. Non è per la volgarità dell’espressione ma perché mi chiedo se si pongano mai il problema di quanto loro invece possano stare sul cazzo agli altri.

Ma io con che diritto affermo ciò. Chi snobba gli snobisti è come il ladro che ladra in casa di ladri.


A meno che il ladro non ladri a fin di bene per raddrizzare un torto, questione che apre dilemmi etico-sofistici: il furto è grave in sé o a seconda del contesto?


Non è che vai in giro con un gancio per riuscire a rimorchiare

Ho conosciuto il padre di CR.

Sono stato invitato fuori a cena con famiglia CR (padre, le due figlie e l’Ingrugnito) e amici in due occasioni, tra sabato e martedì: il compleanno di lui – da qui in avanti denominato Zèzo – cadeva ieri, ma in pratica è gestito come se fosse il Carnevale di Rio. Si festeggia infatti per una settimana: giovedì sera è prevista ancora un’altra serata.


In napoletano ‘o zèz è l’uomo che fa il cascamorto, si profonde in smancerie e complimenti, molto spesso per il solo gusto di apparire. Il zèzo, infatti, spesso agisce per colmare un insanabile egocentrismo, tanto che esercita il proprio carisma con chiunque, donne e uomini, vecchi e bambini, per attirare l’attenzione.

Esiste anche la versione femminile, ‘a zèza, che, allo stesso modo della controparte maschile, è tutta moine e vezzi e non chiude la bocca mai.


Le origini etimologiche sembra risalgano al teatro napoletano, da Zeza, diminutivo di Lucrezia, moglie di Pulcinella, che abbindolava il marito con smancerie e atteggiamenti falsi.


Il Zèzo che ho visto all’opera in queste serate è un arzillo 70enne che si è esibito in baciamano e canzoni all’indirizzo delle cameriere, oltre che nel fare conoscenza con giovani donne nei tavoli di fianco.

Ha anche illustrato a noi maschi presenti le tecniche valide per un approccio, accompagnate da aneddoti di quando sono state applicate in giro per il mondo per fare conquiste.

Una di queste tecniche è particolarmente interessante, per quanto non originale.

Il Zèzo sostiene che, quando al tavolo di fianco c’è una donna che reputiamo interessante, per rompere il ghiaccio e far conoscenza non bisogna partire all’attacco bruscamente.

Basta attendere il momento in cui lei prende in mano un bicchiere per bere e, guardandola negli occhi, alzare il proprio bicchiere in contemporanea ammiccando per un brindisi virtuale. In tal modo si crea un contatto e, cito, “poi è fatta, ce l’hai già lì, devi solo chiedere il numero”.

Ha raccontato che, una volta, mentre era seduto a un tavolino a Piazza del Plebiscito, per non farsi sfuggire l’occasione giusta ha atteso mezz’ora col bicchiere in mano aspettando il momento in cui una donna che aveva adocchiato si decidesse a bere.

Alla luce di questo aneddoto ho pensato allora di migliorare la sua tecnica, che è sì efficace ma alquanto statica. Infatti occorre star fermi e seduti a un tavolo in attesa dell’attimo propizio. Inoltre non è detto che si sia sempre così fortunati da avere di fianco qualcuna con cui far conoscenza o che beva.

Si potrebbe allora uscire di casa già con un bicchiere in mano, andando in giro a cercare occasioni da cogliere e brindisi cui ammiccare girando di bar in bar, di bistrot in bistrot, di bettola in bettola.


D’inverno magari potrebbe essere un po’ difficoltoso stare tutto il tempo per strada con la mano che regge un bicchiere, ma in ogni caso non andrebbero indossati i guanti. Avete mai visto uno che brinda coi guanti di lana? Non è elegante, suvvia.


Le bevande da portare dietro andrebbero diversificate a seconda delle fasi della giornata.

Al mattino: tazzina di caffè
Prima del pranzo: un bicchiere di Spritz
All’ora di pranzo: calice di vino
Nel pomeriggio: tazza di tè
La sera: calice di Prosecco
Dopo cena: un boccale di birra


Le bevande sopra esposte sono a titolo puramente esemplificativo. Nulla vieta di utilizzarne delle altre.


Chi volesse dunque sperimentare la tecnica e fornirmi dei feedback è ben accetto. Dimostriamo che possiamo essere zèzi migliori delle vecchie generazioni!

Dimmi chi sei e ti dirò se la tua è un’opinione pubblica, pubica o pudica

Mi punge vaghezza (o forse non è vaghezza ma una zanzara) di vedere che ne pensano. Un esperimento antropologico. Poso il bicchiere.

“Comunque mi sarebbe piaciuto partire per il vicino Est Europa con una Ong”.

Lui mi osserva e il viso si contrae in una malcelata risata come se avessi detto “mi son comprato un naso da pagliaccio e andrò in giro indossandolo”. Socchiude gli occhi guardando il mio vicino di posto, cercando complicità nel riso trattenuto per educazione.

Concludo allora il discorso in modo frettoloso restando molto sul vago, fino a far morire le ultime parole in un sorso di birra. I bicchieri pieni sono il miglior antidoto all’imbarazzo e un ottimo metodo di evasione.

I feedback degli individui sono filtrati dalle loro esperienze. Ogni essere umano ha il proprio bagaglio di trascorsi che influenza le relative opinioni.

Il che pone un interrogativo: un parere quanto potrà essere oggettivo?

Poniamo che voglia cambiare lavoro, perché non mi soddisfa. Anzi, voglia cambiare vita. Compio allora un sondaggio su un campione molto ristretto:

A) 27 anni, disoccupato ancora in cerca di primo impiego a 3 anni dalla laurea che forse adesso ha un’opportunità. Per 400 euro al mese.
B) 31 anni, disoccupata dopo aver lasciato impiego da baby sitter con lavoretto part-time in corso per conto di un amico (ovviamente in nero).
C) 23 anni, universitaria con alle spalle erasmus/viaggi studio all’estero/stage all’estero in corso.
D) 29 anni, lavoratore in nero non soddisfatto e che non vede prospettive di crescita nell’ambiente lavorativo che frequenta.

I pareri ottenuti sono i seguenti (in ordine sparso):

1) Vai, cambia, se non ti soddisfa. Hai un’età in cui puoi permetterti ancora di scegliere, fa’ quel che ti piace.
2) Parliamoci chiaro, se dessero 1200 euro al mese sarebbe diverso (Premio G.A.C.!).
3) Però di questi tempi un lavoro è pur sempre un lavoro, se non hai di meglio…
4) Io avrei abbandonato già da tempo.

Il gioco è abbinare le risposte alle persone che le hanno rilasciate.