Non è che il sub sia uno che ci resta sotto

Il ritorno a una normalità, con tutte le regole e le precauzioni del caso, è segnato anche dal veder comparire delle presenze familiari.

Questa sera io e due miei sodali – a distanze di sicurezza – siamo stati avvicinati da quello che definisco il Re dei Bruciati della città.


I Bruciati sono un gruppo di frequentatori assidui di un ritrovo storico a me familiare, che praticamente negli ultimi 20 anni ha cresciuto me e i miei amici a botti di Bass Scotch e Tennent’s. Una storia edificante, diciamo. Questi avventori, chiassosi e con problemi di equilibrio, li inquadrerei con termini scientifici dicendo ci sono rimasti sotto, da parecchio. Penso avessero familiarità con la keta prima che divenisse Myss.


Dopo avermi chiesto in dono, un giorno che non l’avessi voluta più, la maglietta col logo dell’Atari che avevo indosso, ha iniziato una conversazione, o meglio, un flusso di coscienza con oggetto la quarantena e le restrizioni, di cui non ho un filo logico da riportare o qualche passo specifico, se non uno che mi ha colpito quando ha detto che mio padre è cubico.

In realtà non mio padre nello specifico. Mentre lo diceva si rivolgeva a me e al mio amico, ipotizzando, a proposito delle regole, «Se un vigile prende e ferma tuo padre», rivolgendosi quindi a un padre che potrebbe essere quello di chiunque, un meta-padre martire dell’ingiustizia dello Stato.

Ebbene, ha proseguito, il vigile ferma il meta-padre perché è in giro e gli fa la multa e il meta-padre, «che altro deve fare? Lui è cubico».

«È cubico perché come devo dire ci vive dentro, le palazzine dove abita sono dei cubi, la fabbrica è un cubo, la sua vita è all’interno del cubo e quindi prende e paga 500€ di multa nonostante viva magari con una pensione di 600».

Ebbene, vi dirò, ho trovato che il discorso avesse un senso. In base alla parafrasi che ho fatto sulla via del ritorno a casa, quel che voleva dire probabilmente è che l’uomo onesto, l’uomo probo (tralalalalla tralallaleru), vive la sua vita irregimentato, confinato, abituato alle regole e alle imposizioni, cosicché anche di fronte a un abuso di potere come quello dell’ufficiale che lo sanziona per il semplice fatto di esistere lì in quel momento in quella strada in quello spazio di libertà, lui si piega perché la dimensione cui è stato abituato è quella dell’obbedienza.

Mai innanzitutto avrei pensato di ricevere un’illuminazione da un tipo del genere, con cui in verità non ho mai parlato in 20 anni ma che oggi si rivolgeva a me come se ci conoscessimo da una vita. O forse in una fase allucinatorio-onirica mi ha scambiato per un altro.

Mai, inoltre, avrei pensato a mio padre come cubo.


Tutt’al più da adolescente l’ho ritenuto un incubo, il che a ripensarci oggi mi porta a chiedere perché nessuno mi ha elargito talvolta una salutare dose di schiaffoni, ché va bene che la violenza corporale sui figli è sbagliata e non si deve applicare, ma magari due pizze in faccia come terapia anticoglionaggine di tanto in tanto io gliele avrei date a me stesso.


E adesso sono qui, che scrivo, all’interno di una stanza che è un cubo che vedo dopo che mi è stato squarciato il velo di Maya dagli occhi.

E se fossi io il bruciato?

Non è che l’eremita estetista sia solito depilare l’asceta


PREMESSA NON FUNZIONALE AL POST
La nuova impostazione grafica del lettore di WordPress è orribile.


Di come ho sfigurato davanti al Maestro.

Durante la cena di celebrazione del Zèzo, mentre assaporavo la mia zuppa di patate e funghi l’attenzione degli altri gentiluomini par mio presenti al tavolo è stata attirata da un’altra patata.

– Secondo me è ungherese

Ha affermato il Zèzo.
Io ho alzato la testa per rispondere che, sì, la mia zuppa era proprio ungherese. Lo si poteva facilmente intuire dalla quantità di aglio. Insieme alla cipolla, è sempre presente in qualsiasi piatto. Forse anche nelle bevande, a vostra insaputa.

Poi mi sono accorto che guardavano tutti alla mia destra. Non erano quindi interessati alla mia zuppa ma a una ragazza che, al tavolo di fianco, cenava sola.

È noto che una donna sola in un luogo pubblico attiri l’attenzione, anzi, le donne girano di proposito da sole per attirare l’attenzione, anzi, le donne nascono donne per attirare l’attenzione.

Anche la mia attenzione è stata attirata da costei.
In primo luogo perché era a braccia scoperte e l’ho invidiata tanto.

Io, anche d’inverno, tendo a soffrire il caldo nei luoghi chiusi e starei sempre a mezze maniche. In ufficio, quando non mi presento in t-shirt, arrotolo le maniche della camicia tante volte sino a bloccarmi la circolazione negli avambracci. Quando diventano cianotici mi rendo conto di aver esagerato.

Eppure, alla cena, per darmi una parvenza di rispettabilità avevo una camicia coi polsini addirittura abbottonati. Soffrivo molto.


La camicia era ovviamente a quadrettini, perché l’uomo rispettabile è un tipo quadrato.


La seconda cosa che mi ha colpito della ragazza è sempre correlata alle sue braccia. Quando le ha alzate, ho notato il folto pelo delle sue ascelle che neanche Chewbacca.

Qualcuno inorridirà.
Io non ci trovo nulla di scandaloso.
È spaventoso un pelo nella zuppa, semmai, solo che i poteri forti distolgono la nostra attenzione verso presunti altri problemi per non far notare il pelo nel piatto.

Seguendo i consigli del Zèzo, uno dei presenti ha conversato un po’ con la ragazza. Il Maestro ha poi suggerito di chiederle il numero per invitarla a uscire il giorno successivo.

Il discepolo cui era rivolto il suggerimento ha declinato, dicendo di non sentirsela e invitando me invece a farlo:
– Fallo tu, dai

Accompagnando le parole con un ampio gesto della mano a indicare magnamini…magnamnit…magnamimini…grande generosità.


Ché poi, quando si descrive, se un gesto della mano non è ampio non è rilevante, un po’ come quando uno che parla deve schioccar la lingua per forza.


Al che ho replicato

– Non voglio e non posso. Inoltre, bisognerebbe vedere se lei è d’accordo
– Eeeh! (tutti in coro)
da intendersi come un “ma che dici”.

Il Maestro Zèzo ha anche aggiunto:
– Se fossi stato io…Mannaggia, qua ci stanno le figlie mie, non posso proprio fare niente…una volta c’era una in… (aneddoto storico sulle avventure del Maestro Zèzo a caso, in chiusura di ogni suo discorso ).

A casa ho poi riflettuto e ho dovuto ammettere di essermi meritato la sua riprovazione.

Mica quando avevo ordinato la zuppa di patate la cameriera ha detto “Bisogna vedere se la patata è d’accordo?”.

Purtroppo il Maestro domani parte e chissà quando avrò ancora occasione di seder al desco con lui.

Non è che vai in giro con un gancio per riuscire a rimorchiare

Ho conosciuto il padre di CR.

Sono stato invitato fuori a cena con famiglia CR (padre, le due figlie e l’Ingrugnito) e amici in due occasioni, tra sabato e martedì: il compleanno di lui – da qui in avanti denominato Zèzo – cadeva ieri, ma in pratica è gestito come se fosse il Carnevale di Rio. Si festeggia infatti per una settimana: giovedì sera è prevista ancora un’altra serata.


In napoletano ‘o zèz è l’uomo che fa il cascamorto, si profonde in smancerie e complimenti, molto spesso per il solo gusto di apparire. Il zèzo, infatti, spesso agisce per colmare un insanabile egocentrismo, tanto che esercita il proprio carisma con chiunque, donne e uomini, vecchi e bambini, per attirare l’attenzione.

Esiste anche la versione femminile, ‘a zèza, che, allo stesso modo della controparte maschile, è tutta moine e vezzi e non chiude la bocca mai.


Le origini etimologiche sembra risalgano al teatro napoletano, da Zeza, diminutivo di Lucrezia, moglie di Pulcinella, che abbindolava il marito con smancerie e atteggiamenti falsi.


Il Zèzo che ho visto all’opera in queste serate è un arzillo 70enne che si è esibito in baciamano e canzoni all’indirizzo delle cameriere, oltre che nel fare conoscenza con giovani donne nei tavoli di fianco.

Ha anche illustrato a noi maschi presenti le tecniche valide per un approccio, accompagnate da aneddoti di quando sono state applicate in giro per il mondo per fare conquiste.

Una di queste tecniche è particolarmente interessante, per quanto non originale.

Il Zèzo sostiene che, quando al tavolo di fianco c’è una donna che reputiamo interessante, per rompere il ghiaccio e far conoscenza non bisogna partire all’attacco bruscamente.

Basta attendere il momento in cui lei prende in mano un bicchiere per bere e, guardandola negli occhi, alzare il proprio bicchiere in contemporanea ammiccando per un brindisi virtuale. In tal modo si crea un contatto e, cito, “poi è fatta, ce l’hai già lì, devi solo chiedere il numero”.

Ha raccontato che, una volta, mentre era seduto a un tavolino a Piazza del Plebiscito, per non farsi sfuggire l’occasione giusta ha atteso mezz’ora col bicchiere in mano aspettando il momento in cui una donna che aveva adocchiato si decidesse a bere.

Alla luce di questo aneddoto ho pensato allora di migliorare la sua tecnica, che è sì efficace ma alquanto statica. Infatti occorre star fermi e seduti a un tavolo in attesa dell’attimo propizio. Inoltre non è detto che si sia sempre così fortunati da avere di fianco qualcuna con cui far conoscenza o che beva.

Si potrebbe allora uscire di casa già con un bicchiere in mano, andando in giro a cercare occasioni da cogliere e brindisi cui ammiccare girando di bar in bar, di bistrot in bistrot, di bettola in bettola.


D’inverno magari potrebbe essere un po’ difficoltoso stare tutto il tempo per strada con la mano che regge un bicchiere, ma in ogni caso non andrebbero indossati i guanti. Avete mai visto uno che brinda coi guanti di lana? Non è elegante, suvvia.


Le bevande da portare dietro andrebbero diversificate a seconda delle fasi della giornata.

Al mattino: tazzina di caffè
Prima del pranzo: un bicchiere di Spritz
All’ora di pranzo: calice di vino
Nel pomeriggio: tazza di tè
La sera: calice di Prosecco
Dopo cena: un boccale di birra


Le bevande sopra esposte sono a titolo puramente esemplificativo. Nulla vieta di utilizzarne delle altre.


Chi volesse dunque sperimentare la tecnica e fornirmi dei feedback è ben accetto. Dimostriamo che possiamo essere zèzi migliori delle vecchie generazioni!

Non è che il voto sia una sofferenza perché ognuno apporta la propria croce

A livello politico mi ritengo un buon gattocratico, nel senso che comunque la pensiate non mi interessa sapere come la pensiate.

Fatta questa premessa, vorrei esprimere il mio rammarico per non aver ricevuto la nota lettera di invito al voto del Presidente del Consiglio.


D’altro canto, non essendo io ufficialmente residente all’estero non vedo come avrei potuto averla!


Mi sarebbe piaciuto riceverla, però, per conservarla: è nota la questione del refuso grossolano contenuto in tale lettera.

Io allora l’avrei incorniciata e conservata. Magari un giorno potrebbe divenire di valore come un Gronchi rosa, il francobollo ritirato a causa di un errore di stampa.

E la mia fantasia è corsa a immaginare la scena del dire a una fanciulla “Vuoi salire su da me a vedere la mia lettera di Renzi?”.

Com’è ovvio, se la ragazza fosse già decisa a trascorrere più tempo insieme, non baderebbe al contenuto formale del mio invito.


In generale penso che sia un bene che talvolta le donne sorvolino su molte minchiate che noi uomini diciamo nel tentare di corteggiarle, riuscendo a discernere l’uomo dietro la maschera delle sopracitate minchiate.


Qual sarebbe poi la sua sorpresa e la mia soddisfazione, una volta entrati nell’appartamento, nel mostrarle invece un originale Renzi 2016!

E, dopo, mandarla via in quanto riterrei esaurito lo scopo della sua visita!

Sento e leggo spesso lamentele da parte delle donne su quanto gli uomini non siano più capaci di sorprenderle.


Quando ero al liceo provavo a nascondermi dietro gli angoli e poi saltare fuori gridando Buh! davanti le mie compagne, ma sembra che questo non fosse il modo giusto per sorprenderle.


Questo invece sarebbe un vero atto sorprendente!


Che poi la questione che uomini e donne non siano più quelli di una volta mi lascia sempre privo di argomenti, perché non ho mai potuto frequentare uomini o donne di una volta e quindi non saprei proprio cosa dire in merito. E non capisco perché tutti guardino al passato e nessuno si preoccupi invece del futuro, sottolineando che uomini e donne di oggi non sono quelli del futuro, purtroppo!


Non è che l’automobilista scettico non creda che l’uomo sia andato sulla Duna

Quando leggo notizie e articoli online faccio una cosa che non dovrei mai fare ma in cui puntualmente ricasco.


No, non è ravanarmi nel naso in cerca delle mie radici. Almeno non sempre.


Parlo dell’occhio che mi cade sui commenti.

Ce ne sono di vari tipi, alcuni però si possono far rientrare in tipologie fisse:
– C’è il complottista, secondo il quale è tutto falso messoci davanti agli occhi per distrarci. Al che mi sorge il dubbio: e se il complottista comparisse per distrarci e quindi ci fosse un complotto al quadrato?
– C’è l’allorista, per il quale a ogni notizia fa da contraltare qualcos’altro di peggio. Sono stati avvistati degli americani che mettevano il ketchup sulla pasta? Io ho visto italiani mettere il parmigiano sugli spaghetti con le vongole, perché nessuno ne parla? Eh?
– C’è lo sgrammaticato che lascia virgole, vocali, consonanti e sintassi lungo la strada. Forse potrebbe anche dire qualcosa di sensato ma non lo si capirà mai.
– C’è il grammar nazi fuori tempo massimo che è un po’ come il giapponese rimasto nel bunker a combattere in eterno la Guerra Mondiale: se la notizia è “Esplode fabrica di cazzate, 100 rincoglioniti”, lui interverrà a muso duro dicendo Si scrive fabbrica con due b, ignoranti…
Quello che butta il due di bastoni quando regna denari: l’uomo fuoriluogo, che, qualunque sia l’oggetto della discussione, dal cercopiteco grigioverde dell’Etiopia alle sonde nasogastriche, interviene per mettere in mezzo questioni politiche che non c’entrano niente.

È sempre esistita la figura del disturbatore della rete, forse da ancor prima che venisse inventato internet: si narra che quando Meucci inventò il telefono il giorno dopo ricevette una chiamata da uno che cercava una certa Gina Lava e quello scherzo può essere ricondotto al primo caso di intervento fuori luogo.

Ma andando ancor molto più indietro nel tempo possiamo tornare all’epoca degli Egizi: geroglifici e papiri erano i mezzi di scambio e condivisione di informazioni privilegiati. Anche gli unici, se vogliamo. Pare che alla notizia del suicidio di Cleopatra tramite morso di un aspide, si diffusero papiri con i commenti più disparati.

Grandeobelisco23
Vabbe è morta ma almeno le ha uscite!!!! #grandipoppe #milfdelnilo #chesièpersomarcoantonio

fioredelnilo
Ma il serpente??? Che fine ha fatto???? Perkè nn scrivete come sta?

cesareunicoduce
almeno in egitto i governanti si suicidano, mica come a Roma dove vivono mangiando a sbafo!!!! E io pago!!!…

adamkadmon
Sì…l’aspide, certo…guarda caso il serpente è sparito…poi qualcuno ha visto quando l’ha morsa?!…vi stanno ingannando, gente…la vera Cleopatra è morta anni fa quando ha dato alla luce Cesarione (che poi sarebbe Cesariano, ces+ariano perché figlio degli Arii perché Cesare si era convertito ai culti misterici della valle dell’Indo e per questo fu ucciso, altro che senato e dittatura!) ed è stata sostituita da una sosia…meditate gente…

Attualmente però costoro si sono moltiplicati e diffusi: se una volta internet e i forum di discussione erano considerati roba da asociali sfigati, oggigiorno chiunque invece si sente in dovere di dire la propria in modo superficiale e imbecille, dalla massaia di Vergate sul Membro al commercialista di Cunnilinguo sul Clito.

E io ho paura. Perché mi chiedo se siano persone che incontro ogni giorno.

Magari mi ci sono seduto allo stesso tavolo, senza sapere che di fronte avevo uno che commenta in modo idiota i fatti del mondo, anche quelli gravi e tragici.

La luce della lampada riflette il mio volto sulla scocca del portatile. Mi guardo e mi viene un dubbio: e se anche io fossi un idiota?

Non è che il volatile ficcanaso sia un im-piccione

Quando tornerò in Italia so più o meno quale sarà il tenore, e anche il baritono con tutta l’orchestra, delle domande che mi saranno rivolte:

– Ora che farai?
Che è una delle domande che mi dà più fastidio ma che ho imparato a svicolare con delle supercazzole, del tipo “Vado a fare volontariato per una associazione che raccoglie fondi di caffè per comprare scarpe agli ordini monastici scalzi”. Tanto chi ti pone la domanda in genere smette di ascoltare nel momento stesso in cui te la sta ponendo, un po’ lo stesso principio del “Come stai?” di circostanza.

e

– Quindi son bone le ungheresi?
Per dare l’idea del livello intellettuale che, in taluni casi, può raggiungere una conversazione.

Delle volte io vorrei parlare di altro.
Della mia infelicità.

Vorrei ma non lo farei.
Ovunque mi giri vedo il male. Vedo difficoltà, problemi. Chiunque conosca ha un fardello pesante da portare. Non mi sembra il caso di presentargli il mio.

Inoltre, uno dei problemi della società odierna è che tutti parlano e nessuno ascolta più. Siamo invasi da chiacchiericcio e blablabla, siamo portatori virulenti di egocentrismi.

Una delle prove è secondo me il fatto che quest’epoca è inflazionata da artisti. L’arte è comunicazione e oggi tutti sentono la necessità di comunicare. Molti però comunicano di merda.

Io preferisco ascoltare.

Va anche detto che non saprei da dove iniziare, se volessi parlare: sono infelice per il lavoro? Confesso che, di tanto in tanto, mi sale lo sconforto più che altro a pensare che probabilmente morirò prima di andare in pensione e quindi poter vedere i cantieri con le mani dietro la schiena commentando caustico e cercando l’assenso di altri anziani miei pari.

Ma non è questo.

Sono infelice perché le mie relazioni durano meno di una promessa elettorale? Guardiamo il lato positivo: posso mangiare tutto l’aglio e la cipolla che voglio senza preoccuparmene.

Non c’è un motivo concreto per cui io debba sentirmi giù di toner, come direbbe una fotocopiatrice.

Essendo io incline al leopardismo – tra felini ci si intende – delle volte rifletto su questa frase che da anni mi dà da pensare:

Quando l’uomo non ha sentimento di alcun bene o male particolare, sente in generale l’infelicità nativa dell’uomo, e questo è quel sentimento che si chiama noia [Zibaldone di pensieri]

Tendo a diventar inquieto dopo poco appena mi fermo.

Non è che io sia sempre così, beninteso.

Mi rallegro e godo di tante cose. Mi affascinano soprattutto i piccoli momenti che regalano un sorriso.

Un messaggio inaspettato in cui ti chiedono Come stai?, che, a differenza dell’incontro casuale e del Come stai? di circostanza, implica che in quel momento alla persona tu sia venuto in mente.

Aprire il frigo pur sapendo di non avere nulla dentro ma poi ricordarsi che nel congelatore avevi messo da parte una porzione di qualcosa di buono per ogni evenienza.

Leggere un libro sotto un albero.

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La minzione liberatoria quando stai scoppiando, dopo un litro di birra.

Un complimento ricevuto.

Un complimento fatto e vedere il piacevole apprezzamento negli occhi altrui, di chi comprende che non è una affermazione buttata lì per riempire un vuoto.

I momenti strani quotidiani, come quando l’altroieri ho alzato la testa perché mi sentivo osservato e mi son trovato un piccione che mi scrutava dal fondo del corridoio.

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Ho aperto la porta e l’ho seguito finché non è uscito. Tanto è noto che i piccioni, se inseguiti, camminano invece di svolazzare.

Quando è arrivato sullo zerbino, si è girato a guardarmi. Allora mi è venuto spontaneo, mentre chiudevo la porta, dirgli per educazione: “Ciao, eh! Stia attento, mi raccomando”

Dopo ho riso di me pensando al fatto che parlo agli uccelli.

E poi mi son chiesto: e se un giorno non traessi più piacere da nulla? Se non ridessi più?

E un po’ mi son incupito.

Non è che il rocker appenda il cappello al “chiodo”

Da bambino collezionavo berretti da baseball non originali. Dato che quelli griffati costavano troppo mi era concesso comprare solo pseudo imitazioni con nomi improbabili ma americaneggianti, del tipo “Green Skins”, “American University” e via dicendo.

Avevo poi un cappellino Rebook abbastanza misero ma che era il mio preferito, fino a che un giorno in prima media una compagna di classe cui pare io piacessi non se lo strusciò sotto il sedere durante l’ora di educazione fisica.


A me basta un occhio solo per parare, capito?

La cosa andò così: scendemmo in cortile, maschi a tirare calci al pallone, femmine a giocare a pallavolo. Da buon portiere, come era di moda negli anni ’90 e come faceva Benji Price, indossavo il cappello. Non vedevo un cazzo ogni volta che il pallone si alzava, ovviamente, perché la visiera era più grossa della mia testa.

Una compagna – non quella cui piacevo – mi chiese di prestarle il cappello, per il sole. Io glielo cedetti, per fare il galante. Ero un gattomorto già da piccolo.

Dopo un po’, mentre mi godevo la solitudine del numero uno (il calcio da ragazzini funziona così: tutti dietro la palla, tranne il portiere, ovviamente), arriva un gruppetto di compagne agitando il mio berretto e gridandomi
Gintokiiiii…N. si è presa il tuo cappello, si è seduta sopra e si è anche strusciata!

Strani metodi per attirare l’attenzione.


Tale compagna dedita a tali strane pratiche di corteggiamento, tra l’altro, era l’unica a 11 anni ad avere già una terza. Non capisco io a cosa pensassi e perché mai io la ignorassi!


Probabilmente la visiera mi impediva di avere una visione corretta degli eventi.


Portavo il cappello ovunque, anche dentro casa. Altrui.

Idem dicasi per la chiesa, dove poi ovviamente me lo facevano togliere e io accettavo di buon grado. Ero fervente cattolico da piccolo, prima di scoprire la pornografia.

Una cosa non l’ho mai capita: perché togliersi il cappello in chiesa?

Una delle prime cose che insegnano è che dio è ovunque.
Quindi avrebbe dovuto essere presente anche sotto il mio cappello.

Forse lì sotto fa troppo caldo quindi bisogna togliersi il cappello per farlo uscire a respirare? Perché allora non vale per le donne? A dio piacciono i capelli delle donne anche se un po’ sudaticci? Anche a me, purché non oltre un giorno dopo lo shampoo e non certo dopo una maratona o una giornata di saldi.

Può sembrare una stupidata (no, tranquillo, non sembra: lo è), ma quando ho provato a fare delle ricerche su internet riguardo questo argomento ho scoperto che molta gente nei forum cattolici si interroga sulla questione “cappello in chiesa”. C’è chi si accapiglia a colpi di Nuovo Testamento vs Concilio Vaticano II. E non sto scherzando.

La tesi su cui concordano costoro è che l’uomo si tolga il cappello per rispetto, la donna lo tiene per coprirsi, come segno di morigeratezza (?)

In loro soccorso a tal proposito giunge Paolo nella prima lettera ai Corinzi, versetti 13 – 15:

13 Giudicate voi stessi: è conveniente che una donna faccia preghiera a Dio col capo scoperto?
14 Non è forse la natura stessa a insegnarci che è indecoroso per l’uomo lasciarsi crescere i capelli,
15 mentre è una gloria per la donna lasciarseli crescere? La chioma le è stata data a guisa di velo.

Ma se oggigiorno in chiesa è accettato un uomo con i capelli lunghi o una donna a capo scoperto, perché non è ancora accettato un uomo col cappello?
Mi risponde ancora Paolo che evidentemente già sapeva di me e del mio essere rompicoglioni:

16 Se poi qualcuno ha il gusto della contestazione, noi non abbiamo questa consuetudine e neanche le Chiese di Dio.

Gli chiedo scusa.

Però vorrei dire: si polemizza sempre sulla Chiesa, che dovrebbe modernizzarsi e aprirsi e quant’altro ma avessi sentito uno, dico soltanto uno, porre la questione del cappello. Io non lo trovo giusto: i diritti dei portatori di cappello che fine fanno se non hanno voce in capitolo?

Ero quindi carico di questi dubbi mentre rimiravo il copricapo che utilizzo qui a Budapest per difendermi dai rigori e dai calci di punizione dell’inverno.

Tranquillizzo tutti i vegani, il pelo non è di origine animale ma di casalinghe di Orzinuovi.

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Con un paio di occhialoni potrei sembrare Jet McQuack

Dal Medioevo a oggi, per sopravvivere bisogna prendere i voti

Attenzione: il post contiene un breve pippone di sociologia politica spicciola, evidenziato da apposita segnaletica.

Camminare per strada di giorno può essere pericoloso, perché si può più facilmente essere riconosciuti e avvicinati da persone non gradite.

No, non sono un v.i.p., non ancora, almeno.

A maggio qui ci saranno le elezioni comunali. Iniziano, quindi, le operazioni di caccia all’elettore e qualcuno già si sta muovendo.

Per strada ho rischiato di incrociare un mio compagno di classe delle scuole medie, col quale capitava di uscire a volte la sera insieme fino ai 17-18 anni. Costui, di cui ricordo un’appartenenza politica fortemente polarizzata tanto da cambiare partito due-tre volte cercando sempre quello più estremo, mi ha scritto su Fb la settimana scorsa chiedendomi di partecipare a un’incontro con un candidato sindaco, tra l’altro mio ex compagno di liceo. La mia sorpresa è stata constatare che “il polarizzato” si sia anche lui riciclato nel nuovo che avanza (in frigo), impiegandosi anche come galoppino elettorale.

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C’è una cosa che fatico ogni volta a comprendere: perché durante le elezioni comunali ci sono persone che si impegnano tanto a pubblicizzare questo o quel candidato? Io parto dal presupposto che sia inutile, perché
– se ho deciso di votare ciò che hai in mente, è inutile quindi che tu mi faccia pubblicità;
– se ho deciso di non votare ciò che hai in mente, non cambierò idea per la bella faccia tua.

Attenzione: qui comincia il pippone.
Ovviamente questo discorso non tiene conto dei fattori legati al comportamento elettorale e delle varie tipologie di voto che esistono. Se il mio discorso può valere per un voto d’appartenenza, esistono invece il voto d’opinione e il voto di scambio che sono suscettibili di influenza.

Al giorno d’oggi si ritiene che le persone possano agire su base più pragmatica, orientandosi verso questo o quel partito in grado di poter offrir loro i maggiori benefici. L’elettore, alla stregua di un consumatore che esamina i prodotti, si informa sui programmi dei candidati e, sulla base di ciò, effettua una scelta razionale. Questo dovrebbe essere, in sintesi, il voto che dovrebbe caratterizzare il periodo politico odierno.

In realtà non mi sento di concordare. Continuo a ravvisare una forte componente radicale nel comportamento dell’elettore. Oggi, 2015, non ha senso più parlare di grandi ideologie – intese come insieme di credenze condivise che orientano le masse – di tipo tradizionale, ma esiste contemporaneamente la tendenza ad assumere atteggiamenti fortemente radicali e difficili da controllare, proprio perché connotati da una base ideologica. Il motivo a mio avviso è molto semplice: semplificando, l’uomo è ragione e sentimento, come direbbe la Austen. Dato che l’ideologia non risponde alla ragione, finché l’uomo avrà emozioni e sentimenti continuerà a esprimere comportamenti ideologici.
Fine del pippone.

In questo senso il mio amico polarizzato riciclato non costituisce più una sorpresa: anzi, rappresenta un’evoluzione darwiniano-politica lineare. Le sue pulsioni ideologiche, per sopravvivere, non han fatto altro che spingerlo a trovare un’altra via di espressione.

Sono contento di essere riuscito ad evitarlo, perché io ho un problema nel dire no alle persone. Mi spiace deludere gli altri. Mi rallegro della mia prontezza di riflessi che mi porta a cambiare strada o a celare il volto con un colpo di tosse, il tutto non visto, approfittando di una distrazione del nemico. I miei sensi di gatto funzionano alla perfezione.

E sarò contento di riuscire a fare lo stesso nei prossimi mesi, fortuna che 5 giorni la settimana vivrò lontano da qui e il compito mi sarà più agevole. Non ho alcuna voglia di incontrare, comunque, miei coetanei ed ex compagni di scuola (e ce ne sono vari) che si sono riversati in politica perché non sapevano che altro fare nella vita. Come nel Medioevo quando chi non sapeva far nulla si avviava alla carriera ecclesiastica.

Non è invidia, quanto un attestato di stima: apprezzo chi sa valorizzare le proprie capacità. A me, confesso, piacerebbe ricoprire ruoli politici – per arrivare un giorno a instaurare una Gattocrazia -, ma mi manca la necessaria credibilità. Avete presente? Quando si guarda qualcuno in faccia e si rimane convinti a pelle.

Qualcuno dice che è faccia da culo.

Ecco, io ho tante facce, da schiaffi, da pirla, da annoiato, da incazzato, da tediato (che è una forma più nobile di noia), ma quella da culo non mi riesce.

gattocrazia

Quando arrivo al terzo movimento, mi sento presto agitato

Ci sono sempre dei momenti in cui si sbaglia tempistica.

Io, ad esempio, mi sento spesso l’uomo del momento sbagliato. È un momento sbagliato per dire questo, hai atteso troppo. È un momento sbagliato per fare questo errore, perché già siamo oberati di lavoro. È un momento sbagliato per rompere la macchina. È un momento sbagliato per farsi avanti con quella donna, è un momento sbagliato per dire delle cose che forse non hanno mai un momento giusto, come delle situazioni che non hanno in realtà un proprio vero momento mai.

Ci ripensavo guidando mentre tornavo a casa. Mi si erano un po’ inumiditi gli occhi, ma va bene, almeno le lenti a contatto si mantengono ben idratate. Mi pento sempre di aver cominciato tardi a indossarle, si sta una meraviglia. Sapete come ho imparato a metterle? Toccando col dito (pulito e lavato, ovviamente) la parte bianca dell’occhio. No, non fa male, non sente niente. Una volta presa confidenza, una lente appiccicata sulla cornea non mi faceva effetto, perché non avevo più un blocco ad avvicinare qualcosa all’occhio.

Era una questione di sclera, quindi.

Altre volte è questione di scleri, invece.

Sì, ho raccontato delle lenti a contatto solo per arrivare a questo gioco di parole, ma è vero che avevo gli occhi lucidi.

Alla domanda: ma ti sentiresti male ad allontanarti perché non sarebbe carino o…io interrompo prima che finisca la frase.

Perché vorrei dire: scema. Scema scema scema scema scema scema e ancora scema. Scema se pensi che sia una forma di cortesia, un doverismo. Se sono triste non è perché abbandono una persona che attraversa un grave momento di difficoltà, ma perché abbandono una persona, punto. So cosa ho detto, ero presente ai miei scleri, ma non era il momento neanche quello.

Purtroppo succede sempre così. Si conosce qualcuno, prima, ci si prende, poi. Infine arriva la terza parte, quella del redde rationem.
E io vado in agitazione.

Vado a toccarmi la sclera per verificare se sente qualcosa. E a riflettere su questa cosa della tempistica: è una gran sciocchezza, il tempo è una puttanata, si sappia. Noi umani abbiamo questa concezione di passato, presente e futuro come parte di una freccia che va avanti verso l’infinito e oltre. Non è vero niente, non esistono passato, presente e futuro ma solo delle istantanee di ogni singolo momento, come se fossero tanti “presenti” sovrapposti.

E allora perché non siamo mai sempre e comunque presenti a noi stessi? Siamo umani, dunque. E, come tali, sbagliamo istantanea. Giusto?

Sono intorno a noi

Dopo aver esaminato le strane presenze che popolano il mio ufficio, è il momento di una carrellata generale sulle entità soprannaturali in cui è possibile imbattersi negli ambienti lavorativi, cercando di capire chi siano, cosa vogliano, perché sono tra noi.

La donna bionica – Qualsiasi donna normale il secondo giorno dopo aver fatto lo shampoo deve ricorrere alla coda, perché i capelli sono così unti che ne esce fuori olio d’oliva. La donna bionica, invece, ha sempre i capelli in perfetto ordine, anche a costo di usare ogni settimana l’equivalente di acqua contenuta nel lago Bajkal. Iperattiva ed energica come Ben Johnson, è sempre elegante e curata: probabile che si alzi alle 4 di mattina per passare in sala trucco anche se, cosa inspiegabile, il suo aspetto è sempre fresco e riposato. Va in palestra per tenersi in forma, non mangia nulla durante la pausa pranzo per mantenere la linea e non si capisce come si regga in piedi per 8 e più ore. Anfetamine?
Le più agguerrite possono trasformarsi in Supertope (si veda voce corrispondente).

Il Signore del Tempo – Lo si vede più in piedi intento a gironzolare che seduto al proprio posto. Ha una relazione extraconiugale con la macchinetta del caffè e relazioni diplomatiche con tutti i dipendenti, anche col parcheggiatore abusivo sotto gli uffici, perché per ingannare il tempo chiacchiera con tutti. I colleghi gli mormorano alle spalle, perché sembra che non lavori mai. In realtà è un genio, non si sa come faccia, ma ha il superpotere di condensare il lavoro di 8 ore in giusto un paio. Probabilmente è in grado di viaggiare nel tempo e sfruttare qualche paradosso temporale.

Cazzima Z* Il grande robot che lascerebbe gli alieni a sterminare l’umanità perché lui è in pausa pranzo, quello che alle 17:29 ha già raccolto la sua roba ed è pronto per uscire alle 17:30 e un secondo anche se c’è del lavoro da sbrigare, perché tanto “se la vedrà qualcun altro”. È sempre in prima linea nel fiondarsi sul buffet quando qualcuno offre qualcosa, ma poi è più facile che Zio Paperone regali denaro che vedere lui offrire un caffè.
* Per i lettori oltre la Linea Gotica: come spiegare la “cazzimma”? Ecco…non voglio dirvelo! Questa è cazzimma.

Il Dottor Divago – Dopo essere stato morso da un politico radioattivo in piena campagna elettorale, è diventato l’uomo capace di investire di chiacchiere inutili e fuorvianti chiunque entri nel suo raggio d’azione. Gli si chiede che fine avesse fatto una pratica e si finisce con lui che racconta dei talloni screpolati di sua cognata. Gli si chiede l’ora e lui comincia a parlare delle vacanze al mare. La regola principale è quella di non farsi mai trovare con le spalle al muro di fronte a lui, se lo si incrocia nei corridoi bisogna essere lesti o a entrare nella prima porta o a dire di essere di fretta prima che lui apra bocca. Massimo rischio quando ci si ritrova soli in ascensore.

Il brontolosauro – Avrà sempre qualcosa di cui lamentarsi. Si lamenta perché è lunedì mattina, si lamenta perché fa troppo caldo, si lamenta perché l’aria condizionata è gelida, si lamenta del cibo della mensa, si lamenta del lavoro, insomma è il re delle lamentele: il Regio Lagno. Il suo cattivo umore è contagioso come un raffreddore, col suo potere è capace di contaminare col malumore chiunque abbia intorno.

L’uomo invisibile – Quello che è internato in un angolo dell’ufficio e non si muove, non parla, non respira. Alcuni lo scambiano per un oggetto d’arredamento, viste le sue elevate capacità di mimetizzazione (o l’inconsistenza della sua presenza in azienda). Quando si palesa dando un segno di sé – uno starnuto, una parola detta per caso – le persone si spaventano prima di accorgersi di lui: “Chi ha parlato?! Chi c’è?!”.

Matrix – Come Neo faceva coi proiettili, lui è in grado di schivare con riflessi incredibili compiti e incombenze, riuscendo ogni volta a farla franca. Oltre che campione olimpico di schivata, è esperto nella delega non richiesta, abilità con la quale scarica lavori ingrati a qualche poveraccio(si veda Lo schiavo).

Houdini – Quello che all’improvviso scompare. Un giorno è in ferie, l’altro in malattia, l’altro in permesso per le nozze del criceto. È lo stratega delle sparizioni. Quando riappare, i colleghi si stupiscono ogni volta. Come avrà fatto? Dov’era finito? Un giorno sparirà sul serio senza lasciare traccia di sé. Un vero mago.

Il microcefalo – Non serve un grande cervello, ma un pennello grande! È il motto dell’uomo da ufficio i cui discorsi vertono sempre e solo su una cosa che inizia per f- e termina per -iga. Il lunedì è il giorno deputato ai racconti delle sue avventure del week-end, sempre con dovizia di particolari vitali per l’esito della narrazione, come il tipo di taglio (non dei capelli) e i dettagli anatomici ginecologici. Il suo potere è la benedizione: quando arriva una nuova presenza femminile in ufficio, lui afferma di doverla battezzare.

Galactus – Anche noto come il Divoratore di Mondi, è un individuo noto per la sua incommensurabile, insaziabile, infinita fame. Quando si spegne l’aria condizionata, quando si fermano le dita sulla tastiera, si può sentire il rumore delle sua mascelle all’opera. La sua postazione è riconoscibile dalle briciole lasciate un po’ ovunque come Pollicino e dalle impronte digitali fatte di unto sul pc. Nei cassetti della scrivania non ha documenti e faldoni, ma riserve di cibo, perché non si sa mai. Il suo nemico naturale è il collega scroccone che arriva all’improvviso e infila la mano nei suoi snack per attingere senza ritegno.

La supertopa – Parente stretta della donna bionica, con la quale condivide la cura per l’aspetto fisico e l’energia, è la donna che in ufficio quando cammina fa venire il mal di mare, a causa degli ancheggiamenti simili al dondolio di una nave sulle onde. I vertiginosi tacchi a squillo che causerebbero problemi alla schiena a qualunque donna normale ne slanciano oltre misura la figura, come se già non si notasse abbastanza. La supertopa soffre di costrizione epidermica ed è pertanto costretta a ricorrere ad ampi spacchi e scollature per far respirare la pelle. Il microcefalo vorrebbe farne la propria preda, ma è lei furba quanto basta per prenderlo in giro senza sganciargliela.

Lo schiavo – Il suo superpotere è la schiena di mulo, atta a sopportare carichi pesanti, la sua abilità speciale è la remissività con la quale piegarsi a 90° e senza pretrattare. È lo stagista, quello che che dovrebbe tornare a casa prima degli altri perché per legge non potrebbe rimanere senza un senior accanto, in realtà è quello che rimane a chiudere l’ufficio. A volte vi pernotta anche. È quello che “deve fare esperienza”, come gli ricorda il collega che è entrato in azienda a 20 anni con un contratto a tempo indeterminato e che quando ha visto un pc pensava che il supporto per il cd del lettore fossa un portabicchieri.

Per la stesura di questo articolo sono stati sacrificati venti stagisti. Il mulo della foto è interpretato da Nicolas Cage, attore noto per la sua faccia da…mulo.

Se ci sono altre categorie, l’ufficio brevetti etichette è sempre aperto 😀