Il buono, il brutto e il gattino*

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Mi interrogo, a volte, sul significato dell’essere una brava persona. Non è un qualcosa di facilmente definibile, in quanto per poter dare una definizione è necessario concordare dei parametri entro i quali la definizione sussista e sia verificata.

Quante volte sentiamo dire di qualcuno che è una brava persona? Quali sono le coordinate che lo definiscono come tale?

Potremmo prendere come riferimento i comandamenti biblici. Bisognerebbe prima mettersi d’accordo su quale versione adottare, se quella riformulata dalla Chiesa Cattolica o la versione più aderente al testo ebraico, che, tanto per fare un esempio, negli ammonimenti finali non si limita a un generico “non desiderare la roba d’altri” ma entra più nello specifico:
Non desiderare la casa del tuo prossimo; non desiderare sua moglie, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo.
(nota: nella versione cattolica il versetto è stato utilizzato per comporre il nono e il decimo comandamento)

Partiamo dalla premessa che se il divieto di non uccidere è esteso anche ad animali quali insetti e lucertole io allora nel corso della mia vita ho violato tutti i comandamenti così come stabiliti nella versione cattolica. Compreso quello di non rubare, in quanto a 8-9 anni in un supermercato GS ho impunemente sottratto una sorpresina (un orrendo portachiavi-zainetto di nylon verde e blu) da una confezione di merendine del Mulino Bianco. Oramai il reato sarà caduto in prescrizione quindi confesso pubblicamente.

La versione ebraica dei comandamenti mi offre invece degli scampoli di salvezza, in quanto non ho mai desiderato né il bue né l’asinello di qualcuno – neanche quelli del presepe – e ancor meno di avere qualcuno in schiavitù!

Una sola volta ho chiesto un bove e mi hanno opposto un rifiuto: mi han dato il cosiddetto bue di picche.**

Esistono temi che sono condivisi da più civiltà: l’omicidio e l’adulterio, per esempio, ricorrono in più testi.

Nel Dhammapada è scritto

Tutti temono il bastone, a tutti è cara la vita:
considerando sé stesso uguale agli altri,
non si uccida né si faccia uccidere

oppure

Acquisizione di demerito, un destino malvagio,
il breve godimento di un uomo spaventato
nelle braccia di una donna spaventata
e il re commini una grave punizione:
perciò l’uomo non si accompagni con la donna altrui

Ma i precetti non credo bastino a stabilire un canone di parametri consoni a definire una brava persona: se così fosse, tutti coloro che si astengono ad esempio dal furto e dall’omicidio entrerebbero automaticamente nel novero dei buoni. È chiaro che, oltre allo star lontani dai comportamenti socialmente e giuridicamente scorretti, occorra anche un’atteggiamento attivo da parte della persona. Io ad esempio, pur avendo un passato da Arsenio Lupin e un presente ancora attivo di atti impuri (ma non di adulteri, tengo a precisare!), tendo a considerarmi sostanzialmente una persona buona. Se non altro perché se non quotidianamente ma almeno con una certa regolarità una buona azione la porto a termine. E lascio il posto agli anziani sui mezzi pubblici (tranne in Giappone, dove mi è capitato che fossero gli anziani a cederlo a me!) e, se il marciapiede è stretto, scendo per lasciar passare anziani e donne. Osservo in generale le normali norme di cortesia civile.

Eppure, così come esercito un certo doverismo nei confronti della società, così mi perdo nella gestione delle relazioni più strette. Posso dire che sono una frana nei rapporti interpersonali e negli obblighi che esse comportano, sia nel relazionarsi con semplici conoscenti che con persone più vicine.

Volendo essere più concreti, io sono il tipo di persona cui basta poco per sentir scaldarsi il cuore. Andare a comprare il latte insieme, prendere un tè coi biscotti fianco a fianco, addormentarsi tenendosi la mano: potrei scrivere un trattatello apologetico del quotidiano di un rapporto, delle piccole cose che insaporiscono la vita come il coriandolo e il cumino nelle cucine di Masterchef, che io vorrei capire perché cazzo in ogni ricetta devono per forza entrarci coriandolo e cumino, perché il coriandolo non possono chiamarlo semplicemente prezzemolo, e, soprattutto, perché il giudizio dello chef deve sempre comprendere la parola “croccante”.
Scusate.
È il risultato di genitori che guardano Masterchef a tavola.

Eppure questi condimenti non sono sufficienti.
Perché poi, per carattere, sono anche freddo, aspro, duro. Come un limone dimenticato in frigo. Che tutti prima o poi hanno provato a spremerlo, senza risultati soddisfacenti.

Sono una persona diversamente affettiva.
O meglio, affettivo a corrente alternata.

Mi schermisco dicendo che sono un gatto e se ho scelto tale animale non è solo per simpatia verso il felino ma perché mi comporto in modo uguale. Difendo sempre la categoria dei gatti da accuse superficiali, come quella di essere animali opportunisti e anaffettivi. Però è anche vero che il gatto ha una psicologia tutta sua e se vuol starsene per cazzi suoi siatene pur certi che lo farà a prescindere da tutto. A prescindere da voi. E a me questo sembra naturale e comprensibile, anche troppo. Per molti no e non mi sento di dir che siano in errore.

Seppur conscio della sensazione di esser in difetto, reitero determinati atteggiamenti. È tipico di chi ha l’abitudine a star solo, per scelta e non per condizione. Nel solitario persiste una ritrosia all’abbandono delle barriere con le altre persone, che siano conoscenti, parenti, amici, partner.

In virtù di ciò, nei parametri che definiscono una brava persona inserirei la propensione all’altro, che contempli un margine di “cazzi propri” (per usare termini scientifici) che sia compatibile con le esigenze proprie e di quelle del prossimo. E a volte anche del remoto.

 * Il titolo pensavo fosse una mia idea. Poi per scrupolo l’ho cercato su internet e ho scoperto che esiste un libro intitolato in modo uguale.
** sono una persona orribile perché faccio battute simili.

Lei offende, effendi

Scusa.
La parola del pentimento.

Una delle parole più difficili da dire per le persone. Probabilmente, l’essere umano non è fatto per chiedere perdono per le proprie azioni. E neanche per accettare le scuse.

Nella mia vita ho chiesto scusa in svariate occasioni. Ho commesso molti errori e altri continuo a produrne ininterrottamente.
Non conosco crisi e cassa integrazione.
In virtù di ciò, ho smesso da tempo di considerarmi una brava persona. Lascio credere agli altri che io lo sia, mi serve per continuare a vivere. Sono un Dexter Morgan. Seguo anche io un codice e non commetto azioni esecrabili. Sono, però, meno maniacale e preciso, infatti dopo ogni “delitto” vengo sempre smascherato.

Nessuno, però, mi ha mai chiesto scusa.
E dire che, di cose che offendono la mia persona, ne ho viste.
Sto cercando di imparare a non darvi peso, a lasciar scorrere addosso, come il greto di un torrente fa con l’acqua, fermo e immobile come un bonzo (di Riace. ah ah ah).

È scritto nel Dhammapada:

Si abbandoni la rabbia, si lasci l’orgoglio,
si trascenda ogni legame.
Su colui che non si attacca a nome e forma
e che non possiede niente, non ricadono
le sofferenze.

Per nome e forma si intendono mente e corpo: il senso è quello di abbandonare qualunque attaccamento, sia materiale che psicologico, e raggiungere l’imperturbabilità di fronte alle esperienze sensibili; ἀταραξία e ἀπονία, se vogliamo parlare in senso epicureo.

Ecco, se ci riuscite veramente, vi prego di passare di qua a spiegarmi. Magari coi disegnini, sono lento di comprendonio.

E voi? Avete mai chiesto e/o ricevuto “scusa”?