Non è che il botanico sia uno al passo con la tecnologia perché si intende di Digitale

Da piccolo, quando sentivo che qualcuno si stava preparando per un concorso pensavo fosse impegnato anima e corpo nella raccolta dei bollini del Mulino Bianco o della Parmalat.

Poi crescendo ho capito che si trattasse di altro. Ho capito anche che fosse più facile vincere l’estrazione della Porsche della Melegatti che un posto messo a concorso pubblico.

Siccome a tutti capita, prima o poi nella vita, di prendere parte a un concorso, ne sto preparando uno anche io. Non si sa mai, metti che.

Tra le cose più insidiose nella preparazione c’è il riuscire ad allenare la lucidità mentale nel rispondere ai quiz. Ci sono delle volte in cui si gira e rigira intorno a un quesito che appare – errando – complesso, non riuscendo a vedere una risposta che è invece è immediata, chiara, lampante.

Questa storia mi fa venire in mente un episodio, accaduto a un mio amico. Un mio cugino. Al cugino del mio amico, che è anche un mio cugino.

Lui stava uscendo con questa ragazza. Si era agli inizi, ci si stava conoscendo. Quella sera si era creata l’atmosfera per conoscersi un po’ di più, nel senso biblico del termine.

Iniziò quindi una fase di approcci e sondaggi digitali. Dopo un po’, sempre il mio amico (o suo cugino) le chiese se le andasse di. Lei fece cenno di sì. Lui tirò su la mano e, mentre gliela passava intorno al viso, definendo con l’indice prima la appena accennata prominenza del suo zigomo destro e, poi, le vette del labbro superiore fin nella vallata dell’arco di Cupido sdraiata sotto il naso, si sistemava col corpo un po’ meglio (la comodità delle utilitarie!).

Lei in quel momento ebbe un sussulto e disse no. Poi si scostò e, risistemandosi, anche un po’ infastidita, chiese di tornare a casa. Il cugino (o il suo amico) rimase un attimo perplesso. Lei si scusò. Lui le disse che non aveva nulla di cui scusarsi. La riaccompagnò.

Prima di andare, lei si scusò ancora ma lui fermamente ribadì che non c’era nulla di cui scusarsi e che inoltre non era uscito con lei giusto solo per approfondire la conoscenza della Bibbia. Si congedarono sereni.

Sulla via solitaria del ritorno, però, il cugino di mio cugino si interrogava su cosa fosse successo. Beninteso, ci sta tutto che si possa cambiare idea o non ci si senta convinti di andar fino in fondo. La sua preoccupazione, essendo una persona molto autogiudicante, era però che avesse fatto qualcosa di sbagliato o qualche gesto inopportuno tal da impressionarla.

Mentre rifletteva e guidava, con la mano destra sulle 12 del volante, si passò la sinistra sul viso, corrucciato.

E proprio dalle dita di quella mano salì un afrore non particolarmente gradevole. Lì realizzò, facendo un rewind-stop del filmato di tutto l’accaduto, che la ragazza si era resa conto, nel momento in cui lui le aveva passato sotto il naso proprio quella mano, esploratrice digitale, di non sentirsi particolarmente a posto nella propria intimità e di aver dovuto quindi, per imbarazzo, fermarsi.

Ci sta, succede. Siamo esseri umani e capita, molte volte neanche per negligenza nostra, che non spargiamo sempre aroma di mughetto. O di mugatto, nel caso dei felini.

Questo aneddoto aiuta a comprendere che, molto spesso, la soluzione più semplice e immediata è proprio a portata di dita, sotto il nostro naso!


Visto che era citata nel titolo e, per alzare il livello del post, lascio qui la Digitale Purpurea del Pascoli

Il buono, il brutto e il gattino*

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Mi interrogo, a volte, sul significato dell’essere una brava persona. Non è un qualcosa di facilmente definibile, in quanto per poter dare una definizione è necessario concordare dei parametri entro i quali la definizione sussista e sia verificata.

Quante volte sentiamo dire di qualcuno che è una brava persona? Quali sono le coordinate che lo definiscono come tale?

Potremmo prendere come riferimento i comandamenti biblici. Bisognerebbe prima mettersi d’accordo su quale versione adottare, se quella riformulata dalla Chiesa Cattolica o la versione più aderente al testo ebraico, che, tanto per fare un esempio, negli ammonimenti finali non si limita a un generico “non desiderare la roba d’altri” ma entra più nello specifico:
Non desiderare la casa del tuo prossimo; non desiderare sua moglie, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo.
(nota: nella versione cattolica il versetto è stato utilizzato per comporre il nono e il decimo comandamento)

Partiamo dalla premessa che se il divieto di non uccidere è esteso anche ad animali quali insetti e lucertole io allora nel corso della mia vita ho violato tutti i comandamenti così come stabiliti nella versione cattolica. Compreso quello di non rubare, in quanto a 8-9 anni in un supermercato GS ho impunemente sottratto una sorpresina (un orrendo portachiavi-zainetto di nylon verde e blu) da una confezione di merendine del Mulino Bianco. Oramai il reato sarà caduto in prescrizione quindi confesso pubblicamente.

La versione ebraica dei comandamenti mi offre invece degli scampoli di salvezza, in quanto non ho mai desiderato né il bue né l’asinello di qualcuno – neanche quelli del presepe – e ancor meno di avere qualcuno in schiavitù!

Una sola volta ho chiesto un bove e mi hanno opposto un rifiuto: mi han dato il cosiddetto bue di picche.**

Esistono temi che sono condivisi da più civiltà: l’omicidio e l’adulterio, per esempio, ricorrono in più testi.

Nel Dhammapada è scritto

Tutti temono il bastone, a tutti è cara la vita:
considerando sé stesso uguale agli altri,
non si uccida né si faccia uccidere

oppure

Acquisizione di demerito, un destino malvagio,
il breve godimento di un uomo spaventato
nelle braccia di una donna spaventata
e il re commini una grave punizione:
perciò l’uomo non si accompagni con la donna altrui

Ma i precetti non credo bastino a stabilire un canone di parametri consoni a definire una brava persona: se così fosse, tutti coloro che si astengono ad esempio dal furto e dall’omicidio entrerebbero automaticamente nel novero dei buoni. È chiaro che, oltre allo star lontani dai comportamenti socialmente e giuridicamente scorretti, occorra anche un’atteggiamento attivo da parte della persona. Io ad esempio, pur avendo un passato da Arsenio Lupin e un presente ancora attivo di atti impuri (ma non di adulteri, tengo a precisare!), tendo a considerarmi sostanzialmente una persona buona. Se non altro perché se non quotidianamente ma almeno con una certa regolarità una buona azione la porto a termine. E lascio il posto agli anziani sui mezzi pubblici (tranne in Giappone, dove mi è capitato che fossero gli anziani a cederlo a me!) e, se il marciapiede è stretto, scendo per lasciar passare anziani e donne. Osservo in generale le normali norme di cortesia civile.

Eppure, così come esercito un certo doverismo nei confronti della società, così mi perdo nella gestione delle relazioni più strette. Posso dire che sono una frana nei rapporti interpersonali e negli obblighi che esse comportano, sia nel relazionarsi con semplici conoscenti che con persone più vicine.

Volendo essere più concreti, io sono il tipo di persona cui basta poco per sentir scaldarsi il cuore. Andare a comprare il latte insieme, prendere un tè coi biscotti fianco a fianco, addormentarsi tenendosi la mano: potrei scrivere un trattatello apologetico del quotidiano di un rapporto, delle piccole cose che insaporiscono la vita come il coriandolo e il cumino nelle cucine di Masterchef, che io vorrei capire perché cazzo in ogni ricetta devono per forza entrarci coriandolo e cumino, perché il coriandolo non possono chiamarlo semplicemente prezzemolo, e, soprattutto, perché il giudizio dello chef deve sempre comprendere la parola “croccante”.
Scusate.
È il risultato di genitori che guardano Masterchef a tavola.

Eppure questi condimenti non sono sufficienti.
Perché poi, per carattere, sono anche freddo, aspro, duro. Come un limone dimenticato in frigo. Che tutti prima o poi hanno provato a spremerlo, senza risultati soddisfacenti.

Sono una persona diversamente affettiva.
O meglio, affettivo a corrente alternata.

Mi schermisco dicendo che sono un gatto e se ho scelto tale animale non è solo per simpatia verso il felino ma perché mi comporto in modo uguale. Difendo sempre la categoria dei gatti da accuse superficiali, come quella di essere animali opportunisti e anaffettivi. Però è anche vero che il gatto ha una psicologia tutta sua e se vuol starsene per cazzi suoi siatene pur certi che lo farà a prescindere da tutto. A prescindere da voi. E a me questo sembra naturale e comprensibile, anche troppo. Per molti no e non mi sento di dir che siano in errore.

Seppur conscio della sensazione di esser in difetto, reitero determinati atteggiamenti. È tipico di chi ha l’abitudine a star solo, per scelta e non per condizione. Nel solitario persiste una ritrosia all’abbandono delle barriere con le altre persone, che siano conoscenti, parenti, amici, partner.

In virtù di ciò, nei parametri che definiscono una brava persona inserirei la propensione all’altro, che contempli un margine di “cazzi propri” (per usare termini scientifici) che sia compatibile con le esigenze proprie e di quelle del prossimo. E a volte anche del remoto.

 * Il titolo pensavo fosse una mia idea. Poi per scrupolo l’ho cercato su internet e ho scoperto che esiste un libro intitolato in modo uguale.
** sono una persona orribile perché faccio battute simili.