Chi mi conosce (chi, mi conosce?) non mi descriverebbe come un tipo allegro.
Non nego da parte mia una certa tendenza alla malinconia e al flusso di soliloqui esistenzialisti che all’esterno conferiscono un che di accigliato e incupito.
In realtà vivo la gioia e l’allegria come un qualunque altro essere umano, solo in maniera più misurata.
3 ml. Questa è la misura.
Che è all’incirca il volume dell’eiaculato medio di un maschio adulto. Per dire che delle volte bisogna contentarsi di gioie del cazzo.
Soliloquio. Che bella parola.
Ha un che di liquido fermo e lento, come fosse un distillato.
Assaggi questo soliloquio, è una primavera tardiva, inizio giugno del ’98: mio zio se ne era andato e io cercavo di comprendere come comportarsi con la morte. E come bisogna comportarsi con gli adulti che fingono normalità durante la morte.
Sei un ragazzino, questo si sa.
Ma sapevo anche che loro fingevano e sapevo che loro sapevano che io sapevo e sapevo che sapevano che io sapevo che loro sapevano che io sapevo. Non capivo, allora. Riflettevo tra me e me che l’unica cosa che provavo in quel momento era rancore e disagio per quel “benignarmi” d’una ipocrisia parentale di cui non necessitavo e che mi faceva provar anche vergogna.
Vorrei dire, c’era chi non aveva più un padre: non avrei dovuto esser io quello da circondare d’un’aura di tranquillità.
Eppure era sempre così, in ogni occasione.
Ero una sorta di Robin mentre tutta la famiglia era Batman: simpatico e di buoni valori, ma con le spalle mai abbastanza robuste rispetto agli altri e se vogliamo anche un po’ sfigato.
Forse è a quel distillato di cupezza mai stappato che risale il peccato originale di una mancanza di dialogo tra me e la mia famiglia, che può oggi vantare una cantina degna della miglior enoteca.