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Non è che gli attori vogliano esibirsi sui palchi dei cervi

Posted by Gintoki

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David Foster Wallace è forse tra gli scrittori più divisivi che mi vengono in mente. C’è chi lo venera come intellettuale assoluto, chi lo odia, non ne sopporta i libri, lo stile, il fan club.

Sabato a teatro ho assistito a una rappresentazione di alcuni racconti tratti da Brevi interviste con uomini schifosi, libro di DFW in cui un’umanità orribile, gretta, prevaricatrice, mostra tutto il proprio campionario di meschinità e violenza.

I due attori in scena Lino Musella e Paolo Mazzarelli si alternavano nelle varie scene: di volta in volta uno impersonava l’uomo che parlava e l’altro la donna che ascoltava in silenzio o con qualche obiezione.


Per chi non conosce il libro: i racconti sono invece sotto forma di monologhi, in cui si intuisce l’esistenza in realtà di un dialogo ma non c’è mai la voce dell’altro interlocutore.


Dello spettacolo in sé sono rimasto un po’ deluso. I due sul palco hanno portato via via sempre più l’interpretazione verso una rappresentazione comica,  arrivando ad ammiccare al pubblico per sottolineare una battuta e strappare una risata.

Il problema è che le storie in quel libro non sono saggi di comicità. Sono storie terribili, tutte: dal racconto di uno stupro con una bottiglia di Jack Daniel’s al focomelico che sfrutta il proprio braccio deforme per portarsi a letto le donne, sono allo stesso livello rappresentazioni grottesche e tragiche di un’umanità perversa fatta di maschilismo psicopatico. Lo stile di DFW, in questo e in tutte le altre sue opere, aveva certo una sua ironia – mettiamo da parte poi il discorso che ironia e comicità sono cose diverse – ma un’ironia che non puntava a strappare una risata, non ti faceva sbellicare e soprattutto, non proveniva da uno che si sentiva superiore alla realtà che descriveva ma se ne percepiva immerso.

Lo stesso DFW metteva in guarda dai pericoli dell’ironia, della sua istituzionalizzazione come fiera del cinismo che desensibilizza sempre più lo spettatore – lui si riferiva alla influenza della tv – e lo portava a distaccarsi della realtà.

Sia chiaro: non è che non si possa ridere di certe cose o che ci siano temi intoccabili. Basta guardare un Ricky Gervais, un Bill Hicks, un George Carlin per rendersene conto. Gervais è ad esempio uno dei più geniali, a mio avviso, di questa epoca. È un grandissimo paraculo, è vero: è in grado di dire cose che potrebbe suonare offensive ma aggira l’offesa non prendendo in giro la persona, ma la sua rappresentazione, lo stereotipo o la situazione in cui si verifica. Inoltre, la battuta è frutto di una costruzione complessa, in cui essa rappresenta solo la conclusione dell’intera impalcatura su cui si fonda il pezzo satirico.

La battuta in cui risponde su Twitter a una donna indignata perché lui scherzava sull’allergia alle noccioline dicendole «Guarda non ho dubbi tra tua figlia allergica e Adolf Hitler chi potrebbe rovinare una cena» è solo l’epilogo di un pezzo incentrato:

– Sui furiosi indignati da tastiera
– Sull’egocentricità di chi crede che la propria opinione debba essere sempre e comunque rilevante.

Ciò non toglie che a seconda della sensibilità di chi ascolta la battuta può suonare offensiva o meno; e questa cosa chi fa il comico sul serio lo sa e si assume la responsabilità di spostare sempre il confine giocando su quel che può dire. E se è vero che facendo satira può accadere di dire cose offensive per qualcuno, non è invece vero che basta dire tutto quel che passa per la testa e offendere gratis per poter dire di fare satira o giustificarsi in nome appunto della libertà di satira.


L’esempio più banale sul fatto che per quanto si cerchi di evitare si può sempre finire con l’offendere qualcuno è la barzelletta dell’uomo che entra in un caffè e fa splash!. È la battuta più scema e innocua del mondo, eppure, se giusto ieri mio padre fosse annegato in una piscina di espresso, non la troverei divertente e potrei offendermi ritenendo che quella battuta sia fatta contro di me.


Oggi con la satira sta avvenendo quel che DFW negli anni ’90 diceva a proposito dell’ironia: è diventata in certi contesti una rappresentazione autoreferenziale, che anestetizza rispetto alla complessità della realtà, trincerata dietro un Ma allora non si può dir niente?.

Ecco perché quando in Italia vedo comici che vogliono far ridere semplicemente con la loro autoreferenziale irriverenza, in nome di una ribellione che si traduce in semplice libertà di offendere e di suscitare riso facendo ciò come un dispettoso ragazzino delle medie, penso che si sia finiti del tutto fuori contesto.

Tutto questo pippone non richiesto che ho scritto non riguarda lo spettacolo che ho visto: non c’era niente di volutamente offensivo in ciò che hanno fatto gli attori o il regista. Semplicemente penso che abbiano del tutto decontestualizzato la narrazione. Perché si può benissimo interpretare in chiave più divertente – anche se non era quello l’intento dello scrittore – ad esempio il personaggio di un seduttore manipolatore psicologico (figura che si presenta in un paio di racconti). Ma se viene portato in scena con un macchiettismo esasperato, dandogli anche un calcato accento da borghese di Milano frequentatore seriale di aperisushi per far ridere come se fosse uno sketch di Enrico Brignano (che tra l’altro fatto da lui fa veramente ridere) in quel momento si sta completamente sfilacciando l’impianto del testo. Un testo il cui messaggio di fondo resta uguale ma dal quale stai allontanando lo spettatore, che non ha letto DFW, e che dirigerà la sua attenzione verso l’attesa della prossima battuta cui sbellicarsi a un tuo ammiccamento.

‘Mazza che pesante mi ritrovo a essere.

 

Inviato su Io e...i libri

Tag battuta, Bill Hicks, brevi interviste con uomini schifosi, comico, David Foster Wallace, dialogo, distacco dalla realtà, George Carlin, indignati da tastiera, ironia, Libri, maschilismo, psicopatico, rappresentazione comica, rappresentazione teatrale, Ricky Gervais, satira, spettacolo, teatro, tv, umanità perversa

Feb·08

Non è che l’esistenzialista per farsi un vestito si rivolga al Sartre

Posted by Gintoki

24

Chi mi conosce (chi, mi conosce?) non mi descriverebbe come un tipo allegro.

Non nego da parte mia una certa tendenza alla malinconia e al flusso di soliloqui esistenzialisti che all’esterno conferiscono un che di accigliato e incupito.

In realtà vivo la gioia e l’allegria come un qualunque altro essere umano, solo in maniera più misurata.

3 ml. Questa è la misura.
Che è all’incirca il volume dell’eiaculato medio di un maschio adulto. Per dire che delle volte bisogna contentarsi di gioie del cazzo.

Soliloquio. Che bella parola.

Ha un che di liquido fermo e lento, come fosse un distillato.

Assaggi questo soliloquio, è una primavera tardiva, inizio giugno del ’98: mio zio se ne era andato e io cercavo di comprendere come comportarsi con la morte. E come bisogna comportarsi con gli adulti che fingono normalità durante la morte.

Sei un ragazzino, questo si sa.

Ma sapevo anche che loro fingevano e sapevo che loro sapevano che io sapevo e sapevo che sapevano che io sapevo che loro sapevano che io sapevo. Non capivo, allora. Riflettevo tra me e me che l’unica cosa che provavo in quel momento era rancore e disagio per quel “benignarmi” d’una ipocrisia parentale di cui non necessitavo e che mi faceva provar anche vergogna.

Vorrei dire, c’era chi non aveva più un padre: non avrei dovuto esser io quello da circondare d’un’aura di tranquillità.

Eppure era sempre così, in ogni occasione.
Ero una sorta di Robin mentre tutta la famiglia era Batman: simpatico e di buoni valori, ma con le spalle mai abbastanza robuste rispetto agli altri e se vogliamo anche un po’ sfigato.

Forse è a quel distillato di cupezza mai stappato che risale il peccato originale di una mancanza di dialogo tra me e la mia famiglia, che può oggi vantare una cantina degna della miglior enoteca.

Inviato su Io e...la mia vita

Tag adulti, allegria, dialogo, essere umano, famiglia, gioia, gioie, malinconia, maschio adulto, morte, normalità, soliloquio

Giu·06

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Gintoki

Il godimento di me stesso viene turbato dall'idea che io ho di dover servire ad un altro, di aver degli obblighi verso quest'altro, di esser chiamato a sacrificarmi a lui, a dimostrargli abnegazione o entusiamo. Ebbene, se io non sono più servo di nessuna idea, di nessun ente supremo, è ovvio che io non sarò più servo di alcun uomo, ma tutt'al più di me stesso. in tal modo però io sono, non soltanto nel fatto, ma anche nella mia coscienza, l'unico.

[Max Stirner - L'Unico]

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