Non è che se un pachiderma ti offre delle Coca Cola tu gli dica E le Fante?

Ciò che rende eccezionali a livello tecnico serie tv come Breaking Bad e il suo spin-off Better Call Saul è la cura per i suoni. Vengono aggiunti in post-produzione facendo sì che siano isolati, netti, nitidi ed enfatizzati. Una zip che si chiude, il fruscio di banconote che vengono contate, il clic di una serratura. Si odono distintamente, donando tridimensionalità all’inquadratura.

L’amplificazione dei dettagli tramite il suono aumenta anche un senso generale di inquietudine nello spettatore. Si ha la percezione che stia sempre per accadere qualcosa.


Va detto che le due serie da questo punto di vista sono differenti: sintetizzando – molto banalmente – il mondo di Walter White è fatto di segreti e morte, quello di Jimmy McGill/Saul Goodman di propositi e speranze e si presenta come più leggero.


La vita di un ipersensibile funziona allo stesso modo. Cose intorno che suonano più intense ed enfatizzate.

A volte non mi sono dimostrato la persona più capace nell’attutire e ovattare i suoni per non creare inquietudine nell’altro. Riesco, mio malgrado, ad avere l’eleganza di un elefante in una cristalleria. Un elefante sui pattini in una cristalleria. Ubriaco.

E poi finisce che qualcuno resta ferito.

In altri frangenti mi sono trovato a essere io quello che ha vissuto sulla propria pelle in maniera enfatizzata una situazione. In quel caso è come se l’elefante ubriaco sui pattini di cui sopra mi cadesse addosso e mi bloccasse il respiro. Avverto un peso giusto in centro al torace, all’altezza del diaframma.

Va bene, non è un’immagine realistica perché un elefante addosso non si limiterebbe a premere in fondo allo sterno ma mi schiaccerebbe. Facciamo finta sia un elefante minuscolo, grosso quanto un topolino. Però dal peso di un elefante normale.


Questo esempio mi fa venire in mente un cartone animato della Warner Bros, di quelli che trasmettevano su RaiTre negli anni ’90 all’interno di Blob, su un elefante minuscolo che si aggira in città:

 


In questi giorni in cui si parla della giusta distanza fisica da tenere io ripenso alla distanza emotiva che alcuni sono costretti a osservare con le persone.

Non voglio parlare di dilemmi e di porcospini: un porcospino almeno può entrare in una cristalleria.

Non è che il musicista sia contento se suo figlio a scuola sia pieno di note

Avevo deciso di vendere la chitarra. Ce l’ho da 14 anni ma non ho mai imparato seriamente a suonarla, con costanza e regolarità. È come nuova in effetti.

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Dopo alcuni tentennamenti (“e se poi mi venisse di nuovo voglia di suonarla?”), l’ho messa in vendita su un sito specializzato. Poi però non ce l’ho fatta. L’ho tenuta. Ho ripreso a provare a suonare qualche giorno fa. Mi fanno male le dita e ho un polpastrello sbertucciato che sanguina.

Una cosa che sento mi manca al momento è la magia che infonde il musicista. Il suono, in breve, non è una semplice sequenza di note. Posso riprodurre tale sequenza ma non è detto che all’orecchio suoni come la suonerebbe – bene – un altro. E non è questione di ritmo o di effetti: è questione di metterci qualcosa in più per colorare quelle note. Altrimenti, saranno soltanto suoni in fila.

Nella vita stessa compiamo atti mettendo in sequenza un insieme di gesti. I risultati, però, non sono gli stessi per tutti né a volte li troviamo soddisfacenti.

A volte provo invidia per quelli che riescono a mettere sempre del colore in ciò che fanno.

Non che io sia abulico e grigio e amorfo. Anzi, credo a volte al contrario di essermi trovato in difficoltà pur essendomi spremuto molto il tubetto.


Non è un doppio senso, anche se spremersi troppo il tubetto fa diventare ciechi, don’t try this at home.


Indovinare la melodia (melodia? Selotenga) giusta nella vita non è semplice. Alla fine non è che uno abbia velleità da rockstar che riempie gli stadi: basta anche solo nel proprio piccolo riuscire ad avere le sonorità giuste.

Altrimenti si resta col tubetto moscio in mano.