Le trasferte di lavoro sono sempre un momento interessante.
In genere ti trovi sempre a venir preso in ostaggio, dentro e fuori l’orario lavorativo, in nome di uno spirito di fratellanza aziendale.
Quantomeno sul dormire, cercano di trattarti bene mandandoti in un buon hotel. E qualcuno, di un altro dipartimento, ironizza anche: «Ah ecco che fine fanno i soldi della Spurghi&Clisteri, e bravi!» con quel classico tono di sarcasmo che sa un po’ di Sto scherzando ma un po’ lo dico sul serio.
Poi tu pensi che quando hai chiesto informazioni a chi è lì da più di tempo di te riguardo l’ultimo adeguamento salariale hanno risposto che siamo ormai quasi al decennale dell’evento, compatisci il sarcastico perché, poverino, lui non sa niente.
E dire basterebbe pure dare uno sguardo alla mensa per capire che certi investimenti sono bloccati.
Dove lavoro io, a Napoli, non c’è una mensa. A Genova, credo potrebbe anche non esserci e cambierebbe poco. Il giorno che ero lì ho chiesto quel che mi sembrava meno peggio, uno spezzatino di carne con verdure.
Le verdure consistevano in: qualche fetta di carota bollita, due fette di zucchine (fritte), un paio di fagiolini, qualche cecio, due fagioli rossi (crudi), piselli sparsi, qualche fetta di patata, un paio di pomodori, qualcos’altro non identificato, tutto mischiato nel brodo della carne.
Praticamente era il cestone dell’Autogrill con i cd musicali avanzati perché invenduti.
Ho portato un sacco di avanzi con me. Avanzi di racconti della mia collega, con cui ho viaggiato. Ha sempre racconti di lavoro, di pettegolezzi di lavoro, di inciuci di lavoro. Del resto, è da 10 anni che lavora lì. Ci sono 10 anni di avvenimenti che le avanzano nel frigo.
Sono un utile riempitivo del tempo, per evitare silenzi, mi rendo conto.
Delle volte, però, gradirei proprio il silenzio: che Tizio dell’Ufficio Alfa fu trasferito nella città Beta al posto di Sempronio che ha preso il posto nell’ufficio Gamma eccetera nell’anno domini 2017 può importarmene relativamente, soprattutto se non ho idea di chi siano Tizio e Sempronio.
Forse accumulerò anche io aneddoti o forse no. Tendenzialmente ho un difetto di base che mi rende inadatto a essere animale sociale lavorativo, inserito nei meccanismi che creano socialità: non me ne frega niente. Parliamo di cibo, di attualità, di quali sono i nostri gusti in materia di scampagnate, dei cormorani orfani, qualsiasi cosa, ma non del pettegolezzo da ufficio, ve ne prego.
Incontrare altre persone una volta giunti su a Genova è stato proprio invece un ripetersi di queste dinamiche. Un giorno e mezzo sempre ascoltando fatti e cose di altre persone, passate e presenti, della Spurghi&Clisteri.
A cena, ritrovandomi in un lato del tavolo con persone che avevo identificato come meno sociali, ho gettato la carta del parliamo di fatti nostri per variare un po’ sul tema pettegolezzi&cose di lavoro.
E se poi diventerò, per questo, argomento di pettegolezzo, per lo meno stavolta potrò dire: «Gintoki? Ah, sì, lo conosco!».
Il collega migliore si vede nel momento della pausa (a dir la verità è “il capo”, ma va bene anche così).
Dopo venti anni di trasferte ho un bagaglio di aneddoti tale che tutt’ora campo di avanzi, mi sono accorto forse in tempo che è un riempitivo senza troppa sostanza, oltre a farti sembrare molto più vecchio di quello che si è.
Ho smesso di accumularne e ora parlo d’altro, se serve, altrimenti cinque minuti di assertività non hanno mai fatto male a nessuno.
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È anche ero che spesso ci si trova di fronte persone con le quali poco si ha di cui parlare o con le quali non si vorrebbe condivider nulla; l’aneddoto è il riempitivo ideale, è lo spritz che accontenta tutti anche se a te l’aperol fa abbastanza pena e lo preferiresti col campari, diciam così.
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Non posso essere d’accordo. Sono proprio questi i casi in cui cerco di spegnere la conversazione, perlomeno se io non ho nulla da dire ed il mio interlocutore pezze e peggio: annoiarsi ed annoiare è un pessimo modo per iniziare la frequentazione forzata tra colleghi, perché in fin dei conti anche loro sono lì per motivi diversi dal socializzare.
Preferisco mantenere un profilo di educato mutismo.
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No ma io figurati, essendo tra l’altro più giovane – di anzianità di servizio – rispetto ai colleghi, ho poco da raccontare e per giunta tendo anche a farmi abbastanza i casi miei. Capisco però che per molti sia un’esigenza e che il silenzio lo vivano proprio male.
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Puoi sempre raccontare delle esperienze passate, il che potenzialmente ti dà la possibilità di infarcire la conversazione di fregnacce, alla bisogna. Potresti aver vinto un combattimento clandestino tra linci nella periferia di Budapest, o partecipato ad una manifestazione per la minoranza nudista a Shibuya vestito solo di filo interdentale, chi diamine vuoi che vada a controllare dopo la terza birra?
Ci sono volte che lo faccio, lo ammetto. Ma a posteriori mi difendo: era puro esercizio narrativo.
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Quella del filo interdentale me la rubo.
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