Non è che il sovrano temuto dagli studenti sia il Re gistro

Ogni esponente di una generazione pensa che quelli della successiva vivano in condizioni migliori. Certo, se come i nonni si è vissuti la guerra, hai una carta bella pesante da giocarti. “Eh, la guerra” e tutti zitti.

Certo, viviamo nel più lungo periodo di pace che la storia ricordi. Certo, oggi non moriamo di tisi e non ci curiamo con i salassi e le sanguisughe. Certo, oggi posso aprire Youtube e guardare un tizio che spiega come diventare miliardario.


Così generoso da condividerlo con noi. Io invece mi ritirerei a vita privata lontano da tutto, forse è per questo che non sono miliardario: non me lo merito.


Il problema è che tutte queste cose sono esterne all’individuo. Di interiorità e salute mentale di una generazione non se ne parla quasi mai.

Io, ad esempio, non so se vorrei avere 20 anni di meno ed essere un adolescente di oggi. Due anni tra DAD, non DAD e Sugar DAD credo avrebbero compromesso il mio equilibrio mentale. E credo stiano mettendo a dura prova quello dei ragazzi di oggi.

Anche senza pandemia non credo che le cose sarebbero migliori. Chat di genitori e registro elettronico sono due cose che sono contento di non aver mai vissuto. In particolar modo il registro elettronico è ai miei occhi uno strumento del male. È assolutamente giusto che si possa essere informati e ci sia un controllo e sulle attività svolte e sul rendimento, eliminando (credo) assenze ingiustificate e cattivo studio, ma a mio avviso toglie anche responsabilità e senso dell’organizzazione allo studente. Ne ho presi di 4 a scuola e a casa non lo dicevo mai: non è un vanto, però mi adoperavo per recuperare (e lo facevo), in autonomia e senza pressione, riorganizzando il mio lavoro di studio.

Mi immagino invece nel mondo di oggi: in tempo reale il mio 4 che viene notificato tramite app a mia madre, che mi aspetta a casa per rimproverarmi, per poi riferire il tutto a mio padre quando ritorna a casa, che mi rimprovererà ed entrambi mi metteranno sotto sorveglianza affinché io studi per recuperare, dandomi loro una scadenza entro la quale farmi interrogare, trasformando lo studio in un momento performativo e nient’altro, con conseguenti aumenti di stress.

Qualcuno troverà che sia giusto così, non discuto. Credo che però controllo e sorveglianza costanti non preparino alla vita ma semplicemente a essere entità robotiche.

Non è che il medico ti consigli di dire sempre ciao perché è salutare

Mi sveglio. Accedo a YouTube. Metto qualcosa di vario. A un certo punto parte una canzone di un vecchio gruppo ska/punk. Faccio su e giù con la testa. Mi si incricca un nervo 15 centimetri sotto la nuca. Ora sto piegato come Andreotti.

Bisogna capire che certe cose non ce le si può più permettere.

Far tardi la sera è una di queste. Arrivata mezzanotte, comincio a desiderare solo il letto. E inizio a odiare tutti quelli che ho intorno, che si frappongono tra me e il riposo.

Beninteso, dipende anche dal tipo di attività che si sta svolgendo in quella serata. Ma se, ad esempio, mi sono già concesso un paio d’ore di socialità, compagnia e chiacchiericcio, ritengo esaurita la mia funzione sociale e consumate le mie batterie.

Il periodo delle festività è molto logorante da questo punto di vista. Capita di uscire molto e vedere molta gente.

Una delle cose che mi mette in difficoltà sempre è come salutare, nel congedarsi, persone nuove che hai conosciuto in quell’occasione.

Se sono uomini, una stretta di mano va bene. Ma le donne? Una stretta di mano fa un po’ strano anche se non ne ho mai capito il motivo: chi ha deciso che stringere la mano non è adatto a salutare una donna?
Salutarsi col bacio sulle guance mi sembra però eccessivo tra persone appena incontrate, soprattutto se non ci si è mai scambiati una parola nel corso della serata.

Per risolvere il problema allora mi congedo da tutti quanti, vecchi amici e nuovi conoscenti, con un “ciao” accompagnato da un gesto ecumenico della mano, come il Papa che saluta i fedeli.

 E poi passo il tempo a chiedermi se sarò sembrato strano.

Ma mi sono anche reso conto che non me lo posso più permettere. Non di essere strano, ma di pensare di essermi comportato in tal modo.

Non è che a corto di idee chiami l’Enel per avere l’illuminazione

Will Smith ha compiuto 50 anni. Di per sé non dovrebbe essere una cosa che fa notizia: come dice il noto adagio giornalistico, non fa notizia un cane che morde un cinquantenne ma un vegano che morde un cane cinquantenne.

Per quelli della mia generazione è come se Will Smith ci fosse sempre stato e fosse sempre stato un eterno ragazzone.

Invece gli anni passano. Come li ho trascorsi io durante i 50 anni di Will Smith? Ho mai fatto qualcosa degno di nota? Non ho mai neanche dato un morso a un cane per finire sui giornali.

A volte non ci rendiamo nemmeno conto delle occasioni che ci sfuggono. Ad esempio qualche mese fa ho avuto un’epifania riguardo un episodio avvenuto 5 anni prima. Avete presente quelle ovvietà che non avevate mai colto e che vi si rivelano mentre passate il filo interdentale segandovi le gengive, del tipo “Ah ma ne Il tempo di morire Battisti dice Motocicletta, 10 hp e non Motocicletta, riesci a capi’?? Non me ne ero mai reso conto!”.

Il mio episodio mi vede in un locale di cui conoscevo di vista la barista – di buon carattere e molto bella – e che salutavo sempre anche se non ne ricordavo il nome per quella solita situazione che nel momento in cui ti presenti a qualcuno per la prima volta ne dimentichi il nome un attimo dopo e passi il resto della vita con la vergogna di chiedere Scusa ma tu come ti chiami?.

La ragazza era nota per la torta all’hashi…all’Hashirama (una antica ricetta giapponese) che preparava con le sue manine e che verso l’una-le due prima di chiudere faceva girare per il locale offrendola ai presenti rimasti. Per stordirli e mandarli via più facilmente, probabilmente.

Una sera vado al bancone, le chiedo un cicchetto. Lei me lo serve e poi mi fa, socchiudendo gli occhi e sorridendo

– Bevi da solo?
– No lo porto fuori al tavolo
– Ah…perché sennò me lo facevo con te.

E sorride di nuovo e mi guarda negli occhi. Io rispondo:

– Ah. Quant’è?

Pago e vado via.

Orbene, qualche mese fa in una sera d’inizio estate mentre mi sturavo un orecchio col mignolo dopo una nuotata ho avuto un’illuminazione: “Ma non è che quella volta del 2013 quella tizia ci stava a prova’?!?”. E mi sono dato uno schiaffo in faccia. Per finire di sturarmi l’orecchio.

Quella sera stessa l’ho cercata su facebook. Non ne ricordavo il nome ovviamente ma rammentavo quello della sorella con cui avevo frequentato uno pseudocorso di cinema (a cui mi ero iscritto per fare un favore a chi lo gestiva e con la speranza di poter vedere film gratis, speranza presto disillusa). Cercando tra i suoi amici avrei trovato anche lei, molto probabilmente.

Può sembrare una cosa da maniaci, ma era più che altro la curiosità come quando in preda all’insonnia alle 3 di notte cerchi su YouTube un tutorial che spiega cosa succede dando fuoco a un composto di zucchero e bicarbonato.

E inoltre speravo di scoprire che, oltre a perdere il fascino che aveva all’epoca, fosse diventata antipatica e facesse cose orribili come mettere Mi piace a pagine come lo Sgargabonzi.

Orbene, l’ho trovata e ho scoperto che è diventata un’artista. Cioè, si scatta foto in bianco e nero con una Reflex.


Io sono un giornalista perché scrivo su WordPress.

 


Si scatta foto in bianco e nero in lingerie e baby doll di pizzo con una Reflex.

E Will Smith ha 50 anni!

Non è che sulla griglia il pilota si senta sui carboni ardenti

Devo parlare oggi di un fatto increscioso avvenuto qualche giorno addietro. Non ne ho fatto menzione prima per non generare il panico: si sa come vanno queste cose, la gente è influenzabile. Difatti oggi il lavoro più richiesto è l’influencer.

C’è stato un attacco di stupidera indiscriminato con episodi verificatisi nell’arco di poche ore, che ha visto coinvolti prima me da solo e poi dei miei amici. Vorrei capire se si è trattato di un fenomeno localizzato o se l’Italia intera è stata colpita da una qualche sindrome o peggio un attentato.

Episodio 1:
Protagonisti:
Io, l’autoradio, Jack
La radio in autostrada gratta e spernacchia.

– Mettiamo un po’ di musica dal telefono
– Io non ho dischi scaricati in memoria
– Metto io qualcosa da YouTube.

Attivo il denteblù sul telefono e guardo poi perplesso l’autoradio: dove si attiverà la connessione? Come si fa a sincronizzare col telefono? Non vedo alcuna funzione, sembra un modello obsoleto…

Forse si connette tramite USB? Ma non vedo l’ingresso.

La mia amica tira fuori un cavetto che si chiama Jack di nome e lo infila nell’ingresso dell’autoradio. Mi porge l’altro capo per inserirlo nella presa cuffie del telefono. Io guardo lei e poi guardo il cavo come se avessi visto l’uovo di Colombo.


Che poi questa cosa che al Tenente piacessero le uova non l’avevo mai saputa.


Episodio 2:
Protagonisti: Io, Amico1, una bella pompa

Scendo per far carburante al self service. Faccio il giro dell’auto, apro lo sportellino, svito il tappo e lo poggio sul tetto.

Arriva Amico1, inserisce la pompa nel serbatoio. Poi mette i soldi nella macchinetta. Inserisce 60 €. Peccato che il serbatoio ne contenga per 48: che genialata.

Termine il rifornimento, ripone la pompa, io rientro placido e tranquillo nell’auto, rientra anche lui, ripartiamo.

Il giorno dopo, la proprietaria dell’auto – perché in tutto questo la macchina non era nostra! – mi scrive per dirci che abbiamo perso il tappo del serbatoio.

Ah. Giusto. Era rimasto sul tetto e né io né l’altro tapino ci abbiam pensato.

Episodio 3:
Protagonisti: Io, Amico1, Conoscente1, Conoscente2, acciaio sovietico

Si inaugura la stagione del carbone e dell’acciaio con una bella grigliata. Conoscente1 ha personalmente saldato – probabilmente con dei rottami recuperati da una discarica – una potente macchina da brace.

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Conoscente1, nella foto sopra intento a purificare col fuoco, prima di andare alla stazione a prendere un’amica ha raccomandato a me, ad Amico1 e Conoscente2, di attizzare la brace con la bombola.

Noi, pensando di dover spruzzare del kerosene, del propano o chissà quale altro combustibile residuo di tempi andati conservato nella rimessa che si intravede nella foto, prendiamo la bombola rossa – sempre in foto – e cominciamo a spruzzare.

Cosa strana, la brace non sembra ravvivarsi. Allora insistiamo. Nulla. Dopo aver infradiciato tutta la carbonella desistiamo.

Torna Conoscente1:

– C1: Fatto?
– C2: Ma che caz ci sta nella bombola? Questa roba non serve a niente! Guarda qua, si è tutto spento!
– C1: Per forza: quello è l’antizanzare che spruzzo nel giardino!
– C2: Scusa, tu hai detto prendete la bombola, pensavamo ci fosse del combustibile
– C1: Sì, e io ora vi facevo versare il petrolio sulla carbonella: così saltavamo in aria! Io volevo che ravvivaste soltanto con un po’ di fuoco!
– C2: Ma tu tieni la bombola con l’antizanzare qua vicino…
– C1: E dove dovrei metterla, in casa per irrorarci il divano?

E poi va verso la rimessa e prende la bombola azzurra (sempre in foto) provvista di pratico lanciafiamme.

Da allora altri attacchi di stupidera non si sono verificati, quindi sembra essersi trattato di pochi casi isolati. Sono comunque preoccupato: e se fosse stato l’ISIS? Gli alieni? Luca Giurato?

Voi avete avuto notizia di casi simili?

Non è che con l’infanzia in un tag ti blogghi la crescita

Prima che internet mi abbandonasse, il buon Giacani e sua Olimpicità Zeus mi avevano invitato in questa catena: l’infanzia in un tag.

Pensavo fosse l’invito a giocare al laser tag, invece bisogna descrivere 5 giochi/giocattoli che hanno segnato la propria infanzia.

La bicicletta mi ha segnato sicuramente molto: ho ancora una cicatrice sull’interno coscia di quando fui investito a 12 anni mentre ero sulla mia mountain bike griffata Marzano (un produttore locale): c’è mancato poco diventassi un San Marzano. Diciamo che andare contromano con le mani dietro la testa non è proprio un’attività salutare. Al massimo vieni salutato come coglione.

Prima di passare alle mountain bike la mia prima bici fu una Graziella. Devo a lei la scoliosi che mi venne gli anni successivi. L’ortopedico disse “Hai una bici? Graziella? Grazie al ca…!”.

C’era una pubblicità su Topolino che diceva “Se lo fissi intensamente…sentirai il vicino bestemmiare”

Il pallone era un’altra attività all’aperto che aveva un posto speciale.
Sull’albero di albicocche di fianco o nel roseto: quello era il posto dove finiva.
Diciamo che non essendo mai stato un fine dicitore del pallone molte sfere sono state sacrificate durante la mia infanzia. E prima ancora dei Super Santos o dei Super Tele ho avuto palloni ancor più scarsi. Mi ricordo quello che vinsi nel 1994 trovando “il biglietto vincente” in una busta delle patatine (patatine che furono gettate in quanto mi interessava solo la sorpresa e/o il premio): un pallone celebrativo USA ’94. Era così leggero che con gli amici dovemmo inventarci una regola: non vale soffiare per spingere il pallone in gol.

A proposito di calcio, ho giocato anche a Subbuteo.
Un’ora per preparare il tutto, 5 minuti di partita. Il campo faceva così tanto le pieghe che ogni volta che si stendeva sul tavolo occorreva tirarlo sempre più per renderlo perfettamente liscio.
Le aree di rigore divennero alla fine lunette di pallacanestro.

Prima degli omini del Subbuteo ci sono stati i soldatini di plastica, venduti in bustoni dall’edicolante a un tanto al kg. Credo di non aver mai impostato una guerra in modo serio, con loro: dopo averli piazzati mi inventavo che una bomba causasse la morte istantanea e totale. Oppure organizzavo tornei di calcetto tra opposti schieramenti, un revival della Tregua del Natale ’14 tra Tedeschi e Francesi in quel delle Fiandre. I soldati col bazooka erano quelli più forti, essendo dei…cannonieri.

Molti soldati hanno riportato traumi da schiacciamento per suole delle scarpe e una lapide nella mia stanza ne ricorda il sacrificio.

Ai soldatini di plastica alternavo ogni tanto i dinosauri di plastica, anch’essi comprati a un tanto la tonnellata in edicola. A volte inventavo scenari post apocalittici con soldati del ’44 impegnati a fronteggiare uno stegosauro.

Il Lego è stato qualcos’altro che mi ha segnato. Le piante dei piedi sono infatti segnate da tutti i mattoncini pestati. Non mi piacevano i Lego normali, io impazzivo per il Lego Technic, con tutti quegli ingranaggi e i pistoncini da far muovere. Una cosa che però ho sempre desiderato e cui ho sempre sbavato dietro senza mai averla avuta era il Lego Technic Control Center.

Con questo pannello a prova di idiota (ha una freccia direzionale, dei tasti play, stop, record e program per registrare i movimenti da eseguire) secondo la pubblicità eri in grado di animare quel che volevi, costruire braccia meccaniche cui far disegnare progetti…

Anni dopo ho visto dei video su YouTube e in genere il massimo che si poteva ottenere era fargli disegnare un quadrato storto in un quarto d’ora. Però, ehi, vuoi mettere la soddisfazione di averlo fatto disegnare a un braccio di mattoncini?

Adesso dovrei taggare qualcuno ma io dico: prendetene e taggatevi tutti.

Non è che se vai fuori porta devi sentirti uno zerbino

Quando mi hanno proposto una gita fuori Budapest ho accettato a scatola chiusa. Anche perché era previsto del vino, quindi occorreva conoscere altro? La risposta è sì, prima di accettare di passare un weekend con cinque uomini scorreggioni e privi di senso organizzativo.

La meta era Szekszárd, una delle tante città piene di consonanti inutili.
Difatti, molto semplicemente, si legge Secsard.
Che suona tanto come Sexhard, particolare che si rivelerà fondamentale.

In auto:
– Allora, ma alla fine sapete di preciso cosa andremo a vedere?
– No
– Come?
– Noi l’abbiamo scelta per il nome: appena saputo di Sexhard abbiamo detto “Bisogna andare!”
– Sul serio?
– Certo! Dai, stiamo andando a Sexhard!
Ho capito, mi stanno perculeggiando…stiamo al gioco

Invece parlavano sul serio.
Su sei persone, nessuno aveva ben chiaro cosa ci fosse in questo posto.

Szekszárd è questa:

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“Dai, carina!”
Ho sbagliato a scrivere.
Szekszárd è solo questa.

C’è più vita nelle foglie morte che nei suoi trentamila abitanti.
Che vivono tappati in casa probabilmente, visto che a qualunque ora del giorno per strada non c’è nessuno. I negozi durante la settimana chiudono alle 17:30. Il sabato alle 12:30.

Esistono due locali di “movida”, che si rubano i clienti a vicenda, visto che quando uno è pieno (per pieno intendo 50 persone) l’altro è vuoto.

L’ultimo turista si è estinto prima della Caduta del Muro, come testimonia questo cartello indicante un ufficio turistico (che non esiste più), rimasto a imperitura testimonianza dell’esistenza, in un’aurea epoca passata, di una vita turistica a Szekszárd:

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O forse è un fake di un cartello invecchiato ed è stato posto in epoca recente per inventare un passato che non è mai esistito.


In un sottoscala di uno dei palazzi sulla sinistra della piazza del paese c’è un pubettino.

Appena entrati, la giovane fauna maschile presente ci ha squadrati con occhiate inquisitorie, continuando a fissarci come in un film di Sergio Leone.

La giovane fauna maschile autoctona esteticamente si presenta più o meno simile a costoro:


Che sarebbero Spitty Cash – un ex fenomeno (da baraccone) di YouTube – e un suo sodale.


Tute adidas di acetato, occhi bovini, crani enormi – inversamente proporzionali all’encefalo – pompatissimi ma solo dal petto in su cosa che conferisce loro un aspetto da lampadina a bulbo.

Sono sicuro che voi lettori, dall’alto della vostra mentalità borghese eurocentrica e anche un po’ radical chic commenterete con un Ommiodio! sarcastico e denigratorio, ignorando che, come diceva Madre Teresa, Da che punto guardi il mondo tutto dipende.

Per la giovane fauna femminile locale, esemplari simili rappresentano l’ideale di maschio dominante e appetibile.

Szekszárd comunque è nota per due cose: il vino e l’oca. In piazza, poco più avanti, sotto un tendone c’era una festa dell’oca in cui era presente anche il vino, di pregevole qualità.

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L’analisi organolettica non lascia dubbi: è rosso

Il cibo era tutto a base del simpatico volatile: cosce d’oca, soufflé ripieni di oca, paté di fegato d’oca, lángos con pezzi di oca, dolcetti ripieni di fegato d’oca, forse anche i tavoli e le sedie erano di fegato d’oca.

Qualcuno degli autoctoni, come in tutte le feste di paese, ieri sera a un certo punto ha esagerato col vino, diventando molesto. La sicurezza, composta da due omaccioni bovini – probabilmente i padri dei sex symbol che frequentano il pub di cui sopra – lo ha preso di peso, portato fuori dal tendone e abbandonato svenuto su una panchina.

Nota: c’era nevischio e 2 gradi sottozero.
Non abbiamo avuto il coraggio di tornare la mattina dopo a controllare se fosse ancora vivo o fosse morto lì.

Oppure l’avranno usato come ingrediente per il paté di fegato: per strada non si vede anima viva e di oche non ne ho viste in campagna.

Che fine hanno fatto gli abitanti di Szekszárd?

Non è che in Austria per le camicie usino l’asse da Stiria

Il 15 marzo qui in Ungheria è festa nazionale per la Rivoluzione del 1848.


Il 15 marzo 1848 con la lettura di un proclama pubblico di 12 punti cominciò la rivoluzione che portò alla guerra di indipendenza dell’Ungheria contro l’Impero Asburgico, guerra che si concluse con la capitolazione – in un bagno di sangue – degli ungheresi, che dovranno attendere il 1867 (anno dell’Ausgleich, il compromesso) per vedere riconosciuta autonomia: in quell’anno, infatti, nacque l’Impero Austro-Ungarico, la Duplice Monarchia.


Già da oggi ho cominciato ad avvistare persone in giro con coccarde tricolore (è tradizione infatti apporne una sul petto per questa occasione) e bandierine, mentre suonatori ambulanti fuori la stazione Nyugati intonano canti patriottici.


O magari erano invece romanze neomelodiche che parlavano di tradimenti e amori impossibili e le coccarde mi han fuorviato.


Dato che le celebrazioni mi mettono sempre a disagio, me ne andrò via tre giorni. La società ha infatti deciso di far ponte il 14.


Che poi non è vero, rientrerò il 15 mattina in tempo per vedere qualunque cosa facciano gli ungheresi in questa giornata.


Se lo avessi saputo con largo anticipo mi sarei organizzato. Una prima idea sarebbe stata cercare un volo per tornare in patria, anche se comunque ho già in programma di rientrare a Pasqua.

La seconda idea sarebbe stata prendere un volo low cost per il Nord Europa. È stato sorprendente sapere quanti voli diretti ci siano da qui alla Scandinavia. Avrei potuto approfittare di quei fantastici biglietti a 30-40 euro per la Svezia.


La storia che i biglietti aerei conviene comprarli 8 settimane prima sembra essere purtroppo vera¹.


¹ Anche se, se tutti si convincono di questo modello matematico e iniziano ad acquistare biglietti 8 settimane prima, non c’è il rischio che il boom di click online intorno quel periodo faccia lievitare i prezzi?


Sento un bisogno di estremo Nord.

“Vieni, vieni, il Nord ti aspetta”

Non potendo soddisfare questo nordismo e vedere bionde pure prima che si estinguano,


Il biondismo sembra infatti destinato a scomparire.


Anche se in realtà poco mi interessa: sono per il nero scuro. Temo purtroppo però che i miei geni non siano total black: ogni tanto nella barba mi spunta un pelo chiaro o rossiccio.


ho deciso di prendere un treno per l’Austria, direzione Graz (preg!), capolouogo della Stiria, regione verde.


Ma esistono regioni non verdi in Austria?


Oltre a quello specifico di Nord, sento un generale bisogno di viaggiare spesso.
Non compro dischi e vivo di YouTube e Spotify, risparmio su altri intrattenimenti, ma a un viaggio, se posso e le mie possibilità manducatorie mensili me lo permettono, non riesco a rinunciare.

Ho il bisogno di vedere e di conoscere, anche perché non so se un giorno dovrò smettere o limitarmi.

Conosco anche molte persone sparse in giro, il che può essere rassicurante perché è piacevole pensare che se rimani a piedi con l’auto in un punto puoi ricordarti di qualcuno che potrebbe dare una mano lì nei dintorni.


Ammesso che si ricordi di me: sono così schivo nei rapporti umani che non li approfondisco, non li coltivo. A volte mi faccio proprio schivo da solo. Non è che non mi piacciano le persone: al contrario, più ne incontro e più trovo rassicurante sapere che ci sia vita nel mondo. Eppure di queste vite non riesco a spingermi a farne parte in misura più ampia. A volte penso sia inabilità sociale, a volte credo che quella della inabilità sia solo una giustificazione di comodo.

Quanti Fatti sentire ho ricevuto.
Oppure quanti Potevi avvisarmi che eri lì.


¹ Ma l’uso della giustificazione di comodo non è esso stesso una prova di una inabilità sociale?


Dopo tanti viaggi in treno, ancora mi affascina che dall’esterno sembri un proiettile ma quando ci sei dentro invece il paesaggio sembri scorrere più lento. Che è un po’ il contrario che accade quando si è pensierosi: la tua mente vaga a pensare mille cose in poco tempo, chi ti guarda invece pensa che tu ti sia pietrificato.

Provai a raccontare a lei, una volta, di questi miei momenti di raccoglimento. Della malinconia che mi prendeva quando dovevo specchiarmi nel finestrino perché non c’era nessuno a potermi dire che mi ero rasato male.


Uno dei motivi per cui alla fine ho lasciato crescere la barba è stata la mia presa di coscienza di essere incapace a farmi un pizzetto dritto o regolare.


Ma non mi espressi bene. Urtai la sua sensibilità. Non poteva viaggiare e lo prese come un tentativo di colpevolizzarla per il fatto di lasciarmi da solo.

Io come mio solito reagii alterandomi, perché la diplomazia per me è solo una sorella di un genitore con un titolo di studio.

Tanta voglia di vedere il resto del mondo da non riuscire poi a scorgere oltre il mio naso chi mi è più vicino.

Un giorno vorrei andare nello Spazio e, come il Doctor Who, tenderti la mano dicendo Vieni con me.

Andiamo a fare una passeggiata sul lungoMarte.

Non è che il colmo dello spazzaneve sia andare in bianco

Sono tornato al lavoro aspettando al varco qualche imboscata di Aranka Mekkanica o qualche confessione sentimentale di CR, ma nulla di ciò è avvenuto perché erano entrambe assenti.

Ho provato del disappunto perché in quanto personaggi di questo blog dovrebbero come minimo rendermi nota l’assenza con un preavviso di tre giorni.

Da solo in ufficio e con poco lavoro da svolgere per le prime 3-4 ore (ho udito una parola che fa rima con “mulo” provenire dal fondo della sala da parte di qualcuno il cui rientro è stato meno soft), ho finito con l’indugiare nel pensare. Di solito i miei pensieri non si arrestano mai, ma quando sono fisicamente inattivo penso anche più del solito, finché il processo diventa un rimuginamento ruminatorio, come un bovino che di continuo fa circolare il proprio bolo tra bocca e apparato digerente. E difatti i miei pensieri alla fine puzzano proprio di vacca.

Sabato avevo rivisto Baci rubati di Truffaut. Di quel film apprezzo molto la chiusura nonsense del finale, con la famosa scena “Detesto il provvisorio”.

Oggi ripensavo al protagonista, Antoine Doinel (il ragazzo che nel video assiste sulla panchina con la ragazza al discorso dello sconosciuto): un giovane mediocre, anche un po’ meschino, che si barcamena tra varie attività senza riuscire in nessuna, fino a cedere alla banalità della vita forse per mera presa di coscienza della propria inutilità.

Mi sono rivisto in lui.
Mi sono applicato in varie cose, senza eccellere. Ho vari interessi, senza averne una conoscenza molto profonda di nessuno. Conosco molte persone, ma poche in realtà le conosco realmente e loro conoscono me. Ho affrontato relazioni con la stesso approccio con cui mi preparavo ai compiti in classe di matematica al liceo: sufficienza, spocchia, arroganza, lassismo.


Il primo 6 allo scritto lo vidi al terzo anno. Poi una volta presi un 7 ma avevo 5 all’orale.


Mi sento imperfetto.
Nei confronti di me stesso, innanzitutto. Potrei tollerare l’inadeguatezza nei confronti altrui, ma non riesco a essere clemente tra me e me.

Ho aperto YouTube per distrarmi. Al lavoro mi è concesso ascoltare un po’ di musica in sottofondo, di tanto in tanto. Com’è ovvio, soltanto cose tranquille.

Ciò che di pacato conosco sono Radiohead, National, Arcade Fire e similari, difatti ascolto spesso questi gruppi quando mi trovo in ufficio.

Accedo alla home. Ci sono i suggerimenti sulla base dei video da me visti in precedenza. Mi salta all’occhio Creep: sembra messa lì a bella posta. Calza a pennello quando Yorke canta I want to have control/I want a perfect body/I want a perfect soul.


C’era tra i suggerimenti anche un video didattico su una ceretta pubica femminile, non capisco il perché. Youtube-di-falloppio?


La neve mi ha poi salvato dal cattivo mood. E non è una metafora per indicare la dama bianca, che è una metafora per indicare il motore bianco, che è una metafora per indicare la coca.

Mi sono girato e dalla finestra ho visto che fuori fioccava:

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E poi il fiocchettìo è proseguito:

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Notare la splendida veduta di una tettoia in lamiera in primo piano con sullo sfondo le spalle di due condomini non so di quale epoca storica, forse tardo decadentismo perché li vedo decadere a pezzi.

Questa è invece una veduta di persone che aspettano il tram come di consueto, al termine di una consueta giornata: tram tram quotidiano.

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Anche io aspettavo il tram come di consueto alla fine di una consueta giornata, quindi sono sia osservatore che oggetto – pur non visibile – della scena e ciò mi sembrava molto metateatrale. Con questa idea sono rientrato a casa soddisfatto ma col passo un po’ incerto, perché dove la gente cammina la neve diventa una pappetta sporca e sdrucciolevole, un po’ come dei pensieri grigi e insidiosi.

Non è che la tua NVIDIA sia la mia GeForce

A volte la gente mi chiede perché io sogni a occhi aperti.
Che domanda.
Perché a occhi chiusi rischierei di andare a sbattere o inciampare.

Stavo riflettendo su ciò mentre passeggiavo, quando una farfalla bianca mi ha attraversato la strada davanti la faccia rischiando di finirmi in bocca, riportandomi alla realtà. Era una cavolata, un lepidottero tipico per la sua balordaggine.

È strano vedere in giro farfalle a novembre. Questo clima fa venire voglia di andare in vacanza. Fortuna che tra una decina di giorni vado a Utrecht, anche se credo sarà difficile trovare un clima adatto a girare come oggi in polo. Sarebbe più logico girare in golf, se non fosse cattivo periodo per la Volkswagen.

Ho perso le foto delle ultime vacanze. Pensavo di averle trasferite sul pc mesi fa, così ho formattato il cellulare tranquillamente.


Speravo di recuperarne un po’ le prestazioni visto che gli Android, forse sognando troppe pecore elettriche, tendono a impigrirsi col tempo.


Mi sono accorto dopo che non ne avevo mai fatto un backup. Ho notato la tendenza in me a sistemare le foto con sempre più maggior pigrizia, sino a non ordinarle affatto più. Una volta mi piaceva smanettarci su Photoshop, ora neanche questo. In quest’epoca in cui tutti scattano ma sono sempre più sedentari e magheggiano coi filtri ma non per fumare, sembra che applicarsi sulla fotografia sia un atteggiarsi a fotografo professionista. E mi dà fastidio essere giudicato un atteggiante.

È come se, giusto per divertimento, volessi cimentarmi in una rabona e qualcuno mi indicasse dicendo: guarda quello, ma chi si crede di essere, Cristiano Ronaldo?


Per i non addetti ai palloni: per rabona si intende colpire la palla incrociando il piede che la colpisce dietro al piede d’appoggio. Cioè, se siete destri, spostate il destro dietro il sinistro – che fa da perno – colpendo il pallone.

Se siete CR7 il gioco vi riesce. Se siete come me, vi autosgambettate.

CR7 che si sgambetta da solo.


 O forse sono io che esaspero l’effetto riflettore.


Per non addetti alle luci: per effetto riflettore si intende il sentirsi continuamente osservati e giudicati per le proprie azioni da parte delle persone estranee.


Com’è come non è, ho contattato la mia ex per chiederle se volesse gentilmente passarmi un po’ di foto perché mi dispiaceva averle perse. In particolare quelle del campo di concentramento di Mauthausen.

Sono due settimane che attendo, perché lei non sa zippare i file.

Ho sempre difficoltà a interagire con persone che non sanno usare le cose basilari di un PC, perché poi ciò genera l’equivoco che io sia invece un grande esperto. Una volta infatti io e lei litigammo perché non ricordo cosa volesse e io dissi di no perché non volevo correre il rischio di fare guai sul suo notebook nuovo.

È sempre difficile inoltre rapportarsi con l’ex.
Lo sa anche Superman, che con l’ex Luthor ha avuto il suo daffare.


Lex Luthor, nota nemesi di Superman.


Dicevo, di fronte a chi ha competenze nulle io sembro Bill Gates. Come dire: in un paese di ciechi chi ha un occhio fa il sindaco.

Purtroppo non sono degno di fare il sindaco, al massimo ho le competenze di un usciere.
E questo per ciò che concerne i software. Non parliamo delle competenze hardware: HP, NVIDIA, Intel: sono solo nomi di cosi che cosano cose all’interno di un coso.

Vado in ansia se qualcuno mi chiede di mettere le mani sul suo pc: fin quando si tratta delle mie macchine, ci smanetto quanto mi pare, perché dei danni ne rispondo a me stesso e, in ogni caso, basta chiedere a Google che ha sempre una soluzione per tutto.

A volte ho l’impressione che per molti Google sia utile solo per cercare i porno, ignorando la quantità di cose che può trovare.

Ad esempio, domani ho una presentazione in PowerPoint.
Le mie diapositive sono sempre graficamente molto curate, vi allego anche dei brevi video introduttivi.


L’ultimo con in sottofondo la sigla di Fringe ebbe successo. Per domani ho utilizzato la sigla di Dr. House, anche se mi trovo pentito di non aver preso quella di Breaking Bad.


Non ci vuole un diploma in computer grafica. Bastano:
– Windows movie maker
– Keepvideo per scaricare video/audio da YouTube
– Cutter Video Online per tagliare i video
– Mp3 Cut Online per tagliare i file audio
– Google Immagini per scaricare foto e icone

Quando spiego questi semplici ingredienti, mi chiedono sempre: “Ma queste cose come le trovi?”.

La prossima volta dirò sul serio “Google non serve solo per i porno”.


A dispetto della premessa del mio post, comunque, anche a occhi aperti vado a sbattere.

La mia casa natìa in due giorni mi ha picchiato 3 volte, accanendosi contro la mia testa: l’ultimo incontro tra la porta di ferro e la mia fronte debbo dire ha lasciato il segno. Con un’altra capocciata magari mi viene la cicatrice di Harry Potter.

WARNING: IMMAGINE IMPRESSIONABILE! NON LA FISSATE O SI SPAVENTA!

2015-11-08 21.04.05


Non è che un rugbista possa girovagare senza meta

È il mio ultimo mese di permanenza a Roma.
Per adesso.

Un po’ mi mancherà questa casa che tanti spunti per aneddoti interessanti mi ha fornito. Ultimamente però non ho altre curiosità da raccontare. A parte che la cinese ha passato lo scorso week end a Firenze con un “amico”: il fatto che abbia rimorchiato e sia partita per un w/e mi ha sconvolto.

Poi ho capito che si trattava di un altro cinese che va alla scuola di italiano con lei e la cosa mi è sembrata più normale, così come il fatto che in questi mesi il suo italiano sia addirittura peggiorato: se parla solo con connazionali, non fatico a crederlo.

Coinquilino invece in vista della mia partenza mi ha chiesto aiuto nel reperire un altro inquilino, chiedendo se io potessi sondare nel mio ambiente, perché vorrebbe in casa un altro che si occupa di cooperazione.

Una richiesta un po’ strana: è come se uno dicesse “Voglio affittare casa solo a un assicuratore”, oppure “A uno che progetta impianti termoidraulici” e così via.


Gli ho detto che gli avrei fatto sapere, la classica formula evasiva che uso quando in realtà non farò sapere un bel niente.


Perplesso, comunque, sono uscito per una passeggiata. Poco più in là di casa, degli operai stavano ritinteggiando la segnaletica stradale della fermata dell’autobus. La vernice si asciuga in pochi minuti: uno degli operai, per constatare la cosa, con la suola calpestava le strisce. Ho desiderato in quel momento di farlo anche io: l’operaio mi ha rivolto un’occhiataccia come se mi avesse letto nel pensiero e questa cosa mi ha preoccupato perché a volte ho proprio l’impressione che le persone mi leggano nella mente.

Ho girovagato senza meta.

A un certo punto non so perché sono entrato in un outlet non visibile dalla strada, cui si accede scendendo delle scale. Ero convinto di poter fare qualche affare, perché gli affari migliori li ho sempre fatti quando non avevo intenzione di comprare qualcosa.


O forse è una giustificazione per gli acquisti inutili.


Era una boutique per donne. O forse l’abbigliamento maschile era nascosto in un ripostiglio.


Comincia a infastidirmi questa cosa che nei negozi di abbigliamento i vestiti da donna siano all’ingresso e quelli da uomo o in fondo la sala o al piano superiore o, infine, a quello inferiore.


mara-carfagnaUn commesso che somigliava a Domenico Dolce mi ha guardato scrutandomi come fanno i poliziotti all’aeroporto. Una commessa che somigliava a Mara Carfagna – con il medesimo tipo di cranio che sembra si stia rimpicciolendo causando quella inestetica impressione che gli occhi stiano per uscire dalle orbite mentre forse è solo l’abuso di cocaina a renderli così – non mi ha nemmeno guardato.
Sono andato via.

Deciso a dare una seconda possibilità al mio istinto, sono salito su un autobus a caso. Ho assistito con vivo compatimento al tentativo di un paio di turisti tedeschi di obliterare il biglietto, fino a che non mi sono deciso a dirgli che la macchinetta credo fosse andata in tilt.

Sono sceso a Piazza del Popolo e poco più avanti ho trovato un negozio equo-solidale in cui mi sono infilato, per uscirne con paté al peperoncino e un infuso balsamico che non so quando utilizzerò perché le cose balsamiche mi nauseano. Faccio uno sforzo sovraumano per riuscire a sopportare una Halls, quando capita, nonostante la prenda a causa del naso otturato e la gola in fiamme.

Il proprietario equo-solidale mi ha trattenuto mezz’ora a parlare. Nel negozio c’era in diffusione La isla bonita di Madonna. Lui fa: “Qui dentro siamo rimasti agli anni ’80…”. “Vedo”, dico io, ridendo.

Da qui poi è iniziata una conversazione senza né capo né coda che è partita da un’apologia degli anni ’80, culminata con la visione dello spot del primo Macintosh del 1984 che il proprietario ci ha tenuto a farmi vedere su YouTube (lo spot, non il Macintosh), passando poi per lo spot Superga del 1997 con la musica dei Prodigy, attraversando riflessioni sull’arte come forma di comunicazione figlia del proprio tempo, per finire col proprietario che vuole aprire un outlet dove il vero proprietario – secondo lui – deve sentirsi il consumatore. Nel senso che il cliente entra nel negozio e deve sentirsi a proprio agio, si collega con lo smartphone alla rete del negozio e mette in diffusione la musica che vuole; se poi fa pubblicità al negozio sui social network, ottiene il 20% di sconto.


Ha detto anche altre cose sul suo progetto ma non mi dilungo.


Sono andato via contento di una cordiale chiacchierata ma chiedendomi, ancora una volta, perché io, dall’aspetto così taciturno e perennemente sulle mie, ispiri conversazioni agli sconosciuti.


La trascurabile importanza del condividere

Ho appreso che fosse cominciato Sanremo aprendo la home di Facebook. Non è per fare finto snobismo che affermo che non lo sapessi. È ovvio che sono a conoscenza del fatto che ci sia in televisione questo momento aggregatore nazionalpopolare che è una via di mezzo tra il giorno della marmotta negli Stati Uniti e il discorso della Regina Elisabetta nel Regno Unito. Non ero a conoscenza dell’inizio effettivo e l’ho scoperto dagli aggiornamenti dei miei contatti su Fb, divisi, nell’ordine, in:
– commenti sul Festival di Sanremo
– commenti su quanto faccia schifo il Festival di Sanremo
– commenti sprezzanti su quelli che dicono quanto faccia schifo il Festival di Sanremo
– commenti di quelli che dicono di non guardare il Festival di Sanremo
– tette, culi, frasi retoriche e ridondanti sull’amore, link che vorrebbero essere spiritosi ma avevano già smesso di far ridere quando furono creati, rivelazioni a caso su complotti in corso del NWO e tanto altro da parte dei più irriducibili che ci tengono a seguire una linea editoriale costante.

Ormai quando piove corro a verificare su Facebook per esserne certo, perché la finestra potrebbe ingannarmi.  Io sto scherzando, ovviamente, ma ho come l’impressione che per alcune persone il vero risieda nel condiviso.

Coincidenza, ieri sera sono andato a vedere Birdman (O l’imprevedibile virtù dell’ignoranza). Due parole: finalmente credo di aver visto un film che (probabilmente) vincerà l’Oscar e che mi piace. Accadde anche col Signore degli Anelli, ma lì è scontato, come avrebbe fatto a non piacere?!

Ci sono due cose che mi eccitano in senso artistico: il cinema quando parla di cinema (penso a tal proposito di essere uno dei pochi estimatori di Holy Motors) e il piano sequenza. Nel film ci sono entrambe le cose, anche se l’ultima è posticcia: nel senso, le scene sono in piano sequenza, fuse insieme per poi dare l’impressione che tutta la pellicola sia interamente un piano sequenza.

C’è un passaggio significativo – tra i tanti – in tutto il film, o meglio, in realtà più che un passaggio è una sottotrama che viene a galla nei momenti salienti: la notorietà e l’essere qualcuno. Riggan Thomson (Michael Keaton) è un uomo vecchio. Odia i blogger, Twitter, non ha una pagina Facebook, non compare su Youtube (come la figlia, con la quale è in pieno conflitto generazionale – cliché sul quale non mi soffermerei – gli urla contro): in poche parole non esiste (tra l’altro, “non esisto” è la battuta che dice il personaggio che R. T. interpreta a teatro nella rappresentazione basata su What we talk about when we talk about love di Raymond Carver). I suoi sforzi di costruirsi una identità artistica sono vani, basti pensare che il picco di fama che raggiunge lo deve a una passeggiata in mutande in Times Square, il cui video raggiunge centinaia di migliaia di visualizzazioni in rete. Non svelo il finale, ma il gesto sul palco, oltre a essere l’azione di un uomo preda dei propri deliri schizoidi, è anche la risposta definitiva al pubblico: se è ciò che bramate, ve lo darò.

Illuminante il commento dell’arcigna e severa critica teatrale di fronte allo sfogo del povero Riggan: “Voi non siete attori, siete celebrità”.

Sono uscito dal multisala (a proposito, vorrei esprimere tutto il mio odio per i multisala: supermercati dell’intrattenimento, dove sono costretto a condividere la fila con coloro che sgomitano per l’ultimo film di Siani, il quale non mi ha mai fatto ridere così come non mi fanno ridere gli odierni comici by Zelig, Colorado, Made in Sud e compagnia, contornato da una puzza di pop corn acido e dal rumore delle mascelle di quelli che li mangiano durante la proiezione) riflettendo sulla schiavitù numerica della condivisione e sul rapporto che hanno la fama e la notorietà coi contenuti, un rapporto che vede questi ultimi a mio avviso – ahimé – spesso soccombere.

Ho in passato pubblicizzato la mini serie Black Mirror: l’episodio che mi ha inquietato di più, perché è quello che percepisco come più icastico, è The Waldo Moment. Invito a vedere tutta la serie (sono sei episodi + uno special uscito due mesi fa) ma in particolare questo qui che, pur essendo qualitativamente inferiore agli altri, lascia riflettere sulle dinamiche che si creano tra opinione pubblica e la realtà che si replica e diffonde in rete.

 

Sasha Grey irride la mia religione e nessuno se ne cura

Dalle mie parti si tiene ogni anno una rassegna cinematografica di film d’autore. Quella del 2015 sta per prendere il via, con alcuni intoppi organizzativi.

Un problema verificatosi di recente è stato il dover sostituire all’ultimo momento tre film: trattasi della trilogia Paradise (Love, Faith, Hope) di Ulrich Seidl. Il nome forse non vi dirà nulla. Neanche a me dice qualcosa. Il motivo per cui partecipo a questi eventi è appunto conoscere e imparare.

La proiezione della trilogia pare sia saltata perché è stato espressamente richiesto di rimuoverla, dietro minaccia di una denuncia per vilipendio alla religione. Non conosco altri dettagli.

Credo il nodo della questione fosse il secondo film, Faith (Premio della Giuria a Venezia nel 2012), in cui ci viene presentata la vita di Anna Maria, tecnico radiologo fervente devota di Cristo, tanto da avere la casa tappezzata di immagini sacre, di avere l’hobby di flagellarsi davanti al crocifisso e l’abitudine di andare in giro casa per casa con una Madonna sotto braccio tra persone che vivono nel peccato, per invitarle a redimersi.

Nel film a un certo punto la donna si masturba con un crocifisso. È tutta qui la pietra dello scandalo, visto che quando ho cercato informazioni sul film non ho trovato altro che riferimenti a tale scena. Repubblica addirittura all’epoca ha titolato “Sesso con un crocifisso”, “Il regista austriaco festivaliero con “Paradise Faith” consegna alla platea l’immagine di una ultracattolica devota che fa sesso con un crocefisso”. Sì, nel film c’è questa scena, ma scritta così sembra che si tratti di un film con Sasha Grey, non so se mi spiego.

L’intera opera, al di là della singola scena, è provocatoria. Ma non si tratta mai di una provocazione fine a sé stessa, quindi non si può, a mio avviso, prendere un estratto e decontestualizzarlo da tutto il resto.

Il film ho provato a cercarlo, sono riuscito a vederlo per intero su youtube. Link: Paradise, Faith. È in lingua originale e sono riuscito ad attivare i sottotitoli solo in inglese.

Mi soffermerò un secondo sull’opera in sé: dal punto di vista registico io la trovo artisticamente molto valida, ma sono osservazioni che solo da pochi anni mi trovo a fare. Non è da molto che mi trovo a non percepire un senso di staticità in un’inquadratura fissa, abituato al cinema di stampo hollywodiano con continui stacchi di camera e un dinamismo esasperato. È da poco che imparo ad apprezzare una scena per come è costruita, a considerare l’immagine per ciò che è e cioè come se fosse un quadro perché, spesso lo si dimentica, il cinema è una forma d’arte.

Scena della riunione del gruppo di preghiera: sono rivolti al crocifisso verso la parete, ma a tratti sembra che guardino lo spettatore. L’impatto è notevole

Io non sono un integralista, a me piace variare. Ad esempio mi ostino a guardare i film della Marvel ogni volta che ne esce uno, ma perché da appassionato non riesco a farne a meno. Ma poi mi interesso anche a un cinema che può essere considerato di nicchia, in quanto non parte del circuito dell’intrattenimento. In virtù del mio considerarmi comunque un profano, il mio giudizio su un’opera come questa può valere poco e niente. Per un altro, il film sarà una cagata, magari. E ci può stare. Ma che gli sia concesso di vederlo per giudicare.

Anche perché dicono che siamo tutti quanti Charlie. Anche se quando in giro provo a gridare “Charlie” nessuno poi si volta e mi sento alquanto solo e depresso.

Qualcuno può obiettare che masturbarsi con un crocifisso è offensivo per chi crede.

Benissimo.

Non lo guardare, allora.
Non è difficile.

Quando Sasha Grey gira una scena con un cetriolo, qualcuno chiede agli ortolani cosa ne pensano? No!
Perché dovrebbe essere diverso?
Perché un cetriolo non è dio o suo figlio.
E chi l’ha detto? Io credo nel Sacro Cetriolo e mi sento offeso dagli usi impropri di questo ortaggio.
Qualcuno si preoccupa dei miei sentimenti?
No!

Un cetriolo soltanto? Pfff

Se mi facessi saltare in aria gridando “Per il potere del Cetriolo!”, nei telegiornali cosa direbbero? Che è in atto una guerra di religione o che un folle si è ucciso, intervistando i miei vicini di casa che diranno “Sembrava un tipo strano, non salutava quasi mai” (dalla tv ho imparato che per essere delinquenti insospettabili è importante dire sempre buongiorno e buonasera: così non ti scopriranno mai), andando a ripescare i miei quaderni delle elementari dove disegnavo un carrarmato e un tizio baffuto specificando che fosse Saddà Mussei (non sapevo come si scrivesse) per dimostrare come fossi disturbato già a 6 anni (perché giustamente invece è del tutto normale che ti dicano che bombardare civili inermi è una guerra per la pace)?

Mi viene in mente una battuta di Bill Hicks:
– Ehi, amico, siamo cristiani. Non ci piace quello che hai detto.
– Allora perdonatemi.