Non è che non puoi mischiare sagra e profano

L’autunno in Italia coincide con un fenomeno che colpisce metà degli italiani a fine settimana alterni. In pratica, nell’arco di un mese siamo tutti coinvolti almeno un paio di volte.

Sto parlando di feste e sagre di paese.

Tendenzialmente si dividono in due categorie:

– La sagra del porcello imbottito di caciocavallo (rigorosamente podolico) con castagne tartufi e porcini. Fritto e ripassato al ragù.
– Qualcosa di Medievale. La giostra medievale. Il palio del mulo medievale. La corsa con il cucchiaio in bocca reggendo un uovo, medievale. Il torneo di sputi in faccia medievale. Fa niente che in quella località nel Medioevo c’era giusto un villaggio di 4 case in croce con un prete boccaccesco e qualche occasionale ondata di peste e nient’altro, nessuno andrà mai a indagare.

In questo post vorrei esaminare la prima categoria: quella delle sagre enogastronomiche. E in virtù della mia esperienza di sagraiolo vorrei fornire dei consigli per metterne in piedi una se siete amministratori locali alle prime esperienze:

1. Per una sagra enogastronomica la prima cosa è avere un prodotto tipico. Se non ce l’hai, te lo inventi. Tutta la regione ha la stessa pianta di ravanelli? Tu lo chiami ravanello di *nome della tua città* (per comodità da qui in poi sarà Pisciate di Sotto) e crei la Sagra del ravanello tipico di Pisciate di Sotto.

2. Il territorio di Pisciate di Sotto, 4 metri quadri per 4 incrostato su un arido sperone di roccia, non è però in grado di produrre tutti i ravanelli necessari a sfamare l’orda di lanzichenecchi ingordi che arriverà, soprattutto se il menù della sagra è monotematico e prevede a) antipasto tipico con ravanelli; b) pasta fatta in casa (tipica) con ravanelli; c) stufato di qualche animale a due o quattro zampe (tipico) con ravanelli; d) dolce (tipico) al ravanello; e) amari, liquori, vini e digestivi al ravanello. Rigorosamente tipici. A dirla tutta, nel territorio preciso di Pisciate di Sotto l’ultima pianta di ravanello è morta sul balcone di una vecchietta una decina d’anni fa e da allora non se ne vede più una. Non porti quindi il problema di andare a recuperare ravanelli all’hard discount a rate: i lanzichenecchi di cui sopra, attirati da abbondanza e prezzi modici e storditi dal vino a 1€ utile anche per sverniciare i metalli, mica se lo pongono.

3. La famosa vecchina di cui sopra andrà legata a un ceppo e costretta a fingere di mescolare un paiolo dentro cui ribolle non si sa cosa oppure a impastare la famosa pasta tipica, in genere gnocchi o fusilli che si producono uguali in tutto il resto d’Italia ma che in ogni paesello vengono chiamati con un nome differente perché così diventano tipici.

4. Non dimenticare lo stand che fa le crepes alla Nutella sennò i bambini restano a digiuno e poi non possono rompere il cazzo ai genitori piangendo perché hanno visto lo stand delle crepes alla Nutella e vogliono fermarsi lì.

5. Anche se non lo inviti, comparirà lo stand di torrone, nocciole tostate e caramelle gommose, che sono praticamente le stesse che girano in tutta Italia e che non vedi mai comprare da nessuno. Probabilmente sono di plastica. O lo sono diventate nel tempo.

6. Per gestire l’arrivo di migliaia di persone è necessario attrezzare parcheggi al di fuori del borgo. Qualsiasi cosa può diventare un’area di sosta: una strada abbandonata, il campo sportivo dove la Pisciatese (la squadra del dopolavoro ferroviario) milita con orgoglio nella serie Delinquenza (due categorie sotto Eccellenza e Promozione), un campo coltivato della frazione accanto dove crescono i ravanelli. Ricorda di far pagare il bigliettino di parcheggio, affidando l’assistenza alla sosta a dei volontari: in genere i nipoti minorenni dei gestori di stand. I genitori li rivedranno finito il week end di sagra. Se hanno incassato abbastanza.

7. Chiedi aiuto alla Protezione Civile o a chiunque abbia una tuta fluo per fingere di esserlo.

8. Un maiale su un girarrosto in piazza fa sempre la sua porca figura.

9. Ricordati di far attrezzare gli stand col POS hahahahahahaha no no tranquillo stavo scherzando.

10. L’atmosfera di genuinità e del “fatto come una volta” permette di sorvolare sulla mancata osservanza delle procedure igienico-sanitarie per la preparazione e la somministrazione di alimenti, cose che insomma farebbero chiudere un ristorante a vita ma qui siamo nell’ambito del tipico quindi non devi temere i NAS.

11. La musica tipica non deve mancare, scegli quello che vuoi basta sia suonata con fisarmonica e/o organetto e sia che Pisciate di Sotto si trovi in cima alle Alpi sia che si trovi a Pantelleria avrà sempre, in ogni caso, il ritmo andante zumpa zumpa zumpa-ppà.

Ora direi che ne sapete abbastanza. Che aspettate? Create la vostra sagra!

How to train your Gintoki


Con la presente dichiaro chiusa la prima serie continua di titoli no-sense introdotti da “Non”.


Dovrei scrivere una bozza di budget e sono indeciso se scriverla durante questa notte e poi dormire in mattinata oppure dormire in mattinata e buttare giù (dal balcone) due sciocchezze nel tempo che mi resterà.

Ho già speso le mie energie mentali per risolvere un importante dilemma. Sulla pista di ballo c’è qualcosa di importante, oggi ne ho avuto conferma via mail. Chi mi ha mandato il messaggio mi ha pregato di scrivere alla Contessa Serbellons Mazzant Comesfromthesea (è anglofona), che leggeva in copia.

Dubbio: la Comesfromthesea è anglofona ma lavora in Italia. La mail che ha letto in copia era in italiano.

Le scrivo in italiano o in inglese? No, perché c’è una bella differenza.

Dopo essere andato agli allenamenti e non averci pensato affatto, tornato a casa ho deciso di scrivere in inglese.

Vedremo se il primo step è andato. Ne restano altri ed è difficile scacciare il demone del fallimento – che nella mia fantasia è impersonato da Charlie Brown – che mi dice Gin, ma tanto non ce la farai.

Charlie Brown e la sua sempiterna gioia di vivere

La cosa divertente è che se va in porto la cosa corro il rischio di trovarmi a essere seguito da un personaggio particolare che è entrato nella mia lista di personaggi particolari.

Tanto per cominciare, ha una certa somiglianza con l’ispettore Clouseau, giusto i baffi più folti. Sono rimasto però molto deluso quando ho fatto notare a tre persone la somiglianza e tutte e tre non avevano idea di chi fosse l’ispettore Clouseau. Ci sono rimasto male ma non perché non avessero compreso la mia battuta, ma per il buon ispettore che non capisco perché non debba essere ricordato.


Se anche voi, lettori, non avete presente chi sia e stavate aspettando una didascalia esplicativa, allora questa didascalia non vi fornirà informazioni didascaliche su di lui perché non le meritate, ecco.


La seconda caratteristica del personaggio è che parla in modo ampolloso e retorico e anche un po’ arcaico. Ad esempio, per dire che leggerà una frase da un libro, dirà che “Ho il piacere di condividere con voi questo passo che trovo pregevole”.

La terza caratteristica è che quando insegna ai corsi, dopo la prima lezione sceglie due volontari (i classici volontari involontari), uomo e donna, per far far loro delle flessioni. Terminata la performance, delizia anche lui il pubblico con delle flessioni.

Ed ha 65 anni, preciso.

La quarta caratteristica è che ha tre figli, uno adulto avuto dalla prima moglie, e due piccoli, di 4 e 8 anni, avuti dalla seconda.

Ed ha 65 anni, preciso.

Sono quindi inquietato e nell’insieme affascinato dall’idea di potermi trovare a gestire un qualsiasi tipo di rapporto professional-tutorale con un simile personaggio.

Ammesso che Charlie Brown sia d’accordo, anche se il fatto che sia un bambino lo costringe alla fine a soccombere. Sarebbe stato più complesso e ingestibile avere come demone del fallimento, non so, Darth Vader, Palpatine o Sauron, solo che loro non li associ al fallimento anche se poi alla fine perdono ma soltanto perché la lobby dei buoni ha deciso che deve essere così. Condividete se avete un lato oscuro!

Però delle volte in altri ambiti Charlie Brown vince lo stesso.

In Africa mi salverei in calcio d’Angola

Ovvero di come fui raggirato da svedesi e giapponesi e rapito da un angolano.

L’altro giorno ho ritrovato il mio tesserino di quando lavorai per il World Urban Forum VI* nel 2012.
*È una conferenza itinerante sullo sviluppo urbano sostenibile (3 anni fa fu a Napoli) organizzata da un’agenzia dell’ONU (UN-Habitat).

Furono 10 giorni (l’evento + i preparativi) molto interessanti.

Innanzitutto capimmo ben presto che noi volontari dell’ufficio stampa non servivamo a molto: scrivere comunicati si rivelò non essere compito nostro (il WUF aveva già un proprio canale ufficiale), la rassegna stampa era del tutto inutile perché non la guardava nessuno, l’assistenza ai giornalisti accreditati era un evento abbastanza raro (nessun giornale o canale tv inviò stabilmente i propri inviati, al massimo si recavano lì, scrivevano il ‘pezzo’ e andavano via). Cercammo comunque di renderci utili per non usurpare il gettone giornaliero che ci veniva corrisposto.

Un giorno ad esempio feci lo steward che accompagnava giornalisti e personalità, chiamate a partecipare ai dibattiti, per i 20 metri che separavano il cancello dei controlli dalla sala accrediti. Perché non si sa mai cosa può succedere in un tragitto così lungo e pericoloso: sequestri, attentati, arrivo delle ruspe di Salvini (che all’epoca si allenava con le macchinine, forse) e così via.

La nostra sede ufficiale era la sala stampa, vuota di giornalisti per i motivi già descritti, il che la rendeva semplicemente una sala wi-fi free. Noi volontari che stazionavamo lì venivamo scambiati per tecnici informatici. In realtà esisteva uno staff di volontari informatici, la cui sede era purtroppo 200 metri più avanti, in un altro padiglione. Una volta, dopo essere andato avanti e indietro per cercare di prenderne uno in prestito, fui rapito da uno spazientito inviato dell’Angola che mi prese sotto braccio e, indicando una sedia, mi fece capire “mettiti qui e risolvi questa cosa”.
Il problema in questione era che il suo notebook non si connetteva a internet pur inserendo correttamente la password. Mi salvai artigliando il mio responsabile e piazzandolo subdolamente al posto mio per salvarmi in corner.
Io ho un problema coi computer, ma non con tutti. Solo quelli degli altri. Ai miei apparecchi riesco a far fare tutto ciò che voglio, a costo di smadonnamenti e ricerche di tutorial online. Per il semplice motivo che se sbaglio qualcosa sono io il padrone dello strumento. L’ansia di causare un danno a una proprietà altrui mi porta a dire sempre “non ho idea di come si faccia. Hai provato a (soluzione banale, del tipo premi F5)…Ah già fatto? Allora non so”.

La zona più bella era il padiglione con gli stand degli Stati. Da quello dell’Angola ricevetti come gadget una maglietta, un cappellino e una penna. E pensare che non risolsi neanche il problema wi-fi del loro inviato.

Lo stand della Palestina distribuiva sciarpe con la bandiera palestinese e lasciava assaggiare pane con origano e olio di quella terra. La sciarpa fu da me indossata alla cerimonia di chiusura del WUF. Quando ebbi di fronte il capoccione di UN-Habitat che presiedeva l’evento e che strinse la mano a tutti noi volontari, notai in lui un’espressione di malcelato imbarazzo quando mi osservò.
Come quella volta nel 2003 che alla festa di 18 anni di una compagna di classe io e un mio amico ci presentammo conciati come due barboni: io felpa, pantaloni hip hop e catene, lui in piena fase Drugo Lebowski, mentre la festeggiata era abbigliata come alla comunione. Ma lei al telefono aveva detto “venite a prendere una fetta di torta, una cosa tranquilla”. Ho capito anni dopo che prendere una fetta di torta non vuol dire semplicemente presentarsi e prendere una fetta di torta.

Presso lo stand del Giappone era possibile far scrivere il proprio nome in katakana. Un’attività simpatica ma pressoché inutile, in quanto non esistendo in Giappone un corrispettivo dei nomi occidentali, la traduzione è una mera trascrizione fonetica. Essendo il giapponese una lingua sillabica, un nome come, ad esempio, Alessandro, diverrebbe Alesusanduro.
Io mi recai tre volte lì e da tre persone diverse ottenni 3 scritte diverse che variavano in base a come loro capivano l’accento sulla parola.

Lo stand della Svezia un giorno offrì un buffet. Ma non di prodotti tipici svedesi, ma di cose italiane. Peccato fosse tutto congelato: la pasta al forno era un blocco di ghiaccio, le mozzarelline erano dei ghiaccioli da sciogliere in bocca. Persino le olive erano surgelate. Ancora mi chiedo se fosse un richiamo al clima scandinavo o un errore culinario. O magari una burla.

Un gadget che ci autoregalammo fu una pennetta usb 32gb col logo dell’Onu, che non era riservata a noi ma ai partecipanti dell’evento. Dato che erano arrivate in sovrannumero, ritenemmo opportuno considerarle di nostra iniziativa un ricordino della manifestazione per noi volontari.

La mia la ebbi per poco, però. La cedetti a una anziana signora francese che batteva sulla tastiera soltanto con i pollici, avendole l’artrite compromesso le dita. Venne nella sala stampa per aggiornare il suo blog e inviare un ‘pezzo’ a non so chi. Doveva poi salvare l’articolo su pennetta, ma la sua smise di funzionare e quindi le diedi il mio gadget preso clandestinamente.

A un ricordino è meglio un ricordo.