Non è che fai fare il dottorato alla vigna per farla diventare DOC

Mi ricordo quando nel 2019 ci fu la protesta degli allevatori sardi una delle conseguenze nell’immediato, a parte il cittadino medio che realizzò che Ohibò, quindi agricoltori e allevatori all’origine guadagnano pochi spicci? Incredibile signora mia, fu una crisi nella produzione di Pecorino Romano. Alcune persone si sollevarono scandalizzate: ma come, il pecorino, non quello qualsiasi ma proprio il romano, non si fa con latte romano?


Della lupa, immagino.


Il problema è che spesso si confondono origine e produzione/distribuzione.

Chissà come ci rimarrebbero male nello scoprire che a Mazara non ci sono gamberi o che a Tropea cittadina non si coltivano cipolle.

Queste curiosità me ne fanno venire in mente una personale.

Padre mi ha ringraziato per ben due volte, prima tramite messaggio e poi di persona (un fatto raro, dato il suo esser parsimonioso con le esternazioni) per una bottiglia di Lacryma Christi che gli abbiamo portato.

In verità, noi non ricordiamo proprio di questa bottiglia. Non escludo potremmo averla portata diverso tempo fa, ma non sono del tutto convinto.

Però io e M. ricordiamo che la sera del 24 dicembre abbiamo portato una bottiglia di Müller-Thurgau. Non l’abbiamo poi aperta perché Padre aveva esposto sullo scrittoio tutta una serie di bianchi e alla fine abbiamo scelto di accompagnare la cena con un altro vino.

Il dubbio che mi viene è che, con tutta la serie di bottiglie che ha in cantina, abbia forse fatto confusione e questo Lacryma Christi sia stato da lui comprato tempo e non si ricorda.

Ora il dubbio è: chiarire l’equivoco sull’origine del vino? E se sì, a che scopo?

Ma soprattutto: avrà poi bevuto il Müller-Thurgau? Sarà vero che lo producono nella città di Müller-Thurgau, come il pomodoro Pachino e il pistacchio di Bronte?


Ovviamente sto scherzando. Sul vino.


 

Non è che serva un solvente per staccarti dal mondo

Oggi ho portato un po’ di spesa a una coppia di amici che sono in isolamento da fine agosto. Lui è risultato positivo, ha avuto giusto qualche linea di febbre, lei invece era negativa ma si è isolata con lui. Dovevano andare a vivere insieme non prima di ottobre – la casa non era del tutto arredata ancora – ma gli eventi hanno anticipato.

Ora dirò una cosa che va presa con pinze, guanti e mascherina e virgolette (anch’esse in maschera): un po’ li invidio.

Non ovviamente per il vivere l’ansia della malattia. Neanche per il fatto di vivere insieme. Ma per l’isolamento in sé.

Non dubito che si saranno rotti i coglioni e le ovaie in questi giorni. Se non altro a giudicare dalla quantità di bottiglie di vino e birra che hanno messo nella lista della spesa. O ci prendono per il naso e stanno organizzando mega-feste di nascosto o son diventati più bevitori di quanto ricordassi. Sono certo poi che, dopo un po’, se non cominci a fare pizze e torte inizi a sperimentare passatempi alternativi, tipo ascoltare una compilation di suoni di cani che si leccano.

Però lo staccarsi da tutto penso non sia così malvagio.

Sono sicuro che un no mask-negazionista direbbe che sono un altro schiavo che si farebbe iniettare i chip del 5G nella scia chimica e che vorrebbe venir rinchiuso dal complotto di Bill Gates.

Io invece chiedo: perché, il correre di qua e di là, le scadenze, le pressioni, il lavoro, il non lavoro, il traffico, il tempo, la mancanza di tempo, sarebbero invece la libertà?


Oh, beninteso, nessuno vorrebbe trovarsi costretto a stare chiuso in casa, questo l’abbiamo sperimentato tutti e speriamo di non ripeterlo. Né è bello essere costretti a non poter vedere nessuno*. Io mi riferisco soltanto – prendendo spunto dall’episodio – al godersi un diritto al distacco, al potersi prendere una pausa dal mondo.


* Che poi, anche su questo: in certi casi non vedere nessuno manco male fa.


 

Non è che ti compri una lampadina per avere un’illuminazione

Stasera mi trovavo a riflettere e condividere opinioni sulla condizione di difficoltà che vive il Mondo. Virus, crisi economica, conflitti, peli incarniti.

Guardavo il fondo di un bicchiere vuoto in attesa di un qualcosa che neanche io comprendevo.

Una guida, un faro, un gps, un’Alexa.

Un nuovo partito? No, è banale e troppo locale.

Poi ho ricevuto l’illuminazione.

La rivelazione si mesceva in me come il vino che prodigiosamente, per Grazia (la proprietaria dell’enoteca), colmava il calice. Su un tovagliolo ho trascritto le cose che ora vado a condividere di quello che è il vero e unico credo cui dovremo votarci per uscire dalla crisi.

Ho deciso di chiamarla Religione Pecorina, in omaggio al bianco Pecorino di cui mi son abbeverato.

I caratteri della Pecorina sono i seguenti:

– Esiste un’unica divinità. Ma ha migliaia di sessi: è parente alla lontana dello Schizophyllum commune, un fungo – fatto vero (come tutti quelli che scrivo qui, diamine!) che ha 23.328 “sessi” diversi. Può quindi accoppiarsi con altre migliaia di sessi. Ma essendo unico al mondo non fa mai sesso, se non a pagamento.

– Dalla verità di cui sopra deriva la sua non-binarietà. Si fa chiamare quindi Di*.

– Di* ha concesso agli umani due vite: se in entrambe ci si comporta bene, l’anima è salva. Se in entrambe ci si comporta male, è maledetta. Se in una ci si comporta bene e nell’altra male, si avrà a disposizione una vita supplementare (di durata ridotta) per definire il risultato. In caso di parità, si va ai calci di rigor mortis.

– Di* esiste ma solo nei giorni feriali e comunque raggiungibile solo dalle 8:30 alle 17:30.

– A Di* fa arrabbiare l’odore di ascella dei mezzi pubblici.

– A Di* piacciono i gatti ma anche i cagnoni gioconi simpaticoni.

– A domande quali: Ma perché esistono le malattie?, Ma perché ci sono le zanzare?, e altre simili, Di* risponde che è colpa dei governi precedenti.

– Di* è amore ma non sempre: delle volte solo sesso. Delle altre restiamo amici che è meglio.

– Di* non si arrabbia se non credi in lui e non ti giudicherà per questo. Però avrà un calo di autostima.

– Di* non fa miracoli. Però concede botte di culo per trovare parcheggio.

– A Di* non piace che lo stai a pregare. Piuttosto, mandagli un modulo con un elenco di richieste. Lo ignorerà, però è più pratico.

– Festeggia le festività che ti pare oppure non festeggiarle. Però comunque niente regali brutti o riciclati.

– Di* ti vede se commetti atti impuri. Ma non gliene frega niente. Al massimo si ecciterà.

Cosa aspettate? Convertitevi alla Pecorina!

Non è che ti serva una bottiglia per conservare il denaro liquido

I liquidi hanno la proprietà di assumere la forma del recipiente che li contiene.

Anche i gatti. Se ne avete conosciuto uno, lo avrete visto entrare in scatole, interstizi, cavità di qualsiasi formato e dimensione.

I gatti hanno capito che il senso della vita non è solido ma liquido.

La solidità è un inganno. La materia, che noi percepiamo solida, è in realtà fatta al 99% di vuoto.


Il raggio di un atomo, infatti, è 10.000 volte più grande del suo nucleo. Significa che tra il nucleo centrale e l’/gli elettrone/i che vi ruota/no intorno c’è un “enorme” (a livello subatomico) spazio vuoto.


Con queste premesse, io sono per ripensare alla nostra vita in forma più liquida.

Veniamo in parte da un liquido, che poi è un embrione immerso un altro liquido, per diventare un essere umano composto per la maggior parte da liquidi.

Dovremmo riuscire a catalizzare questa impronta liquida verso una liquidità anche caratteriale e comportamentale.

Adattarci. Senza cambiare essenza. I liquidi non mutano le loro caratteristiche. Il vino è sempre vino, a prescindere dal recipiente in cui lo versi.


Certo, il vino in un bicchiere di plastica fa un po’ senso. Mi sa di sangria a una festa di ventenni preparata col Tavernello e della frutta così matura che se la premi troppo esce del sidro.


Sovente, invece, le persone tendono a volersi cambiare o cercano di apparire diverse. Col risultato di ottenere l’infelicità propria (e anche quella altrui, direi).

Fatevi accogliere, invece, con la vostra liquidità in un vaso che vi contenga.

Basta che non sia un vaso da notte.

Non è che tu debba aprir la porta per fare un’uscita a vuoto

Negli ultimi tempi non ho molta voglia di uscire e fare cose, a meno che non si tratti di mangiare. La conversazione riempie la mente ma il cibo riempie molto meglio dice un antico proverbio ticinese.

Giacché però mi conosco e so che anche quando non ho voglia di far qualcosa poi la faccio e scopro di divertirmi, mi son fatto trascinare a una serata diversa dalle altre.

C’è questo tale che, in cambio di una cifra simbolica, apre le porte (e soprattutto la cantina) della propria villa per ospitare serate di musica e cibo da dita e degustazioni di vino.

La differenza tra il degustare e conciarsi di merda sta tutta nel modo in cui tieni il bicchiere in mano. Il risultato però è il medesimo: il giorno dopo non ricordi come ti abbiano riportato a casa.

A questi eventi si presenta molta gente strana.

Mentre parlavo con due amici, un tale ci si è seduto di fronte:

– È libera?
– Certo…
– Ma ci sono persone del posto, qui? Non ne ho ancora incontrata una…
– Non saprei…lei è autoctono?
– No no io vengo da (non capisco dove). Voi di dove siete?
– Io e lui (indico il mio amico) da Terra Stantìa. Lei (indico la mia amica) da Località-di-mare.
– Ah va be’ lei quindi è bagnata.

L’abbiamo ignorato mostrandogli il gelo emanato dalle nostre spalle.

Nel corso della serata è tornato più volte tra noi tentando di attaccar bottone ma ha avuto poco successo.

Conosco bene la paura di far una gaffe o un’uscita a vuoto, per fortuna ho un forte istinto di autoconservazione che mi porta a mordermi la lingua prima di dir cose irreparabili, sacrificando l’organo per un fine superiore, cioè mantenere la dignità.

È importante mantenere sempre la disinvoltura.

Mi sono presentato a uno che pensavo fosse il proprietario. Apriva bottiglie, mesceva vino, intratteneva persone.

Non era il proprietario ma un tizio che passava di lì. Ma sono stato disinvolto fingendomi una persona cordiale e socievole.

Una signora si è girata verso di me dicendo qualcosa mentre scendevo le scale. L’ho fissata con uno sguardo inquisitorio come a dire Chi sei e cosa vuoi?. Mi ha guardato quasi spaventata esclamando un ciao interrogativo. In realtà prima si stava rivolgendo alla sua amica dietro di me. Quando me ne sono accorto ho finto di aver sentito un rumore in un’altra stanza e sono scappato via. Sempre disinvolto.

Mentre ormai il vino cominciava a mietere le prime vittime, un tale con una camicia più brutta delle mie ci si è avvicinato battendo le mani – fuori tempo – e mimando mosse di danza, credo per invitarci a unirci a un ballo cui lui era l’unico partecipante perché tutte le persone erano a morire stravaccate da qualche parte.

L’ho ignorato fingendo di essermi ricordato di un mio commilitone durante la Prima Guerra Mondiale. Sempre con disinvoltura ma con un livello di difficoltà esponenzialmente aumentato dai gradi alcolici.

Siamo andati via dal luogo relativamente presto. Direi prima che la situazione si trasformasse in Eyes Wide Shut.

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Non è che la sarta ubriacona alzi il gomitolo

La maggior parte delle persone che frequento con regolarità potrei definirle conoscenti. Gli amici, dando a questa parola una connotazione restrittiva e profonda, sono in realtà pochissimi. Quanti ce ne starebbero sulle dita di una mano che ha tenuto troppo un petardo.

Quando però mi trovo a parlar a terzi delle persone con cui ho dei rapporti, tendo a semplificare dicendo sempre un mio amico, una mia amica. Pur sempre con un vago disagio perché mi sembra di abusare di una qualifica che non avrei diritto a prendermi in quanto io non faccio niente per espandere e coltivare amicizie.

Uno di questi amici che in realtà sono conoscenti ha un serio problema di alcolismo.

Da che io lo conosco è sempre stato eccessivo nel bere in alcune serate, ma credo ora abbia imboccato la via di un problema cronico da almeno due-tre anni. Ricordo che prima di partire per l’Ungheria lo incontrai una sera e mi offrì da bere del whisky che aveva in una fiaschetta d’argento dentro la giacca. Sul momento non vi diedi molto peso. Anzi rimasi ammirato dalla fiaschetta. Simile oggettistica d’antan incontra sempre la mia attenzione. Per un periodo sono andato in giro con un orologio a cipolla con tanto di catenella.

Soltanto che un orologio a cipolla non è proprio la stessa cosa di una scorta di alcool disponibile sempre e comunque con sé.

Ora non gira più con la fiaschetta. Però arriva agli appuntamenti che ha già bevuto mezzo litro di birra o di vino. Se non ha bevuto invece è taciturno e ombroso come un cavallo finché non beve.

Ha la capacità, se di capacità si può parlare, di non risentire degli effetti dell’ubriachezza. La quantità di alcool che stenderebbe sul pavimento in uno pseudo-coma un maschio adulto di 70 kg come me, su uno di 60 kg come lui ha l’effetto di una leggera euforia. Credo sia in quella fase in cui trae sazietà calorica giornaliera dall’alcool che manda giù. È in grado di non cibarsi per due giorni interi. Almeno 5 giorni a settimana esce per bere, tanto conosce molte persone quindi qualcuno di disponibile a turno lo trova.

C’è chi lo invita a cena a casa almeno una volta a settimana per assicurarsi che faccia un pasto decente. È poco utile se però lui si presenta con il vino e dopo porta via ciò che ne resta.

Ricordo quando presi la patente l’istruttore di scuola guida durante la mia prima pratica su strada mi disse una cosa.

Io ero salito in auto senza mai aver fatto una pratica seria. Pensavo che saper come funziona una macchina, come giocare con la frizione senza farla spegnere, sapere come funziona un controsterzo e avendo vinto fior di campionati di Formula 1 sulla PlayStation fosse sufficiente.


A 18 anni ero ancor più testardo e superbo e presuntuoso di adesso. Il metodo educativo nella mia famiglia in questi casi era Fa’ pure come credi e sbattici contro la testa.


Mi accorsi che non era proprio così, soprattutto con altre auto che ti vengono addosso. L’istruttore mi disse:

– Ora che prendi la patente, per i primi giorni non girare in macchina con gli amici. Sali con qualcuno che ci tiene veramente a te. Gli amici ti fanno fare stronzate, senti a me. Non ti fidare degli amici.

Tornando al mio conoscente, agli amici, i suoi intendo, che poi sarebbero anche i miei ma li chiamo conoscenti a parte una, non ho mai visto togliergli la bottiglia di mano. Né rifiutarsi di bere in sua compagnia, salvo poi fermarsi anzitempo perché ovviamente nessuno regge il confronto con lui, che continuerà fino a portarsi come al solito gli avanzi a casa.

Io, che amico suo non posso definirmi, questo tipo di affetto e attenzione non so dimostrarglielo. Quindi posso solo augurargli che una sera una volante lo colga in flagranza e gli faccia il culo a tocchi.

Sperando che gli sia d’aiuto.

Non è che il colmo dell’ornitologo sia avere la moglie che fa la civetta

Di quei mercatini natalizi ricordo che inseguivo l’odore di vino caldo e di saponi francesi. Confesso di avere un debole per i saponi molto profumati. Solo da usmare, però, e non per uso quotidiano, preferendo in quel caso fragranze più neutre. Ho un debole anche per odori di-vini, ma questo non debbo giustificarlo.

In questa foto di qualche giorno fa mi esibisco nel numero del bicchiere di vino che appare dal nulla.

Ci imbattemmo in uno stand di gioielleria artigianale varia e l’attenzione di entrambi cadde su delle spille colorate con fattezze da gufo. Alle donne non ho mai capito perché piacciano tanto i gufi. Ai tifosi di calcio invece no.

Tornai il mattino dopo, da solo, per acquistare quella spilla.

Non sono mai stato avvezzo ai regali, né a farli né a riceverli. In famiglia sono anni che nelle feste comandate non ce li scambiamo. Salvo poi celebrare i genetliaci con un pranzo fuori porta. Il che, dal mio punto di vista, è un’attività molto più gratificante, sia per il festeggiato che per i festeggianti.

Al contrario, quando ho attenzione particolare verso qualcuna tendo a far regali anche al di fuori di date precise. Soprattutto quando sono in viaggio, ho piacer nel portar con me al ritorno un segno tangibile del fatto che, dovunque io mi trovi, qualcosa lì sul posto mi ha fatto ricordare quella persona.

È un atteggiamento che può risultar forse eccessivo. A me viene spontaneo e naturale.

La spilla pensavo di tenerla da parte e aggiungerla al regalo di Natale, visto che mancava non molto. Al momento di congedarci – in mezzo a una nebbia che pareva David Copperfield e faceva scomparire un intero aeroporto – io non riuscii però a resistere e le consegnai il gufo. Quell’oggetto in fondo non era mio, aveva il suo nome sopra. Nel momento in cui lo avevo acquistato io ne ero solo il tramite incaricato per la consegna alla persona cui era destinata.

Forse il gufo, tempo dopo, mi gufò.

Abbiamo tutti una vocazione, ne son convinto. La mia sarebbe stata quella di fare il postino o il corriere. Avrei potuto soddisfare i miei bisogni di far consegne senza però lo stress di coinvolgimenti emotivi.

Non è che il boscaiolo sia un tipo depresso perché ha dei momenti di abbattimento

Approfittando della festività e della bella giornata, mercoledì sono tornato a passeggiare nel bosco dopo la disavventura con la cacciatora che avevo incontrato proprio da queste parti e che, molto scortese, se ne era andata da casa mia senza assaggiare la mia ricetta.

Mentre cercavo del muschio angioino per decorare il mio presepe napoletano, mi sono imbattuto in una boscaiola intenta ad affettare alberi.

Stavo per girare i tacchi e andarmene ma mentre retrocedevo ho pestato un rametto che ha fatto “crack”. E ho urtato un cacciatore bergamasco – non so cosa facesse da quelle parti – che ha sparato un colpo a vuoto che con suo sommo disappunto ha fatto scappare uno stormo di cinghiali starnazzanti cui stava puntando (si veda foto allegata); se ne è quindi andato via urlando cose indecifrabili ma di sicuro poco carine verso i miei antenati. Anche il suo cane credo mi stesse latrando contro qualche bestemmia.

Nonostante tutto questo casino, l’udito sensibile della boscaiola ha avvertito il suono del rametto spezzato, accorgendosi della mia presenza. Formidabile.

– Salve!
ha esclamato cordiale la boscaiola dopo avermi visto.
– Salve!
ho risposto cordiale dopo averla vista.

Come ogni boscaiola che si rispetti, indossava una camicia a quadri. Ho riconosciuto dei Monet e dei Renoir. Impressionante.

Era di fisico esile ma con invece due braccia enormi che sembravano le cosce di un rugbista. E su un braccio infatti aveva tatuata la bandiera neozelandese e la scritta GO ALL BLACKS mentre sull’altro c’era una vistosa impronta dei tacchetti di uno scarpino da gioco. Non ho fatto domande.

L’altra cosa che mi ha colpito in lei era il suo evidente zoccolo di cammello. Notando che lo fissavo, lei ha detto:

– È il mio portafortuna. C’è chi porta una zampa di coniglio, io ho uno zoccolo di cammello.

Mi è parso sensato. Ho fatto un po’ conversazione con lei, che mi ha raccontato di essere una terrapiattista e di abbattere alberi per liberare l’orizzonte in modo che così si possa vedere in modo evidente che la Terra è piatta. Inoltre, senza alberi non c’è niente da incendiare, con somma delusione per i criminali che appiccano incendi e notevole risparmio di risorse per combatterli. Una lodevole iniziativa, senza dubbio.

Me ne sarei andato via per conto mio ma lei si è autoinvitata a casa. Me l’ha chiesto in modo così gentile, avvicinando con delicatezza la sua ascia alla mia testa, che non ho potuto dir di no.


È assurdo che uno passi tutta la vita cercando di farsi accettare e poi alla fine si tira indietro al momento dell’accettazione.


Dato che le mie possibilità manducatorie sono sempre limitate, come al solito mi sono trovato a dover improvvisare un piatto con un po’ di fantasia. Ecco quindi la ricetta delle penne che ho servito alla boscaiola.

Ricetta penne alla boscaiola
Ingredienti: 
1 boscaiola, 1 penne (biro o a sfera a piacere), vari funghi porcili, vari chiodini non arrugginiti (se graditi), 1 trattoria lercia, 1 burro sensibile, 1 cipolla, 1 scalogna, 1 sfiga,  1 sale, 1 qualcosa di sadomaso, 1 acqua che bolle, 1 paura, 1 formaggio, 1 vino sfumato

1) Innanzitutto servirebbero dei funghi, freschi e puliti. Ma nella mia versione rivisitata ho usato quelli che avevo, sozzi e puzzolenti: erano dei funghi porcili. Prima che finiscano di andare a male, tagliuzzateli con rapidità: affrettateli. Per rendere la ricetta più gustosa, ho aggiunto anche dei chiodini che avevo in casa. È bastato pulire lo strato di ruggine superficiale e scartare quelli storti.

2) Preparate un trito di cipolla e scalogna. Io ho usato una punta di sfiga per insaporire meglio con quel suo retrogusto un po’ amaro.

3) In un tegame, fate sciogliere il burro con qualche parolina dolce. Non esagerate sennò si monta a neve.

4) Versate nel burro il trito.

5) Anche per questa ricetta per renderla più saporita servirebbe un po’ di pancetta. Ho cenato quindi per una settimana tutte le sere nella trattoria di Giggino l’Untone e ne ho messa su un bel po’.

6) Unite i funghi affrettati e i chiodini.

7) Salate. Aggiungete anche un po’ di pepe al tutto con qualche giochino erotico.

8) Servirebbe aggiungere del vino agli ingredienti nel tegame: io pensavo di averlo in casa ma non era così. L’effetto finale comunque l’ho raggiunto: il vino infatti è sfumato.

9) A parte preparate le penne calandole in una acqua che bolle quanto basta. Prima di calarle, assicuratevi di togliere dalle penne l’inchiostro. Potrete conservarlo e utilizzarlo la prossima volta per uno squisito risotto al nero di seppia fatto con nero di penna.

10) Quando la penna è ardente potete scolare. Versate le penne scolate nel tegame con il resto. Fate saltare dalla paura il tutto.

11) Impiattate fino a che non vi dicono “stop”: la quantità giusta è infatti Quando “basta”. Se volete, grattate il formaggio: se fa le fusa è ok.

Come vino di accompagnamento – per chi ce l’ha – suggerirei del bianco timido: con un complimento diventa rosso, per chi lo preferisce così.

Purtroppo anche la boscaiola si è stufata di attendere ed è andata via prima di gustare il mio piatto. Le donne di oggi veramente non sanno proprio più cosa sia la pazienza. Dopo avermi mostrato da vicino il suo zoccolo di cammello, anche costei ha preteso del sesso fatto in casa da me per poi congedarsi.

Un bellissimo zoccolo, va detto


Nessun cammello è stato realmente utilizzato per le finalità sessuali descritte in questo post.

Non è che per descrivere il Cenacolo parti con “Cena una volta…”

Prima di scrivere questo post ho riflettuto a lungo, per capire se realmente me la sentissi fino in fondo di condividere l’esperienza traumatica che ho vissuto.

Sono giunto alla conclusione che, forse, aprirmi e raccontare potrebbe aiutare altre persone a farsi coraggio e portare all’attenzione dell’opinione pubblica un tema così delicato.

La cena di Natale aziendale.

Ieri sera ho avuto la mia seconda cena natalizia con la Società di qui a Budapest.

L’anno scorso mi tediava un po’ l’idea di parteciparvi. Più che altro era dovuto alla mia avversione per i contesti sociali nuovi. Un po’ come portare un gatto in vacanza: la vivrà come un trauma.


Il primo giorno.
Dal secondo comincerà a farsi le unghie su ogni superficie raggiungibile dalle sue zampe.


Alla fine fu però una cena squisita – ancora sogno quel carpaccio di pescespada – e molto elegante. Non elegante come quelle di Berlusconi, s’intende.

Quest’anno, con la nuova direzione Tacchino&Castora, l’organizzazione era tutta a sorpresa.

Ci hanno portato, ignari della destinazione, camminando al freddo e al gelo, verso un edificio malmesso e chiuso da un immenso portone di ferro arrugginito.

Una ragazza ha aperto e ci ha condotti verso un seminterrato gelido e umido. Lì è stato chiaro che prima della cena ci sarebbe stato un gioco come aperitivo: il luogo trattavasi infatti di una escape room.

Il gioco sarebbe stato anche divertente, se non fosse che mi ritrovavo con la Castora in squadra. In quanto persona assetata di potere e protagonismo, non lasciava esaminare un enigma o una suppellettile della stanza senza che intervenisse a togliertelo dalle mani per dare ordini o dire la propria.

A un certo punto, esasperato, ho pensato di trastullarmi col mio pene e dirle “Vuoi sottrarmi anche questo?”, ma ho desistito perché sono un gentiluomo.


E perché faceva troppo freddo e non mi andava di far brutte figure.


Finito in qualche modo il gioco, è arrivata la seconda sorpresa: la cena si sarebbe tenuta lì dentro. Al freddo e al gelo in un seminterrato a grotta, per onorare la memoria del Sacro Bambino, probabilmente.

La terza sorpresa – e a questo punto eran già troppe – è stata che la cena consisteva in: tranci di pizza di Mamma Sophia.


E non era una gentile signora, la pizzeria si chiama Mamma Sophia. Non capisco perché il fake italiano all’estero debba essere sempre brandizzato “mamma”, “nonna”, “nonno”: e il cugino? E il cognato? Perché non ho mai visto una “Trattoria del cognato”? Cos’è questa discriminazione?


Queste sono le pizze della famosa “Mamma Sophia”:

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E qualcuno potrebbe dire “Mah! L’aspetto non sembra male!

No.

Questa non è pizza.

Questa è pizza:

La pizza di Gino Sorbillo

Una volta per tutte: cornicione alto e soffice, l’interno non deve essere croccante e la mozzarella non deve essere ridotta in particelle atomiche bruciacchiate.

Tra l’altro, provenendo dall’esterno dove c’erano -4°, la pizza è arrivata con un principio di assideramento.

Nessuno inoltre aveva pensato che S., la stagista presente nel mio ufficio, non può mangiare farinacei. La poverina è andata al supermercato a comprarsi insalata e tonno (non a sue spese, precisiamo).

La quarta sorpresa erano i regali. Bisognava scegliere un pacchetto a caso e io mi sono fiondato su uno dalla forma familiare: o erano due bottiglie di vino o le guglie di Notre Dame. Era vino.

La quinta sorpresa era che, una volta scartati tutti i regali, ce li saremmo giocati a dadi. 5 turni a disposizione e ognuno poteva scegliere chi sfidare per vincergli il regalo. Nel qual caso, gli avrebbe dato in cambio il proprio.

Per 4 volte di seguito sono stato sfidato dall’ex capo, che puntava al mio vino. Ingordo, in quanto dal suo pacchetto era uscita una bottiglia di crema di liquore irlandese con due bicchieri.

Dopo averlo battuto tre volte – e la terza con un sorprendente 11 contro il suo 10 -, alla quarta ho dovuto capitolare.

Stavo già beandomi comunque della crema di liquore, quando la Castora nell’ultimo turno ha deciso di sfidarmi. Ho perso e alla fine mi sono ritrovato con una candela profumata:

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Credo che a me sia andata peggio di tutti gli altri.
Perfino di B.B. (non Brigitte Bardot), che è tornata a casa con un asciugamanino con su ricamato “Mr”.

Insomma, una tovaglietta da culo pur se maschile può sempre tornare utile, io cosa faccio con una candela profumata?

La accendo mentre faccio un bagno di schiuma come una diva del cinema? Non posso, non ho la vasca da bagno.

La accendo durante una cena seduttiva?
Neanche.
Qui a Budapest mi troverei solo io e il mio notebook con un video di Sasha Grey che, poverina, non potrebbe annusare la fragranza e quindi sarebbe tutto sprecato.

La cena delle beffe non è finita qui.

Al termine abbiamo anche dovuto ripulire tutto.

Sono ancora sconvolto dall’accaduto, ma scrivere mi ha fatto sentire meglio.

Non è che se vai fuori porta devi sentirti uno zerbino

Quando mi hanno proposto una gita fuori Budapest ho accettato a scatola chiusa. Anche perché era previsto del vino, quindi occorreva conoscere altro? La risposta è sì, prima di accettare di passare un weekend con cinque uomini scorreggioni e privi di senso organizzativo.

La meta era Szekszárd, una delle tante città piene di consonanti inutili.
Difatti, molto semplicemente, si legge Secsard.
Che suona tanto come Sexhard, particolare che si rivelerà fondamentale.

In auto:
– Allora, ma alla fine sapete di preciso cosa andremo a vedere?
– No
– Come?
– Noi l’abbiamo scelta per il nome: appena saputo di Sexhard abbiamo detto “Bisogna andare!”
– Sul serio?
– Certo! Dai, stiamo andando a Sexhard!
Ho capito, mi stanno perculeggiando…stiamo al gioco

Invece parlavano sul serio.
Su sei persone, nessuno aveva ben chiaro cosa ci fosse in questo posto.

Szekszárd è questa:

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“Dai, carina!”
Ho sbagliato a scrivere.
Szekszárd è solo questa.

C’è più vita nelle foglie morte che nei suoi trentamila abitanti.
Che vivono tappati in casa probabilmente, visto che a qualunque ora del giorno per strada non c’è nessuno. I negozi durante la settimana chiudono alle 17:30. Il sabato alle 12:30.

Esistono due locali di “movida”, che si rubano i clienti a vicenda, visto che quando uno è pieno (per pieno intendo 50 persone) l’altro è vuoto.

L’ultimo turista si è estinto prima della Caduta del Muro, come testimonia questo cartello indicante un ufficio turistico (che non esiste più), rimasto a imperitura testimonianza dell’esistenza, in un’aurea epoca passata, di una vita turistica a Szekszárd:

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O forse è un fake di un cartello invecchiato ed è stato posto in epoca recente per inventare un passato che non è mai esistito.


In un sottoscala di uno dei palazzi sulla sinistra della piazza del paese c’è un pubettino.

Appena entrati, la giovane fauna maschile presente ci ha squadrati con occhiate inquisitorie, continuando a fissarci come in un film di Sergio Leone.

La giovane fauna maschile autoctona esteticamente si presenta più o meno simile a costoro:


Che sarebbero Spitty Cash – un ex fenomeno (da baraccone) di YouTube – e un suo sodale.


Tute adidas di acetato, occhi bovini, crani enormi – inversamente proporzionali all’encefalo – pompatissimi ma solo dal petto in su cosa che conferisce loro un aspetto da lampadina a bulbo.

Sono sicuro che voi lettori, dall’alto della vostra mentalità borghese eurocentrica e anche un po’ radical chic commenterete con un Ommiodio! sarcastico e denigratorio, ignorando che, come diceva Madre Teresa, Da che punto guardi il mondo tutto dipende.

Per la giovane fauna femminile locale, esemplari simili rappresentano l’ideale di maschio dominante e appetibile.

Szekszárd comunque è nota per due cose: il vino e l’oca. In piazza, poco più avanti, sotto un tendone c’era una festa dell’oca in cui era presente anche il vino, di pregevole qualità.

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L’analisi organolettica non lascia dubbi: è rosso

Il cibo era tutto a base del simpatico volatile: cosce d’oca, soufflé ripieni di oca, paté di fegato d’oca, lángos con pezzi di oca, dolcetti ripieni di fegato d’oca, forse anche i tavoli e le sedie erano di fegato d’oca.

Qualcuno degli autoctoni, come in tutte le feste di paese, ieri sera a un certo punto ha esagerato col vino, diventando molesto. La sicurezza, composta da due omaccioni bovini – probabilmente i padri dei sex symbol che frequentano il pub di cui sopra – lo ha preso di peso, portato fuori dal tendone e abbandonato svenuto su una panchina.

Nota: c’era nevischio e 2 gradi sottozero.
Non abbiamo avuto il coraggio di tornare la mattina dopo a controllare se fosse ancora vivo o fosse morto lì.

Oppure l’avranno usato come ingrediente per il paté di fegato: per strada non si vede anima viva e di oche non ne ho viste in campagna.

Che fine hanno fatto gli abitanti di Szekszárd?

Della vita dolce ormai breve tempo mi resta e spesso gemo per timore dell’Ade*

* Anacreonte.


Ieri se ne è andato il mio professore di latino e greco del liceo, a causa di un male incurabile.
Chi l’ha visto negli ultimi mesi dice che era ridotto in modo irriconoscibile e rassegnato all’inevitabile.

Mi resterà sempre impressa una frase che mi disse e che secondo me ancor oggi mi qualifica in pieno.

Bisognava decidere la data della gita di 5 giorni: combinazione voleva che quell’anno (2003) ci fossero delle vacanze lunghe ad Aprile causa aggancio della Pasqua con il ponte del 25 aprile. La possibilità che la gita si tenesse prima delle festività pasquali poteva significare circa 3 settimane di vacanza per quel mese.

Il Prof. venne in classe sostenendo invece che la gita si dovesse tenere durante le vacanze pasquali: chiese a noi di decidere, ventilando però l’ipotesi di minacce e ritorsioni in caso avessimo scelto la soluzione “3 settimane di vacanza”.

Alcuni quindi si lasciarono persuadere. Io, invece, che sapevo bene che anche lui non voleva fare un ceppa ma non poteva dirlo apertamente, mi alzai e dissi: Prof, io voto per andare in gita prima di Pasqua. Lo ammetto, mi fa comodo, ma preferisco essere coerente.

Lui mi guardò con il suo tipico sorriso sardonico, che sul suo volto caratterizzato da una pelle scurissima – in netto contrasto con il capello brizzolato e gli occhi blu – era sempre inquietante, e fece:
Gintokiammiro sempre la coerenza con cui difendi le stronzate.

Ecco, me la dovrei tatuare da qualche parte come monito e insegnamento.

Era il tipo che sapeva inquadrare una persona e capirla subito. Come se avesse lo scanner ottico dei Saiyan.

Per la cronaca, come era prevedibile, ad Aprile di quell’anno godemmo poi di 3 settimane di vacanza.

A una cena durante la gita ordinammo una bottiglia di vino e brindammo col Prof. alla faccia di Mirsilo: da poco avevamo studiato Alceo e impresso ci era rimasto il verso con cui il poeta di Mitilene festeggiava la morte del tiranno Mirsilo.


“Ora bisogna ubriacarsi e ciascuno beva a forza: perché Mirsilo è morto”.


Archiloco del quale tutti ricordiamo dei versi oscuri: che avrà voluto dire con “sfiorando la bionda peluria, emisi la bianca forza”?

È difficile da spiegare a chi legge, ma quando il Prof recitava qualche verso dei lirici greci, con la sua voce profonda e raschiante tipica di 40 anni (o anche più!) di Pall Mall, riusciva sempre a dar loro una carica di pathos e teatralità.

Non a caso lui era anche presidente del teatro pubblico campano (da ora p.t.p.c.) e con la scuola e gli studenti ha organizzato spettacoli che ha portato in giro in tutta Italia.

In virtù dei suoi impegni, come vicepreside, come p.t.p.c. e come altro non so cosa, in classe ci entrava di rado e per un tempo ridotto. Inoltre, quando al mattino fuori la scuola lo vedevamo entrare nell’edificio con giacca e cravatta, capivamo che non sarebbe venuto a far lezione.

Quando era in classe, inoltre, non era mai una lezione convenzionale. Per cominciare, un buon quarto d’ora si perdeva in cazzeggio, in cui ci prendeva per il culo o raccontava aneddoti scolastici su questo studente o quel docente. I libri sono stati aperti di rado. Alcuni li ho comprati e riposti e mai più toccati. Amava impostare una lezione discorsiva, improntata sul ragionamento: più che liceale, era una lezione universitaria.

Com’è come non è, le cose che lui ha spiegato le ricordo ancor oggi a 12 anni di distanza. A volte mi chiedo perché la scuola non sia tutta così e perché debba ridursi a mero un travaso di nozioni da un libro di testo a una testa vuota, col risultato che il giorno dopo un’interrogazione lo zuccone ha già dimenticato tutto.

Io lui comunque lo odiavo. Ne avevo stima e profondo rispetto, ma lo odiavo. Lo odiavo perché in alcuni periodi mi eligeva a vittima sacrificale per fare lezione: mi chiamava alla cattedra, faceva domande molto complicate, poi si metteva a ragionare e spiegare.

Una volta invece mi chiamò giusto perché doveva in modo sadico tormentare qualcuno. Dovette accorrere dalla vicepresidenza perché, senza nessuno in aula, noi ci eravamo lasciati andare a eccessive turbolenze. Nero in volto, ancor più nero del solito tanto che sembrava il tizio di CSI Las Vegas con gli occhi azzurri, decise per punizione di sparare nel mucchio. Punirne uno per educarne 22.

Si piazzò in fondo all’aula dando le spalle alla finestra e alla luce, col risultato di essere in penombra. Era una nera figura.

Primo colpo:
V., vieni.
L’avevo scampata. Ero il soldato Ryan, sarei sopravvissuto all’imboscata.
Lei: Professore, vengo la prossima volta.
Bene V., 2.

Maledetta stronza. In quel momento le ho augurato un’infezione di clamidia orofaringea. Poteva andare al patibolo e in qualche modo scamparla, visto che prendeva sempre 7 e 8. Poteva salvarci tutti, invece no!

Secondo colpo:
Gintoki, vuoi venire?.
Ovviamente la fortuna ti grazia una volta sola.
Io: Certo.
Ostentavo sicumera. In fondo avevo studiato. E sarei stato l’eroe che avrebbe salvato tutti.

Presi la sedia per accostarmi alla cattedra.

Chi ti ha detto di prendere la sedia?
Pensavo…
Hai pensato male.

Cominciò a incalzarmi di domande. Io rispondevo, mi barcamenavo.

Lui: Smettila di gesticolare. E non presentarti mai più con quelle cose sulle braccia.


Ai tempi – ancor oggi in verità ma un po’ di meno – mentre parlavo avevo l’abitudine di muovere le braccia peggio di Alberto Angela.
E poi all’epoca andavo in giro con delle catene intorno al braccio.


Poi cominciai a incartarmi su me stesso. Picconata su picconata mi demoliva pezzo per pezzo. A un certo punto diedi una risposta che era giusta  ma forse l’avevo detta in modo contorto.

Lui, gelido: Non ho capito.
Poi aggiunse, rivolto alla prima della classe: A., tu hai capito che intendeva?

Lei mi guardò e fece: n-no

Stronza. Stronzissima. Raddrizzatrice di Pisistrati. Etéra del ditirambo.
Tu hai capito, perché tu la risposta la sai, la sai sempre. Potevi giungermi in soccorso, invece per sfilarti dai guai mi hai lasciato in mezzo al maelstrom. Scommetto se fosse stato qualcuno dei tuoi amici saresti salita in cattedra, invece dato che ero un Gintoki qualsiasi, da te disprezzato, mi hai lasciato così.

Rimpiansi di non averle detto qualcosa di offensivo in quel momento, ma ero ormai paralizzato dal terrore.

Stavamo ragionando sulla battaglia di Anfipoli e sulle circostanze che portarono al fallimento di Tucidide – allora stratego della flotta ateniese – e che gli costarono l’esilio. Quando volle sapere quale fu l’errore tattico dello storico/militare, balbettai qualcosa e lui disse, accompagnando le parole con un gesto che sembrava quello di un arbitro che espelle un calciatore: Vatti a sedere.

Andai al mio posto e diedi un pugno sul banco che mi fece volar via l’orologio.

Quell’episodio entrò a far parte degli aneddoti. Ogni tanto mi pigliava per il culo, mi chiedeva se volessi dare qualche pugno alla cattedra oppure se il muro di fianco a me fosse al riparo dalla mia ira.

Era una di quelle persone che vale la pena di incontrare nella vita. Se è vero che siamo la somma delle nostre esperienze, lui era un’esperienza formativa necessaria. Madre, finito il liceo, ogni tanto mi diceva: Tu hai passato troppo poco tempo con lui!.

Già. Troppo poco tempo.

Questa storia dell’olio ha rotto le palme

Sottotitolo: la Cina è in cucina.

Mio nonno diceva sempre che bisogna scegliersi le proprie battaglie.
Non è vero, non me l’ha mai detto, ma avrebbe potuto farlo mentre mi insegnava a fare il vino o le conserve di pomodori.

Oggigiorno il mondo sembra impegnato in tante battaglie. Uno dei nemici odierni che ho scoperto recentemente, più dannoso del Da’ish*, più infestante della cellulite e più noioso di un comizio elettorale, a quanto pare è l’olio di palma.
* acronimo di al-Dawla al-Islāmiyya fī al-ʿIrāq wa l-Shām, Stato Islamico di Iraq e Grande Siria.

A prescindere da come la si pensi in merito, credo che al giorno d’oggi se si vuol esser certi di cosa si stia consumando bisognerebbe ritirarsi in un rettangolo di terra con un paio di animali e un orticello.

Ci ripensavo quando sono entrato l’altro giorno in un negozio bio e ne sono uscito bestemmiando contro bio per i prezzi da gioielleria che ci sono all’interno. La qualità si paga così come si paga la quantità di lavoro che c’è in quel prodotto, certamente. Ma se volessimo essere tutti bio ci vorrebbero stipendi da ingegneri (ingegneri non italiani perché ho visto ingegneri qui lavorare gratis o a 1000 euro al mese). Quindi tocca accontentarsi delle confetture industriali che costano meno e che sull’etichetta scrivono “con vera frutta!” come se fosse un valore aggiunto**
** Il che apre considerazioni inquietanti: sulle altre c’è della finta frutta? Mi ricorda quando comprai uno yogurt Muller. “Alla ciliegia” era scritto sulla confezione. Poi leggo l’etichetta e c’era scritto “con 33% di frutta (di cui 39% ciliegie)”. E quindi il 39% di ciliegia su un 33% di frutta (ripeto, non il 39% sul 100% di prodotto, ma il 39% del 33!) ne farebbe uno yogurt “alla ciliegia”? Più che fate l’amore con il sapore, è fate sesso con gli sconosciuti.

D’altro canto ammesso e non concesso che i costi fossero accessibili, mi chiedo se di prodotti naturali e non industriali ce ne sarebbe abbastanza per tutti. Mi piacerebbe, ad esempio, che il resto d’Italia sapesse quanto è buona una Margherita col pomodoro datterino giallo***, ma credo che se tutta Italia volesse pizze col datterino giallo neanche se ci limitassimo a un pomodoro a testa ciascuno la produzione basterebbe a soddisfare la richiesta.
*** chiamato anche Lemon Plum, è una varietà di pomodoro dal colore giallo ambrato-arancio coltivata secoli fa e che si riteneva scomparsa.

A proposito di pomodori, a Casa Romana sono arrivate due cinesi. Una è una vecchia amica di Coinquilino, insegnante di canto, che accompagna la sua discepola, futuro astro nascente della lirica del celeste impero che è a Roma per perfezionarsi. A quanto pare Astro Nascente resterà a lungo qui, anche se non so quanto.

Ebbene, Maestra e Astro Nascente hanno portato con sé in valigia due barattoli di salsa di pomodori cinesi. Forse pensavano di non trovarne in Italia?

E voi, mangereste pomodori cinesi?****
Io no per diversi motivi, ma forse sono vittima di luoghi comuni.
****Magari ne ho/avete già mangiati a mia/vostra insaputa in un ristorante italiano o in una pizzeria.

È un luogo comune quello che mi faceva ritenere le cinesi tutte graciline e piccoline. Poi ho visto Astro Nascente e mi son reso conto che al confronto sembro io il cinese. I cinesi stanno crescendo.

Io non sono così piccolo, anzi, fossi cresciuto una-due generazioni fa sarei probabilmente stato considerato alto.

Il problema delle generazioni odierne è che sono grosse, troppo. Mi hanno detto che per colpa loro hanno anche ridefinito le taglie delle scarpe. Non so se sia vero, ma fino a una decina d’anni fa io compravo sneakers numero 44/45. Poi un giorno provandolo in negozio il 45 ha cominciato a farmi l’effetto delle scarpe di Pippo. Oggi porto 43.

Dev’essere colpa di tutti gli ormoni che hanno assunto col cibo. Io ricordo alle scuole medie le mie compagne erano piatte, a parte due-tre sviluppate e una che invece era veramente molto avanti. Quest’ultima aveva anche una cotta per me, pare, ma a 12 anni purtroppo pensavo al fantacalcio e non alle fantatette.

È impossibile controllare ciò che assumiamo, ergo, e ciò apre delle questioni: un mio futuro figlio nascerà già dotato di baffi e fluente barba? Se sì, esistono camicie a quadri per neonati? È un problema notevole, qualcuno dovrebbe interessarsene.