Non è che sui moduli alla voce ‘sesso’ tu scriva “No, io cerco amore”

Qualche tempo, con il supporto di ysingrinus, scrissi una lettera indirizzata a Valentina Nappi. Nella missiva si chiedeva alla professionista dell’intrattenimento sessuale di aiutare un giovane smarrito ad avere una prestazione deludente e fallimentare.

La lettera, purtroppo, rimase senza risposta.

Sapevo che comunque quella non sarebbe stata la soluzione ai miei problemi.

Il mio desiderio di fallire e deludere nasce da un disagio personale più profondo, causato dalla perdita della verginità dovuta a pratiche sconsiderate e all’utilizzo di strumenti non adatti a un giovane. La frustrazione mi porta a punirmi con coiti deludenti ma il piacere della delusione che via via ne traggo è sempre minore. Anzi, mi sembra di non riuscire più a fallire nell’accoppiamento.

Questa estate sono andato quindi da un androropata. Mi ha detto che ormai soffro di assuefazione alla deludenza. Il luminare mi ha però prospettato una soluzione: tornare vergine. La medicina moderna può infatti compiere questo miracolo.

Le strade possibili sono due. La prima prevede un cambio di sesso: il passaggio, infatti, azzera tutto e permettere di recuperare la verginità.


Anche se tecnicamente non si tratta di un ‘recupero’ essendo la verginità natia perduta per sempre; sarebbe più corretto parlare di ‘nuova partenza’ della verginità. Nel gergo colloquiale se ne parla come di un recupero ma la definizione resta impropria.


Volendo restare comunque maschio non è necessario fare altro che cambiare sesso (m->f) e poi ricambiarlo (f->m). Il doppio cambio permette di emendarsi doppiamente dai peccati carnali.

Gli interventi e la successiva riabilitazione richiedono molto tempo (almeno un paio di anni) e danaro (almeno alcune manciate).

La seconda strada, invece, è molto più semplice. Consiste nella rimozione del pene e la sua sostituzione con un altro, purché vergine, di qualsiasi tipo, umano, animale o vegetale.

A sentire questa possibilità la mia fantasia si era già accesa, ma il medico, intuendo forse i miei pensieri, ha all’istante smorzato il mio entusiasmo: «Ovviamente – ha sentenziato – il membro impiantato deve essere compatibile con le caratteristiche fisiche del soggetto ricevente onde evitare all’organismo uno stress e una sollecitazione muscolare non sostenibili a lungo». In parole povere, la mia debole costituzione mi impediva di essere compatibile con donatori equini.

Dopo averci pensato all’incirca un po’ e tre quarti, su suggerimento dell’androropata ho fatto la mia scelta: avrei avuto un pene di anatra.

Per chi non lo sapesse, le anatre hanno un organo particolare, arzigogolato come un cavatappi (articolo di approfondimento). Non credo di sbagliare se dico che l’idea per il tirabusciò sia venuta a qualcuno che deve aver visto un’anatra in azione.

Quando non serve, il membro è comodamente ripiegato all’interno del corpo. In un umano questo eviterebbe la scomodità di portarselo in giro, senza contare il potersi muovere in pubblico privo dell’ansia di compiere atti osceni in caso di caduta dei pantaloni. Anzi, avrei anche potuto pensare di andare in giro nudo: chi avrebbe potuto dirmi di destare scandalo se l’oggetto dello scandalo non c’è?

Le mie capacità natatorie sarebbero migliorate di molto, in termini di velocità e scivolamento nell’acqua, senza le turbolenze create dall’organo tra le gambe.

Infine, il pene d’anatra ha notevoli capacità elastiche e di allungamento, cosa che mi avrebbe garantito coiti più efficaci e soddisfacenti. A quest’ultimo aspetto non ero interessato, ma, secondo il medico, una volta liberato dall’istinto di autopunizione per la perdita della verginità avrei cercato di perderla nuovamente, stavolta in modo più accorto e razionale. Il pene d’anatra con la sua natura a elica avrebbe aiutato nel mio processo di accettazione dell’accoppiamento non vergine.


L’elica è il fondamento stesso della vita: il dna, come tutti sanno, ha una struttura simile. L’emissione di seme non è altro che una diffusione di dna e quindi di eliche: recenti studi dimostrano che una visione costante e progressiva dell’elica stimolerebbe tali emissioni perché attiverebbe degli ancestrali nervi para-simpatici.

 


Così ad agosto mi sono operato, a Reykjavík. Posso finalmente ora confessare che il motivo del mio viaggio in Islanda era per sottopormi all’intervento, visto che lì vive uno dei più grandi verginologi in circolazione, specializzato in xenotrapianti di pene: il Professor Gaudenzio Eiðurssön. Inoltre, lì vive e nidifica la Bucephala islandica, l’anatra più compatibile con gli esseri umani rispetto a tutti gli altri Anatidi.

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Un nido di Bucephala islandica che ho fortunosamente immortalato

Dopo mesi di riabilitazione, drenaggi e terapie di supporto, posso finalmente dire che tutto è andato bene e raccontare la mia soddisfazione per la riuscita completa dell’intervento.

Adesso, infatti, lavoro in un ristorante stellato come apribottiglie di vino.

Il dizionario delle cose perdute – L’Atari


In questa pagina c’è il dizionario in costruzione. Se volete suggerire elementi nostalgici o, anzi, se volete scrivere voi stessi un articolo su una cosa “perduta” per arricchire il dizionario, fatevi avanti (col corpo) e indietro (con la mente)!


L’Atari ha tolto la verginità videoludica a molti futuri videogiocatori. Io non ho fatto eccezione.

Una precisazione è doverosa: io, come molti altri, non ho avuto un vero Atari ma uno dei tanti cloni dell’Atari 2600 messi in commercio a partire dalla metà degli anni ’80. Il mio, oltre a funzionare con le cartucce originali Atari, aveva una ROM all’interno con preinstallati un centinaio di titoli.

Il suo aspetto era quello della foto qui sotto:

Playstation…I am your father!

Sembra uscito da Guerre Stellari ep. IV. La linea squadrata, marziale e total black di questo scatolone di plastica deve essere stata progettata da Darth Vader.

Lo scatolone era completamente vuoto: c’era all’interno solo questo circuito stampato largo più o meno quanto la striscia grigia, mentre tutto il resto dell’armatura non conteneva nulla.

Il joystick era legnoso e anchilosato e dalla scarsa longevità: dopo un po’ i contatti interni (delle lamine di alluminio che a seconda di dove veniva spostata la cloche facevano contatto inviando il segnale alla CPU) si danneggiarono irrimediabilmente e dopo un primo tentativo da parte di mio padre di ripristinarli con il saldatore, si decise di sostituirli con altri joystick comprati in un negozio di elettronica che da anni ha chiuso i battenti, sopraffatto dalla grande distribuzione organizzata.

Ricordo ancora quando acquistai il clone una 20ina di anni fa. L’ipermercato dove i miei genitori andavano a fare la consueta spesa del sabato un giorno all’ingresso espose questa montagna di console in vendita a 34900 lire. La gente ne faceva incetta.


Oggi quell’ipermercato non esiste più. All’epoca faceva parte di una catena italiana, poi fu rilevato da Carrefour. Quando il colosso francese aprì un nuovo punto vendita in un nuovo, enorme, centro commerciale costruito poco lontano negli anni ‘2000, cedette l’ipermercato, che passò al gruppo SPAR. La crisi si abbatté sull’attività, la direzione decise di chiudere, licenziò lavoratori e mise in cassa integrazione gli altri. Attualmente è ancora chiuso. Di una vasta area che negli anni ’90 comprendeva l’ipermercato, una galleria commerciale, un grande punto vendita Brico e un Mercatone Uno, oggi rimangono solo strutture abbandonate che il tempo sta consumando.


Io e mio padre restammo lì a guardare chiedendoci se fosse possibile che costasse realmente 34900 lire e, dopo essercene accertati, lo prendemmo.

Il principio di funzionamento era molto semplice: lo scatolone si collegava alla tv tramite il cavo dell’antenna e uno switcher (lo scatolino antenna<->game nella foto) avrebbe bypassato il segnale. Era però necessario trovare il canale sul quale il segnale della console si sarebbe agganciato e questa cosa, all’inizio, fu fonte di molte invocazioni al dio Anubi da parte di mio padre.

I 128 giochi precaricati non erano selezionabili autonomamente: bisognava far partire la ricerca sequenziale (spostando una delle levette sulla console) che faceva scorrere tutti i giochi, che in genere rimanevano sullo schermo un paio di secondi. Dovevi essere lesto a bloccare la ricerca nel momento in cui compariva il gioco che cercavi. Se sbagliavi il tempismo, dovevi ricominciare da capo. Era un gioco nel gioco: delle volte ho dovuto farlo per quattro volte consecutive prima di riuscire a bloccare la leva su ciò che volevo.

Le cartucce le compravo al prezzo di 9000 lire da un Tutto a 1000 lire sul corso principale della mia città. Era uno dei primi negozi di questo tipo che vidi comparire e quando aprì vi entrammo curiosi di scoprire se tutto fosse realmente in vendita a 1000 lire. La risposta era, ovviamente: NO.

Non so per quale mistero quel negozio avesse delle cartucce originali Atari. Non erano molte, e le teneva in un cestone di vimini come quello che si usa a Natale per i pacchi dono. Ogni 3-4 mesi compariva qualche titolo nuovo al suo interno. Il fatto che rimanessero lì nel cestone i titoli che scartavo mi lasciava pensare che io fossi l’unico acquirente in tutta la città.


È inutile precisare che anche quel negozio non esiste più.


La vita del mio clone si spense per ben due volte: avevo un amico distratto (lo stesso che giocava con me a Subbuteo), che inciampava sempre nel cavo di alimentazione. Un giorno lo strattone fu talmente forte che il jack dell’alimentatore staccò un piccolo tondino di alluminio dall’ingresso della console. Non essendoci più contatto elettrico, non funzionò più.

Padre riuscì a sistemarla con un lavoro certosino di nastro adesivo. Nonostante altri inciampi, da parte dello stesso amico e anche di altri, resistette lo stesso. Molti amici, nonostante fossero in possesso di computer performanti (per l’epoca) e in grado di supportare videogiochi ben più evoluti (quelli dell’Atari erano vecchi di 10-15 anni), subivano il fascino di quello scatolone nero.

Mandai in pensione la console quando la sostituii con un clone del Nintendo 8 bit.

Ironia della sorte, negli anni ’80 era stata proprio la Nintendo la principale avversaria di Atari, con vari scontri d’affari, battaglie di mercato, tentativi di collaborazione non portati a termine che alla fine videro sempre soccombere la Atari nei confronti del colosso nipponico. Dopo varie vicissitudini, acquisizioni da parte di altre società, ridimensionamenti e ripetute crisi, nel 2013 la divisione statunitense Atari ha dichiarato ufficialmente bancarotta.

La leggenda della sepoltura nel deserto – La Atari si è resa protagonista di quella che per molti anni è stata ritenuta una leggenda metropolitana: la sepoltura di migliaia e migliaia di cartucce di giochi invenduti nel deserto del New Mexico.

Tra i giochi sepolti, il quantitativo principale era costituito da quello che è stato considerato come il più brutto videogioco mai creato dall’uomo: ET l’extraterrestre (ironico che sia finito occultato proprio nel New Mexico, lo stesso deserto dove si raccontava che fosse precipitato un UFO con degli alieni all’interno), di cui allego un video del gameplay:

Il gioco andava avanti così all’infinito: non succedeva nulla, non si capiva cosa dovesse succedere e non si sapeva come farlo succedere.

Le cartucce invendute o ritirare dal mercato giacevano nei magazzini Atari: dato che ciò per un’azienda comporta un costo, dai vertici ritennero opportuno che la soluzione più economica fosse smaltirle seppellendole in una discarica.

Per anni si è pensato che questa fosse solo una diceria, finché nel 2014 sono state realmente rinvenute le cartucce sepolte:

A differenza di altre cose perdute, i videogiochi di un tempo hanno ancora il loro pubblico di estimatori e il retrogaming, appunto la passione per i giochi old style, è molto popolare su internet. Esistono diversi siti che permettono di giocare online ai vecchi giochi Atari. Archive.org ha messo a disposizione una vasta libreria di titoli.