Il dizionario delle cose perdute – La carta telefonica


Le precedenti voci sono disponibili qui.
Ricordo sempre che il dizionario è  aperto a suggerimenti su cose nostalgiche o proposte di articoli su questo tema :).


Tra le cose inerenti al tempo che passa che più mi inquietano, dopo i calciatori con cui sei cresciuto che oggi vedi fare gli allenatori (come una volta in un post ricordò Zeus), c’è il fatto che esistono giovani in giro che non hanno mai utilizzato una cabina telefonica. Se oggi Superman nascesse, dove andrebbe a cambiarsi?

Io ricordo anche quando si usava il gettone. Quel dischetto bronzeo (ma che dopo averlo utilizzato un paio di volte diventava nero perché i telefoni pubblici erano sempre sudici come una officina meccanica) rigato che Madre mi faceva inserire dopo avermi preso in braccio.


Faceva la stessa cosa per la 10 lire dell’ascensore. Io ero l’addetto all’inserimento gettoni, un compito di grande responsabilità.


Ciò che ricordo meglio sono comunque le schede telefoniche. Il motivo è legato al collezionismo.

Da piccolo ho sempre avuto il pallino di voler iniziare una collezione di un qualcosa. Iniziai con i tappi di sughero, per poi passare a quelli di alluminio. Una collezione priva di valore che finiva dopo poco tempo nella spazzatura a causa delle frequenti operazioni di pulizia etica (secondo lei era moralmente disdicevole raccogliere tappi) di Madre.

Altre collezioni furono da me abbandonate perché non avevo costanza di seguirle.

Poi un giorno mi capitò tra le mani una scheda telefonica.
Ero in seconda media. Un compagno per disfarsi del doppione mi regalò una scheda raffigurante sulla facciata una pubblicità progresso che invitava all’uso del preservativo.

scheda_progresso

Questa pubblicità era molto nota in classe e generava sempre qualche battutina, qualche sorrisino, qualche stupida gomitatina di malizioso umorismo. C’è da capirlo. Non era prevista educazione sessuale a scuola.


Forse è un bene non fare educazione sessuale nelle scuole. Poi si sa che bambini e ragazzini vanno a casa a raccontare ciò che hanno ascoltato e i genitori si allarmano. Dio sa quanto siano vulnerabili e impressionabili gli adulti, abbiamo il dovere di proteggerli da tutto ciò che può turbarli.


Decisi quindi che avrei collezionato schede telefoniche e mi chiesi come mai non ci avessi pensato prima.

Divenni in breve tempo una piaga. Mi appostavo come un’arpia vicino chiunque utilizzava un telefono pubblico per chiedergli se la scheda fosse esaurita e se fosse così gentile da donarmela. Io ero un cacciatore solitario di carte. Esisteva poi chi andava a caccia in branchi per poter controllare più telefoni. Troppo facile in questo modo. La natura di un uomo si vede quando è da solo alla prese con la propria preda.

Quale era il mio disappunto quando mi sentivo rispondere “Le colleziono anche io/Le colleziona mio figlio”. Tuo figlio è così pigro da aspettare a casa comodo la scheda esaurita invece di stressarti per averla? Non merita niente.

La mia raccolta non aveva comunque molto valore. La maggior parte delle mie carte superava le centinaia di migliaia di copie come tiratura. Giusto un paio erano le più rare, ma andiamo sempre nell’ordine del migliaio di esemplari.

Il rituale del ce l’ho ce l’ho mi manca, territorio assoluto del mondo delle figurine, invase anche queste schedine di plastica.

Con i doppioni delle schede ci si poteva poi creare un giochino interessante. Non so come si chiamasse ufficialmente, se mai avesse avuto un nome: era, in modo onomatopeico, un clic-clac. In pratica la scheda veniva ripiegata su sé stessa fino a creare una scatolina con una protuberanza che, se pigiata, faceva clic-clac. Utilità: nessuna. A parte quella di rompere le palle agli altri.

Non so chi l’avesse inventato e mi ha dato da pensare il fatto che, in un periodo in cui il termine virale era ancora quasi esclusivo appannaggio delle malattie e non della condivisione di minchiate social, fosse un giochino diffuso da Nord a Sud del Paese. Mi sono sempre chiesto se, spontaneamente, l’idea del clic-clac fosse venuta indipendentemente a ragazzi sparsi lungo la penisola o se qualcuno avesse avuto l’idea e l’avesse poi diffusa proprio come un virus.

Il boom – Ben presto il collezionismo divenne un vero e proprio affare. In vendita in cartoleria arrivarono raccoglitori ad anelli fatti apposta per conservare le schede, con i fogli trasparenti con le taschine apposite. La De Agostini nel 1999 produsse una raccolta intitolata “Carte telefoniche”, con schede provenienti da tutto il mondo. Mentre le nostre avevano la banda magnetica, altre funzionavano col chip, altre ancora, come quelle giapponesi della NTT (Nippon Telegraph and Telephone), non avevano nulla di tutto ciò perché loro (i giapponesi) devono essere sempre un passo avanti.

Ovviamente io acquistai tale raccolta. Dovrei ancora averla conservata da qualche parte.

I negozi di filatelia si specializzarono anche in schede. Il mio spacciatore di fiducia era il proprietario di un negozio di monete e francobolli. Si chiamava Filippo, un uomo dall’aria placida e tranquilla con un paio di folti baffoni che gli donavano un aspetto ancor più placido e tranquillo. Era molto amico di mia zia perché anni addietro lei gli aveva salvato moglie e figlio durante il parto. Così, quando andavo nel suo negozio lui mi dava delle schede per pochi spiccioli o niente. Tanto prendevo sempre pezzi poco rari, come avevo accennato: quando mi resi conto che fosse impossibile mettere su una collezione di valore, scelsi infatti di puntare sull’estetica. Mi limitavo a raccogliere schede graficamente attraenti.

Mi ha detto mio cugino – Sulle schede fiorirono anche delle vere e proprie leggende metropolitane, legate alla possibilità di poterle riutilizzare anche una volta che il credito fosse esaurito. C’era chi diceva bastasse mettere del nastro adesivo sulla banda magnetica (tentativo che feci anche io dietro consiglio di un amico), chi le lasciava una notte nel congelatore. La tecnica più nota era quella di strusciarla contro lo schermo di un televisore che era stato spento da poco.

Percentuali di funzionamento: 0%. Ma c’era chi giurava di aver sentito dire che un tale gli aveva detto che aveva visto che funzionava.

Con il boom dei telefoni cellulari le schede telefoniche a inizio anno 2000 diventarono via via sempre meno utili. Contemporaneamente, la Telecom iniziò la sostituzione dei tradizionali telefoni pubblici Rotor (in funzione dalla seconda metà degli anni ’80), gli scatoloni arancioni con la cassettina di fianco con il lettore di schede.

Dal 2002 entrarono in funzione i Digito, ancora oggi in circolazione. Furono predisposti per l’utilizzo dell’euro e con nuovi optionals quali l’invio di sms, fax ed email.

Inutile dire che fossero meglio i primi. A partire dal nome: Rotor rende l’idea di lavoro, movimento, operosità. Digito sa invece di bimbominchia. Ehi ciao da dv dgt?. Per non parlare della forma da suppostone racchiuso in un blister di alluminio.

Con il declino del loro uso, le carte oggigiorno sono più affare da collezionisti. Ne esistono molti che vanno in cerca di introvabili pezzi degli anni ’90, ricerca difficile in quanto trovare esemplari in buone condizioni e con magari la banda magnetica non smagnetizzata (un handicap per il loro valore) è sempre più raro.

In rete c’è un catalogo consultabile online con le quotazioni.

Trasformazioni o cose di karma e sangue freddo

Al liceo era alquanto sbruffone e arrogante.
Non era un bulletto, ma amava far battute stupide e scherzi. Si riteneva molto simpatico. La sua simpatia a volte poteva danneggiare l’intera classe, come quelle volte che ci si beccava note sul registro o interrogazioni a sorpresa a raffica a causa delle bravate sue e dei suoi due sodali durante il cambio degli insegnanti.

Nonostante una simpatia discutibile, con il nucleo consistente della classe era in confidenza, tanto da partecipare alle loro feste. Feste dalle quali noialtri eravamo esclusi in quanto personaggi poco interessanti. Comprendo che fosse più interessante chi dimostrava di poter produrre eruttazioni senza coca cola o altra sostanza ruttodopante, sono abilità che fanno invidia. Io però so arrotolare la lingua a U, solo che non me ne sono mai vantato, mannaggia.

Ricordo quando al terzo anno si mise con una della stessa sezione ma di un anno avanti.

Al quarto anno fu sospeso tre giorni per aver abbandonato l’edificio scolastico un’ora prima, solo per saltare l’ora di religione. L’aveva fatto altre volte ma in quell’occasione fu, come si suol dire, sgamato. Cambiò scuola, o meglio, la famiglia gli impose di andarsene in un paritario.

Non mi dispiacque affatto. Chi è causa del suo mal….

Capita oggi che, per conoscenze comuni, ci si ritrovi a frequentare lo stesso giro e quindi ci si incontri per strada o a casa di un amico di entrambi. Sta ancora insieme a quella ragazza, si sono sposati e ora hanno anche un bambino.

Tutte le volte che l’ho visto non ho potuto far a meno di notare una cosa. Parla poco e niente e ha sempre lo sguardo da cane bastonato. A volte lo vedi seduto con la testa leggermente bassa e il busto curvo. Non è l’anima del gruppo, non fa battute, non socializza. Ad una festa si presenta giusto per presenziare, sta in disparte e poi scappa via molto presto. È chiaro che, essendo un padre di famiglia, non possa a 29 anni mettersi a fare la vita di un 18enne e stare fuori tutte le sere sino alle 4 del mattino. Ma la vita non è fatta di estremi.

Una persona che conosco, amica della sua famiglia, ha incontrato di recente lui e la moglie. Per tutto il tempo ha parlato solo lei, seppur tra la mia conoscente e la suddetta non ci sia confidenza, anzi non si conoscono affatto.
“Stiamo parlando di tuo figlio, di’ qualcosa anche tu!” pensava la persona che li ha incontrati. Invece nulla.

Mi hanno detto che a casa porta lei i pantaloni.
Non fatico a crederlo, dato che è lei a mantenere la famiglia mentre lui è ancora all’università.

Come è strana la vita.

Meno propositi, più proposizioni

Pensando alle prossime cose che vorrei fare in un futuro prossimo sono giunto alla conclusione che ho alcune priorità abbastanza prossime nella mia vita:

  • Avere dei baffi a manubrio. Basta col taglio della barba à la Wolverine, farò crescere anche il baffo. Così, tanto per cambiare. E anche perché mi son tediato di sentirmi dire “Ah, Wolverine!” da chiunque. I film della Marvel hanno creato grossi danni.
    Ovviamente ho visto tutti i film della Marvel usciti sinora.
    E, in ogni caso, la barba tagliavo così perché mi piaceva, non per un cosplay pilifero quotidiano. Anche perché mi mancano 50 kg di spalle e pettorali per sembrare Hugh Jackman. E vorrei sottolineare che il Wolverine del fumetto è un nanerottolo peloso, non un palestrato di 1,90 col torace depilato: sarebbe più adatto Gimli il nano, oh.
  • Imparare a contare il resto. Ho un problema a fare i conti coi soldi e se rifletto sul fatto che in tutti questi anni chissà quante volte mi abbiano fregato, vado in ansia. So contare, ovviamente, e ho una discreta dimestichezza matematica, ma coi decini visivamente non riesco a fare le somme, anche per mettere insieme un solo euro.
  • Leggere tutto Sandman
  • Riuscire a parcheggiare in retromarcia quando qualcuno guarda. 11 anni di patente e ancora se c’è qualcuno che osserva io non riesco a parcheggiare in retro. Questo accade sia quando c’è un pedone sul marciapiede che se ne sta lì come a giudicare, sia quando c’è un automobilista giusto dietro che invece è impaziente. E io lo so che l’uno giudica e l’altro è impaziente. Perché a parti invertite io lo faccio.
  • Smettere di correggere gli errori grammaticali altrui.
  • Smettere di dire alla gente di non mangiarsi le unghie.
  • Comprare altre cose a quadrettoni.
  • Trovare il modo di aiutare un mio amico a superare l’ultimo esame dopo 12 bocciature di fila. Idee: 1) scoprire dove abita il docente, scattare foto a casa, auto, famiglia e fargliele trovare sulla scrivania in busta chiusa con un biglietto minatorio; 2) far trovare nell’ufficio del docente un paio di spogliarelliste; 3) far pervenire al docente una busta con dei contanti; 4) prendere l’amico, legarlo a una sedia, imbottirlo di anfetamine e fargli una full immersion sui libri.

Sto comodo in pantofole ma non datemi del pantofolaio.

Stamattina ho fatto un giro nel negozio di una nota catena d’abbigliamento giovanile per trovare qualcosa da mettere il prossimo sabato. Devo andare all’inaugurazione della galleria di un amico. Potrei dire che ho un vernissage, che fa tanto figo e tanto radical chic.

In effetti è capitato che mi dessero del radical chic. Senza conoscermi, sulla base di poche, frammentarie informazioni tra l’altro re-interpretate a piacimento.

Un po’ come se mi dessero dello psicopatico se vedessero la katana che ho a casa, dello sportivo se vedessero le scarpette da calcetto e la panca coi pesi, del nerd se vedessero i fumetti di Spider-Man, del disoccupato vedendo la laurea e così via.

Ogni individuo è uno e centomila.

Oppure, se vogliamo – che è poi la stessa cosa – esistono due diversi sé stessi. Il sé stesso che è soggetto osservante e il sé stesso che è oggetto osservato. Ogni oggetto di osservazione ha però natura molteplice, ed esistono quindi molteplici sé stessi dentro tutte le persone che conosciamo e con le quali ci relazioniamo.

Bel pensiero, vero?
È Osho.

Sbagliato.
Evangelion (il solito giochino che diverte solo me di attribuire citazioni a caso).

Più che dagli altri esseri umani tendo a essere spaventato dai miei me stessi sparsi in giro. Non da tutti. Alcuni altri mi infastidiscono soltanto.

E vorrei dir basta. La meiosi di me stesso ha stancato. Estinguetevi, derivati dell’Io. Solo che non si può farlo senza dire basta anche all’individuo che ospita il mio derivato.

Comunque pensavo di tornare nel negozio e far ricadere la mia scelta su questo abbinamento giacca e camicia che mi sembrava tanto giuovine e trend e casual e parole a caso (No di solito non ho l’abitudine di farmi le foto davanti allo specchio – uno specchio parecchio sozzo, tra l’altro – mi serviva per chiedere pareri in giro)


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Il mio problema è non aver trovato una giacca a quadrettoni.