Non è che il tipo lussurioso in punto di morte detti le sue ultime voluttà

Nella vita ho fatto:

– test
– testa o croce
– il testardo
– testacoda  (uno solo, nel 2014, sfasciando l’auto)

Mi manca da fare testamento.

Non sto morendo, precisiamo. O meglio, tutti dobbiamo morire e siamo avviati a farlo (la vita è la prima causa di morte ma questo non ce lo dicono), però pensavo tra me e me: se mi succedesse qualcosa, ho delle istruzioni scritte da lasciare? La risposta è no.

Quindi mi accingo ora a buttare giù qualche idea.

Il primo dubbio: intendo donare il mio corpo alla medicina per studio o per donazioni di organi?
Nessuna delle due cose.

Vorrei donarlo a una necrofila. Nessuno pensa mai a loro e alle loro esigenze (o magari se qualcuno ci ha pensato non può andare in giro a raccontarlo essendo morto, chi lo sa): in nome di una buona azione, perché non farlo? È un po’ come donare il 5×1000 un po’ a caso a chi ti sembra più sfigato.


Sì ho fatto così durante la dichiarazione dei redditi, non contestatemi. L’importante è il gesto!


Il funerale. Che sia in chiesa o meno, non mi interessa. La cosa importante è che al posto della bara ci sia una tunica marrone per terra. Quando qualcuno chiederà il motivo e dove sia il mio corpo, la risposta sarà: Era un Jedi.

Un’altra cosa importante è che qualcuno dovrà farsi carico della mia lista di persone cui chiedere scusa, per cose che ho fatto o detto loro durante la mia vita. Uno potrebbe chiedersi perché non domando scusa ora che sono in vita. Che domanda sciocca: venendo a sapere della mia scomparsa le persone saranno più comprensive e inclini ad accettare le scuse.

Cose da lasciare: non è che possa vantare molte proprietà. Ho l’abbonamento in piscina: l’attualità dimostra che in situazioni di emergenza nazionale può chiudere tutto (scuole, musei, locali, concerti ecc.) ma palestre e piscine possono restare aperte. Quindi, può esser sempre un valido rifugio in caso di calamità.

Ho una collezione di Cavalieri dello Zodiaco, originali con le armature in metallo. La lascio con il vincolo di non venderli (sul mercato collezionistico hanno valore) e di non farli combattere tra di loro. La storia insegna che se due cavalieri d’oro dovessero scontrarsi ne nascerebbe uno scontro infinito.

Ho diversi libri.  Magari li lascio alle scuole, purché li utilizzino per delle classi di lettura.

Potrebbero trovarmi nel cassetto dei barattoli di vetro con dell’erba (è quella legale, commissà). Sull’etichetta della bustina quando te la vendono c’è scritto che è solo per uso ambientale, ornamentale, decorativo. Lascio il compito di capire come decorare l’ambiente con delle ceppette di erba. Forse vanno nel presepe al posto del muschio.

E poi lascerò uno scherzone, del tipo: la carta di questo testamento è stata intinta in un veleno e l’antidoto è nascosto su un’isola raggiungibile alle seguenti coordinate ecc.. Dubito che qualcuno ci cascherà, ma se qualcuno mai andasse fino in fondo alla storia troverebbe sull’isola come premio alla sua tenacia un forziere d’oro. Finto. Intinto nel veleno (veleno legale, commissà).

Direi che c’è del buon materiale per un testamento coi fiocchi!

Non è che se sei un Narciso ti fai curare da un giardiniere

gnomico
/’ɲɔmiko/ agg. [dal gr. gnomikós, der. di gnomé “opinione, sentenza”] (pl. m. -ci). – (crit.) [che contiene sentenze o è costituito da sentenze: linguaggio gnomico; poesia gnomico] ≈ aforistico, sentenzioso.

 


Gnomico.  Questa parola mi ronza da ieri in testa.

Gnomico. Ho incontrato una ex collega di lavoro e il marito, reduci dal Concorso TFA. Un delirio assurdo, dicono. Forse era un Concorso TSO.

Gnomico. Tra i quesiti dei test, c’era quello di trovare un sinonimo a questa parola.

Io ero reduce invece dal secondo turno di qualificazione per una posizione cui mi ero candidato. Qui raccontavo che sarebbero state 4 sessioni. In realtà, tra la prima e la seconda hanno anche inviato ai candidati un test di personalità online. Ieri, durante la sessione di gruppo, è stato tutto un test. Quindi scompattando tutte le analisi che ci stanno facendo credo che tutte queste procedure forse saranno utili per entrare nei servizi segreti.

Nel precedente post raccontavo anche del mio stress da esame. Ieri, essendo un colloquio di gruppo – a me avevano parlato di “sessione di gruppo” e avevo pensato a qualcosa di sessuale. Non mi ci sarei prestato ma all’occorrenza avevo comunque messo i boxer migliori che uso al primo appuntamento – ho visto vari tipi di stress.  Ho capito che alla fine siamo tutti esseri umani, con le proprie debolezze.

Ho visto lo stress che ti tormenta le mani e te le fa torcere disarticolando le falangi.
Ho visto lo stress che ti incrocia le braccia irrigidendoti il busto.
Ho visto lo stress che ti rompe la voce e te la tremare come se stessi parlando davanti a un ventilatore.
Ho visto lo stress che ti fa fare gli occhi lucidi come se volessi scoppiare in lacrime.
Ho visto lo stress che ti fa parlare come una macchinetta.

Poi c’è il mio stress che mi rende un coglione. Forse sarò narcisista, ma tendo a mettermi troppo in mostra. Non lo faccio di proposito, è una cosa istintiva. Non tendo a soverchiare gli altri né cerco di mostrarmi migliore. Solo che mi si nota, per una battuta, un’affermazione, una domanda, un’affermazione aforistica (gnomica?). Il che potrebbe essere un bene, perché lo scopo di una sessione di gruppo è emergere. Dipende però sempre da ciò che stanno cercando dall’altro lato.

In linea di massima posso dire che questo aspetto mi ha sempre portato bene. Temo però che a lungo andare, se non curato, possa peggiorare e risultare arrogante e/o supponente. Questa occasione mi ha insegnato qualcosa. Mi ha moralizzato. Probabilmente è stato un colloquio gnomico.

Voi l’avete mai avuto un momento gnomico?

Il Vocaboletano – #7 – Pariare

Uno dei difetti di molti corsi di lingua è quello di essere slegati dal linguaggio corrente. Capita venga insegnata una lingua che esiste sui libri ma che non è utile nella vita quotidiana.

Dato che questo Vocaboletano (compilato da me e crisalide77) è sì old school ma strizza anche l’occhio ai giovani e i giovani alla strizzata d’occhio pensano che ci stia e quindi lo invitano a bere qualcosa ed è sempre cosa buona bere gratis, oggi parleremo del termine pariare, appunto molto in voga tra i giovani.

Pariare vuol dire, in modo generico, divertirsi.

Ci sono almeno quattro diverse sfumature di significato:

  • se vi invitano ad andare a pariare o se vi dicono che in una determinata situazione si parea/c’è pariamiento, vuol dire per l’appunto che ci sarà da divertirsi;
  • se invece vi stanno pariando addosso vi stanno schernendo, si prendono gioco di voi;
  • chi vi sta pariando addosso potrebbe giustificarsi, vedendovi offesi, sostenendo che, in fondo, stava solo pariando: l’affermazione può sembrare tautologica o retorica, ma in questo caso il significato che vuole dare il vostro interlocutore è che stava semplicemente scherzando e non c’era niente di offensivo;
  • pariare con una persona può si voler dire divertirsi insieme a lei, ma può anche stare a indicare una relazione amorosa di poco conto, utilizzata come semplice fonte di intrattenimento.

Ricordo che una volta, ero adolescente, una ragazza volle sottopormi a un test per scoprire se fossi un tipo romantico. Mi chiese “Di solito ti metti con le ragazze con cui parei?”.

Conoscevo il termine pariare nelle prime tre accezioni che ho testé enunciato, ma lo ignoravo riferito alle relazioni sentimentali.

Questa letterata stilnovista era quindi culturalmente più avanti di me: inutile dire che dopo aver chiesto un paio di volte cosa cacchio intendesse lei reputò concluso il test, dicendomi che non ero romantico. Persi quindi forse l’occasione di pariare con costei. Potete immaginare qual rammarico.

Esercizio riassuntivo: tradurre in italiano la seguente espressione
Insieme alla persona con cui pariate, vi invitano in un posto dove si parea. In realtà scoprite che vi stanno pariando addosso, però voi non vi offendete perché in fondo stavano solo pariando.

Etimologia
L’origine del termine è controversa.

Innanzitutto c’è da dire che lo slang giovanile ha improvvidamente storpiato il significato originale della parola, il cui uso era attestato almeno già intorno al 16°/17° secolo. Pariare significava digerire. Il significato attuale si è consolidato soltanto negli ultimi trent’anni nella cultura popolare (o popolana, a volte becera e volgarotta), ricevendo molto slancio grazie ad alcuni sketch comici sulle tv locali durante gli anni ’90.

Non credo i giovani oggi ne conoscano le origini, così come non sono certo che qualcuno possa riuscire a svelare le ragioni di questo salto logico-semantico.

È possibile che l’atto del digerire venga collegato a una sensazione di benessere e leggerezza e, quindi, per estensione, a un rilassamento generale.

La stessa attitudine rilassata con cui chi parea affronta le cose: un po’ svagato, superficiale, il giuovine in cerca di pariamiento è leggero qual piuma al vento.

Dopo i vent’anni, l’uso di questo termine è perseguibile penalmente.


A meno che non abbiate digerito.


Non è che al giardiniere per orientarsi serva una piantina

Cercare casa ti mette sempre in contatto con situazioni antropologicamente interessanti.

– E com’è il vicinato*?
– Credo ci si stia trasferendo gente ricca. Ebrei, sai.
– …Ah…


* Domanda di rito che pongo sempre alla fine dell’ispezione dei locali.


Persiste in questo Paese una malcelata acrimonia verso gli ebrei. Più che altro è invidia per la loro (presunta) ricchezza: l’ungherese medio pensa sempre al danaro ed è alquanto micragnoso e taccagno.

Ho visto poi una casa in zona Corvin-Negyed. Il proprietario è un italiano: all’arrivo sul posto mi è venuto incontro questo tizio che sembrava Joe Pesci in Mio cugino Vincenzo. E non perché fosse un avvocato, ma per l’aria da intrallazzatore.

La casa era un buco con pareti scrostate e ammuffite e mobilia da discarica. Niente riscaldamento, solo stufetta elettrica. Niente spazio per appendere i panni. Anche perché o entravano i panni in casa o ci entravi tu: non c’era spazio per entrambi.

Il suo asso nella manica erano le vicine di casa alla porta di fronte (così di fronte che non si potevano aprire contemporaneamente le due porte), in un appartamento sempre di proprietà del Cugino Vincenzo. Due ariane studentesse Erasmus, che, guarda caso, sono rientrate in casa proprio quando sono arrivato io, come per farsi vedere di proposito!

In virtù di questo optional aggiunto stavo per tentennare e prendere la casa, poi ho pensato che ho una salute da salvaguardare – non posso vivere con la muffa alle pareti – e un rapporto in Italia da tutelare dalle tentazioni Erasmus.

Sempre a Corvin ho visto un monolocale appena ristrutturato. Era tutto così nuovo che il frigo aveva ancora il cellophane.

Il problema era che, a parte l’affitto alto, la casa si trovava in uno stabile che sembrava uscito dalla guerra. Uscito male. Pareva l’avessero bombardato. Per dirla in napoletano, era scarrubbato.


Adoro questa parola, perché mentre la pronunci forma con sé anche l’immagine: scarrubbato. Quando lo dici vedi qualcosa che crolla.


Altre case che ho visto pure puzzavano di muffa o avevano la scala del soppalco della zona notte troppo ripida. Già mi vedevo a ruzzolare giù al mattino. Un metodo di risveglio efficace, quantunque doloroso.

In ogni caso, nel giro di due giorni ho trovato casa: non sono più un senzatetto.
Il monolocale non puzza, non ha scale assassine, ha ben due (!) finestre e il proprietario è una persona gentile e onesta.

Quando gli ho portato la caparra, gli ho dato i soldi chiedendogli di contarli e mi sono dedicato a leggere il contratto. Nel gruzzolo sapevo che c’erano 10mila fiorini in più e volevo constatare se me l’avrebbe fatto notare. Cosa che ha prontamente fatto, con mia soddisfazione.


Se può sembrar da pazzi, meglio ch’io allora non racconti quali e quanti svariati test io faccia sulle persone per valutarle. Forse anche questo blog potrebbe essere un test per chi lo legge.


La prima cosa che ho fatto dopo aver avuto le chiavi, è stata comprare una piantina di aloe per decorare la finestra. L’ho presa senza pensarci, poi dopo averla sistemata ho realizzato: una piantina è un bell’impegno. Cioè non posso riportarla a casa in Italia come se fosse un soprammobile. Vuol dire che ho intenzione di stare qui almeno un anno: già sapevo questo, ma il fatto di avere un qualcosa che mi dà l’idea della stanzialità (Il cielo in una stanzialità) è una prospettiva nuova.

Non è che l’imbianchino abbia la sindrome del color irritabile

Mi sono ricominciati gli spasmi allo stomaco. È da una settimana che vanno avanti.

Cause: Poco sonno. Fumo. Preparare un test e un discorso in inglese. Ansia. Quella per il colloquio inoltre era una premura inutile, perché, come ho raccontato, ha parlato per tutto il tempo la Dott.ssa Comesfromthesea. Ora l’attesa di un responso per ciò che concerne l’esito non mi aiuta a rilassarmi.

Non saprei che direzione prendere se fosse andato male. Le alternative che ho non sono a una portata logistica accettabile. Ho il terrore di aver imboccato un percorso di vita non percorribile. Ora non potrei permettermi di andare 6 mesi in Perù per un progetto sulla foresta amazzonica e abbandonare qui la famiglia.

Ogni volta che, mentre sono a Roma, sento Madre al telefono, sembra che a casa stia andando tutto a rotoli. Poi torno giù e sembra tutto a posto. Stanno tutti meglio di me che invece ho perso altri due kg e ora ballo sui 70.


Forse sto facendo una dieta troppo povera. Pezzente, direi.


In verità non va proprio tutto bene: Padre è un mese che ha dei problemi articolari seri, ci sono giorni che si sveglia – ammesso che il dolore lo faccia dormire – e non può alzarsi dal letto perché non riesce. Un infortunio calcistico di trent’anni fa non curato come si deve oggi lo ha praticamente portato ad avere le cartilagini di ginocchio e bacino distrutte. Si riempie di antidolorifici come Dr. House. Padre ha sempre un rapporto un po’ insano coi medicinali: li assume come caramelle. Se l’eroina fosse legale penso utilizzerebbe anche quella.

In virtù di ciò Madre si alza alle 6 di mattina, prepara il pranzo, deve badare ai gatti, va al lavoro, torna e deve badare a gatti, genitori anziani, Padre e a volte pure una zia cui ogni tanto viene la sindrome dell’abbandono – abita a 10 metri da casa – e quindi rompe. A ciò aggiungiamo che lei ha dolori cronici alla schiena.

Come si fa a pensare in queste condizioni di abbandonare tutto sulle spalle degli altri?

Poi succede che torno a casa, devo aiutarli a fare la spesa e Padre arzillo e scattante viene con me, si mette anche alla guida e nel supermercato debbo essere più lesto di lui a sottrargli le casse dell’acqua prima che le raccolga.


Salvo poi la sera stessa lamentarsi perché dolorante.


Secondo Tutor non dovrei farmi tutti questi problemi: devo vivere la mia vita, gli altri hanno la loro. Forse ha ragione. O forse no.

Vorrei discuterne meglio con lei, avendo i miei stessi problemi, e non farlo solo in quelle brevi pause che mi prendo per nascondermi nel suo ufficio. Penso alla fine di essermi convinto a chiederle di uscire. O almeno credo. Non ho ancora capito se in questo periodo ho voglia realmente di uscire con qualcuna oppure ho voglia di starmene completamente da solo a macerare immerso nei miei pensieri. Oppure a Macerata immerso nei miei pensieri.

L’altro ieri, in una sera di sconforto e stordimento psicotropo, ho cercato su Google il nickname che la mia ex ex (ex al quadrato) utilizzava anni fa su un forum. Ho scoperto che lo utilizza ancora o almeno lo ha utilizzato di recente e che è sparsa in vari posti: ha un blog fotografico su tublrm, tumlrb, trublm, brumtl, insomma quella cosa hipster; poi recensisce trucchi, pubblica ricette. Mi sembra così diversa. In realtà è sempre la stessa con più o meno gli stessi interessi, ma mi sembra di non conoscerla più. In effetti, tre anni sono tanti. Si può cambiare.

Anche io, del resto, sono cambiato.

Sono diventato completamente intollerante al latte, ad esempio. Anche quello ad alta digeribilità ora mi dà fastidio. Sono passato a quelli vegetali, ma non ne sono molto soddisfatto. Quelli di riso e avena li trovo stucchevoli, mentre quello di soia, dopo alcuni mesi di tolleranza, oggi lo trovo nauseante. Sa di fagiolino (che scoperta: la soia è un legume) e puzza. Anche il frigorifero puzza di fagiolino una volta aperta la confezione, pure i rigurgiti esofagei sanno di fagiolino e io non ce la faccio più: mortacci soia e dei fagiolini.

Non digerisco più, inoltre, la gente che parla di politica con quell’irritante qualunquismo traboccante della saccenza di chi ha una cultura fatta di Wikipedia e Le Iene e che non vede l’ora di lamentarsi con te, come se un essere umano non avesse altro da fare che stare lì ad ascoltare i loro comizi. Pur potendo anche concordare con alcune considerazioni, ciò che fatico ad accettare è il sentir parlare dei politici come se fossero un popolo di alieni che un giorno all’improvviso è apparso e ci ha invaso, rovinando un Paese onesto, lavoratore e incorruttibile (!).


Immagino il film: Election Day, con il Will Smith italiano, Carlo Conti, che dopo il televoto del pubblico a casa verrà inviato in missione sull’astronave-madre dei Politici.


Anche se osservando alcuni esemplari Buonanno fatico a credere facciano parte della specie umana.


Ci riflettevo giusto l’altro giorno in treno, quando accanto a me un giuovine dall’aria Ibiza-sole-figa e sei in pole position!* raccontava a un suo anziano collega come aveva fregato dei perfidi inglesi. Diceva che, mentre era in vacanza a Londra, una sera in un locale un cameriere distratto gli aveva versato addosso un cocktail rovinandogli una camicia. Lui prontamente aveva scattato una foto a testimonianza del fattaccio, e, il giorno dopo, aveva scritto una mail ai gestori del locale. Nel testo diceva che era un loro affezionatissimo cliente (falso) e che la goffaggine di un loro cameriere gli aveva rovinato un capo di alta sartoria italiana (una camicia OVS…), del valore di 400 euro (90), cui era anche legato affettivamente (falso anche questo, come si vantava di precisare al collega).

I proprietari gli avevano immediatamente risposto, scusandosi e chiedendogli gli estremi per fargli avere un rimborso. Dopo tre giorni sul conto lui si era trovato 200 sterline.

Ecco, costui riflette bene la mentalità arraffona, volgarotta, ignorante e imbrogliona dell’italiano da dito medio. Ma forse sono stati i politici venuti dall’iperspazio ad averci dato cattivi esempi.


Perché in questo blog non si guardano solo Tarkovskij o Truffaut: ci sono altri grandi riferimenti cinematografici:


Per concludere il riassunto di questa settimana, vorrei citare infine un episodio accaduto ieri mattina.

Mentre ero a Termini, in attesa che un ritardo partorisse un treno, osservandomi i pollici per capire se la ricrescita della pelle intorno le unghie fosse sufficiente per ricominciare a mangiarla, mi viene incontro un tizio. 60 anni circa, trascinando un carrellino di quelli che le sciure utilizzano per fare la spesa al mercato, con un sorriso inquietante mi si pianta davanti e fa: Permette? Sono un poeta fiorentino!

Io, senza una smorfia che tradisse la menzogna, rispondo: I’m sorry, I don’t speak italian. E lui si scusa e se ne va.

Dopo mi è dispiaciuto, perché chissà cosa avrebbe potuto raccontarmi un poeta fiorentino e chissà cosa mi sono perso. Ma ho deciso che di fare conversazione con persone strane mi sento un po’ saturo.

Già debbo guardare me stesso ogni giorno allo specchio, al mattino.

Destro o sinistro?

Non so che validità scientifica abbia, comunque chi volesse spendere un minuto giocando a capire quale sia il proprio emisfero del cervello dominante (o se ci sia un perfetto equilibro), c’è questo test: http://sommer-sommer.com/braintest/

Secondo il risultato sono una persona irrazionale (secondo la convenzione classica, lo scienziato tra i due emisferi è il sinistro. Ho detto “convenzione classica” perché magari hanno scoperto che è tutta una balla).

Immagine

A proposito di irrazionalità, Il mondo di Dalì torna domani con l’ultimo episodio. Forse.