Ho Padre che vive fuori dal tempo, ultimo baluardo della resistenza alla moderna telefonia. Anni fa fu convinto da Madre a comprarsi un cellulare per una qualsiasi evenienza.
L’avrà utilizzato al massimo una volta all’anno, lasciando poi scadere ogni volta il credito. Praticamente a conti fatti ogni telefonata è costata quanto una chiamata in Messico.
Di recente ha dovuto riattivare la SIM per fare una telefonata (la solita esigenza annuale). Si è poi presentato da me indignato:
– Io non ho capito, ho fatto fare una ricarica di 10 euro e mò sono andato a controllare il credito e risultano 4 euro. Io una telefonata ho fatto, ché si sono presi 6 euro?
– Ma tu ora hai un abbonamento?
– Che vuol dire?
– Tu paghi a chiamata o paghi un fisso mensile e chiami quanto vuoi?
– Chiamo quando voglio io ma questi si son presi 6 euro per una telefonata!
– No, aspetta, tu paghi 6 euro al mese e hai tot minuti a disposizione che si consumano a ogni chiamata, adesso non so quanti ne sono nell’abbonamento che hai sottoscritto
– E questi 4 euro di credito allora che sono?
– Sono quelli che ti serviranno il prossimo mese per pagare l’abbonamento. Devi fare un’altra ricarica ovviamente, visto che l’abbonamento costa 6 euro
– E devo pagare 6 euro al mese?
– Sì però parli quanto vuoi…
– Ma a me non interessa, io non voglio parlare proprio con nessuno non mi serve neanche il telefono!
Chiedo quindi ai gestori di telefonia di valutare di introdurre la tariffa Sticazzi Voi Tutti – Summer Edition, per Padre e quelli come lui che non desiderano telefonare.
Ho un amico che ultimamente sembra non parlarmi più.
“Sembra” è un modo per dire che non mi parla ma non so se non mi parli per caso o per desiderio.
Non mi scrive, non mi cerca, se ne va ai concerti da solo. Potrei aver fatto qualcosa e in effetti sto facendo qualcosa in questo periodo, ma non capisco in che modo questo qualcosa possa influire su di lui e sul suo comportamento.
Potrei chiedere chiarimenti. Purtroppo chiarire è una delle cose che mi mette più a disagio in questo mondo. Seconda solo a quando busso alla porta di un bagno e nessuno risponde e poi entro e dentro c’è qualcuno intento a mingere.
Tra parentesi dovrebbe sentirsi lui a disagio ma chissà perché il disagio lo provo io. Il che mi induce a pensare che ci siano persone che non rispondono alla bussata proprio per mettere a disagio il prossimo.
Non sono bravo in questi frangenti.
Chiedere chiarimenti, intendo.
Allora taccio, mi eclisso, mi raccolgo nella mia propria intimità perché penso che se qualcuno vuol evitarmi io poco posso farci.
È la soluzione più comoda assumere un comportamento simile ed evitare il confronto. Io evito. Sempre.
Evito le persone per strada. Mi scanso assumendo pose matrixiane. Anche perché molti ormai non sanno più come si passeggia. Fissano il cellulare, parlano con qualcuno senza guardare avanti, guidano i passeggini come se fossero dei panzer tedeschi che invadono la Francia. Oggi una signora mi è passata sul piede col passeggino, mi ha chiesto scusa ritraendolo indietro e ripassandomi sul piede. Così, perché non aveva altro da fare.
Evito il traffico stradale introducendomi in vie laterali e infilandomi in giri tortuosi che mi fanno allungare il percorso. Vuoi mettere però l’aver evitato lo star fermo imbottigliato?
Evito autostrade e superstrade se posso percorrere una via piacevole da guidare. Ultimamente però il navigatore mi ha una volta portato in una zona che neanche i peggiori bar di Caracas e in un’altra mi ha condotto in una selva oscura. C’erano anche tre bestie ad aspettarmi. O forse erano degli abitanti autoctoni.
Evito di telefonare se posso scrivere.
Evito i farmaci se posso risolvere con un tè+miele+propoli+goccio di alcool. Evito questa brodaglia se posso riempirmi di paracetamolo.
Evito di toccare qualsiasi cosa una volta tornato a casa se prima non ho lavato le mani.
Beati quelli che si aspettano, perché non saranno mai in ritardo (Gintoki 2, 1).
Una volta aspettai un’ora sotto casa. Dopo lo squillo per segnalare il mio arrivo, attesi il fisiologico lasso di tempo di preparazione femminile. Quando giudicai che fosse eccessivo, feci un altro paio di squilli.
Non esiste un parametro per decidere se l’attesa sia eccessiva. Diciamo che va valutato sempre a occhio, a seconda della persona e del tipo di uscita.
Poi passai a telefonare, ma non rispondeva. Alla fine chiamai sul fisso e rispose. E lì realizzai che non ci eravamo affatto dati appuntamento.
Fu però carina a scendere lo stesso, anche in tempi brevi.
Io se fossi stato una donna sarei stata una di quelle che impiega 2 ore per prepararsi. Sono puntiglioso sul mio aspetto e debbo curare i dettagli. Se un pelo della barba non mi piace perché non rispetta la simmetria architettonica pilifera debbo tagliarlo. Non esiste che me ne vada via dandogliela vinta.
Quando ho poco tempo ho imparato a ottimizzare. Una volta mi sono lavato i denti mentre urinavo.
Era una cosa lunga. Effetti del tè verde.
Essere un ambidestro torna utile di tanto in tanto.
Ci sono cose che invece non puoi controllare. Ad esempio, quando si ha fretta le lenti a contatto non andranno mai bene e renderanno l’occhio simile a quello di Sauron. A Mordor a causa dell’embargo non c’era disponibilità di gocce oftalmiche.
Potrei sembrare vanitoso, in realtà curo un semplice stile barbonal.
Sono, comunque, maniacale. Come cantavano gli Elio, Quando c’ho la ragazza faccio la conchetta per sentirmi il fiato. Con la differenza che lo faccio anche se devo solo andare a comprare il giornale. Gli edicolanti vanno rispettati.
A volte mi chiedo quanta gente si faccia la conchetta.
Me lo sono chiesto oggi, quando è arrivato il Capo dei Capi. Ha scambiato velocemente due parole con me, prima della pausa pranzo.
Aveva il classico alito da uomo d’affari attempato. Digiuno, un caffè veloce, ore di discorsi e il risultato è che in bocca si forma un misto di afrori: poltrona degli anni ottanta in tessuto, mai lavato, su cui la gente ha fumato, mangiato, ha poggiato la testa coi capelli unti di sebo, e bagno pubblico dove per entrare bisogna dare 50 centesimi alla signora delle pulizie, che, sì, lo pulisce, ma resta quello sgradevole odore di tubo di scarico in eternit in sottofondo.
La mia reazione mi avrà reso un po’ strano ai suoi occhi: gli parlavo come fossi una torre pendente, i piedi più vicini a lui rispetto al busto e alla testa.
Comunque è stato gentile, ha portato in ufficio una grossa confezione di cioccolatini assortiti belgi, belgici, belghi…ha portato una grossa confezione di cioccolatini assortiti dal Belgio.
Una stessa questione può assumere una diversa prospettiva.
Io sono abituato a pensare che quando ricerco lavoro devo preparare un CV ad hoc per quella posizione, scrivere una lettera di presentazione sempre ad hoc in cui dimostro di conoscere l’azienda, dopo il colloquio attuare anche un sano “inseguimento” (sempre ad hoc) delle risorse umane ringraziando via mail per il tempo concesso, magari dopo qualche giorno telefonare in modo cortese (ad hoc) per chiedere informazioni sull’esito, dimostrando di avere realmente a cuore quella posizione. E, quando avranno scelto un altro, ringraziare e rifare tutto da capo.
Dovrei meglio dire che sono stato abituato a seguire tale codice di comportamento da tutta una serie di consulenti HR che divulgano il galateo del cercatore di lavoro.
Ho sempre dimenticato di chiedere se loro avessero seguito tale procedura nella ricerca di lavoro.
Al lavoro che sto svolgendo ora mi capita di dover contattare dei consulenti esterni specializzati in diverse materie. Costoro, in genere, hanno quasi tutti gli stessi comportamenti:
– Non rispondono alle mail;
– Prima di inviarti il CV chiedono quanto li paghi;
– Chiedi di avere una versione del CV in francese perché il lavoro si svolgerà presso una delegazione francese che parla francese e legge cose francesi e loro ti rispondono che trovano più comodo inviarlo in inglese;
– Chiedi il CV tagliato ad hoc per la posizione e loro ti dicono che non hanno tempo oppure che lo sistemeranno quando avranno possibilità. E poi te lo inviano dopo due settimane, quando avevi fatto presente una certa urgenza nella richiesta;
– Offri 500 euro al giorno e loro ti scaricano per chi ne offre 510.
Mi rendo conto che la prospettiva sia invertita: sei tu che cerchi loro per svolgere un lavoro, ergo ne hai bisogno. E loro si comportano come se ti stessero facendo un favore.
Io appartengo a una generazione che è cresciuta con la prospettiva che il lavoro sia un privilegio e che chi te lo sta offrendo ti stia facendo un favore e che, in certi casi, se è pagato è un di più perché non sono affatto obbligati a farlo.
Il famoso discorso di essere pagati in visibilità.
Io sono introverso, preferisco continuare a essere invisibile ma poter far la spesa al supermercato.
Insomma, comunque vada anche adesso mi sembra di stare sempre dalla parte sbagliata della dimensione. Non della barricata, perché una barricata neanche riesco a vederla: è come il confine dell’Universo, un concetto su cui dibattere in senso più metafisico e filosofico che reale.
E ripenso a un mio caro amico che dopo 6 mesi di stage a 600 euro al mese a 600 km di distanza da casa (6 mesi, 600 euro, 600 km, ripetizione del 6 = 666, coincidenza? Io non credo) è stato poi salutato con Arrivederci e grazie di tutto, perché gli hanno detto chiaro e tondo che C’è la crisi c’è la crisi e quindi è più conveniente avere a ciclo continuo stagisti a 250 euro (il resto infatti lo mette la Regione).
Crisi. La parola ha origini agricole.
Il verbo κρίνω, infatti, vuol dire separare, scegliere. Si riferisce all’atto di cernita dei chicchi di grano da tutto il superfluo. Nel tempo poi ha acquisito significati che via via si sono allontanati dall’etimo originale. In epoca moderna rappresentava sempre una separazione ma in senso figurato: la crisi era un distacco di un periodo da un altro, non necessariamente per entrare però in una fase negativa. Quest’ultima accezione è molto più recente rispetto alla storia della parola. Prova che ci evolviamo verso il pessimismo.
Ma se crisi vuol dire scelta, perché non mi ricordo di aver scelto per tutto ciò?
E io vorrei alzare la cornetta del telefono, scegliere un nome a caso dalla rubrica dei consulenti e, per il solo piacere di sapere che dall’altra parte c’è qualcuno che ascolta, che raccoglie un messaggio come se fosse una lettera in una bottiglia arenatasi sulla battigia tra un paio di conchiglie e un guscio di granchio, una lettera di cui poi potrà fare ciò che gli pare, improvvisargli un discorso nello stile oratorio di un maestro di retorica entrato nell’immaginario collettivo:
Manco a farlo apposta ho comprato della carne stasera e sull’etichetta vi ho trovato un messaggio subliminale in tema col post dedicato all’atto di andare a prenderlo in un posto molto noto:
Ricordare gli Sbullonati nel precedente post mi ha fatto ripensare a quante cose, personaggi o situazioni, con le quali ho avuto a che fare siano finite sepolte dal tempo.
La lista sarebbe lunga e non è detto che questo post non abbia un seguito con successive integrazioni.
Al primo posto c’è, leader indiscusso, ovviamente lui: Il telefono in bachelite nera.
I miei nonni ne hanno uno, che ha funzionato egregiamente per decenni, prima di diventare un soprammobile causa rottura del microfono interno. È stato l’oggetto che ha contrassegnato la mia infanzia e anche oltre. Dato che a casa mia, non ho mai ben capito per quale dettame religioso o politico, non abbiamo mai avuto il telefono, per telefonare andavo nell’appartamento di fianco dai nonni. Una volta su due la ghiera girevole mi fregava e dovevo ricominciare da capo perché avevo sbagliato il numero.
Quando ricevevo una telefonata mio nonno rispondeva e poi mi convocava; nel corso degli anni ha usato varie tecniche:
– Il postino: bussava due volte alla mia porta per avvertirmi che mi cercavano
– L’urlofono: senza spostarsi da vicino al telefono (per la gioia di chi era all’altro capo), gridava il mio nome
– Il postino nascosto: dopo la fase urlata tornò alla bussata, questa volta però sulla parete divisoria in comune tra il suo soggiorno e la mia camera.
Ricordo un’altra cosa di quel telefono: era un intrappola-alito. Dall’interno della cornetta percepivi l’aroma di quel che avevi mangiato prima dell’ultima telefonata.
Il mio barbiere. Don Vicienzo: dagli 8 ai 13 anni sono andato sempre da lui, un vecchio amico di mio nonno. Più che andare direi che mi ci portavano. Esercitava la professione da 50 anni, il suo salone era arredato come 50 anni prima e i tagli di capelli, per coerenza, erano rimasti a 50 anni prima. È andato in pensione verso la fine degli anni ’90 e qualche anno dopo, purtroppo, è venuto a mancare.
Era nemico della modernità: nel suo salone macchinette elettriche per capelli non sono mai entrate. Fino a quando non ha ceduto l’attività, ha sempre avuto una come questa che io chiamavo la tosacani.
Diamoci un taglio.
A inizio anni ’90, in piena ascesa calcistica di Roberto Baggio, ho sfoggiato per un bel po’ un codino dietro la nuca. Non eccessivamente lungo. Finché un giorno dissi a mia madre di tagliarlo, così, perché mi ero stufato. 1997, Ronaldo era il più forte calciatore al mondo e io mi feci rapare i capelli a zero. A essere sincero il personaggio mi era alquanto antipatico, lo vidi e dissi vah proviamo questo taglio, alla peggio non sarò comunque mai brutto come lui.
Alcune persone mi guardavano come se fossi un poco di buono.
Il mio vicino di casa, individuo che si contraddistingue per la sua intelligenza sopraffina, credo che pensò che io avessi una brutta malattia. E non lo racconto per ridere perché non c’è da ironizzare, però ripensando a lui ancora mi viene un punto interrogativo in testa:
– Il figlio del vicino mi vede passare e mi fa: “Gintoki, ti sei tagliato i capelli?”
– Sì
Il padre si avvicina al figlio e con la mano lo porta via dicendo sottovoce: “Dai vieni XX. Non fare queste domande”
Lo zaino Invicta.
Lo zaino Invicta dominava le spalle degli studenti. O meglio, se la giocava con la Seven. Il mio primo (e unico) zaino dell’Invicta lo ebbi verso la fine della quarta elementare e mi ha accompagnato sino ai primi anni del liceo, quando ha iniziato a scolorire, scucirsi, con i ganci di plastica che stavano andando in pezzi. Non lo gettai ma lo riutilizzai per lungo tempo come zaino per la roba del calcetto. In ogni caso è durato tantissimo, contrariamente a uno zainetto della marca della Vittoria che è durato un paio d’anni prima che si aprisse letteralmente in due e uno zaino venduto nello store della mia Università che dopo pochi anni si era consumato peggio di un jeans trattato con la pomice.
Sabatino.
Il mio Invicta lo comprai da Sabatino, proprietario di una cartoleria non lontana da casa mia. In un piccolo negozietto aveva sempre di tutto ed era gentilissimo e simpatico. Quando non c’era, lasciava l’anziana madre a gestire il negozio. La poverina era servizievole ma un po’ confusa e quando le chiedevi una matita HB lei ti dava una penna, quando chiedevi un quaderno a righe te ne dava uno a quadretti e quando chiedevi matita, penna e quaderno una delle tre cose la dimenticava.
Sabatino cedette l’attività ad altri, che durarono poco perché non la gestivano bene. Ora da una decina d’anni o forse più al posto della cartoleria c’è un negozio che vende profumi e detersivi.
E voi? Avete delle cose perdute (o dimenticabili)?
Ma cosa c'è dentro un libro? Di solito ci sono delle parole che, se fossero messe tutte in fila su una riga sola, questa riga sarebbe lunga chilometri e per leggerla bisognerebbe camminare molto. (Bruno Munari)
Come quelle coperte, formate da tante pezze colorate, cucite insieme tra loro.
Tessuti diversi, di colore e materiale eterogeneo, uniti in un unico risultato finale: la coperta.
Così il mio blog, fatto di tanti aspetti della vita quotidiana, sempre la mia.