Io sottoscritto Gintoki, gatto (Felis catus), conscio delle sanzioni previste per il rilascio di dichiarazioni false e/o mendaci, dichiaro che quanto riportato in questo post rispecchia in modo fedele la realtà dei fatti avvenuti in data 03-03-2016 in Budapest.
Dopo la prima escursione infruttuosa, oggi mi sono recato di nuovo all’ufficio immigrazione (UI) portando con me anche gli estratti conto bancari, come richiesto.
Lungo la strada non ho avvistato corvi appollaiati sugli alberi come arpie e l’ho considerato un buon segno.
Tenendo però presente un mio interesse estetico per tutto ciò che è decadente, gotico e ossianico e che il fascino esercitato da richiami di questo tipo non trovo abbia nulla di negativo o nefasto, l’assenza di corvidi avrei dovuto quindi considerarla un cattivo presagio.
A tal proposito mi ricordo di quando Ex² al Lucca Comics si vestì da gothic loli. Vorrei saper scrivere, inteso non come il semplice conoscere la sintassi, per descrivere quanto fosse bella. Vorrei un giorno aver quel tanto che basta di capacità per rappresentare a parole la bellezza.
Sono arrivato all’UI alle 9. Soltanto due numeri davanti a me. Altro buon segno.
Entrato circa 10 minuti dopo, pensavo che la fortuna continuasse ad assistermi.
In realtà il destino ama prendersi gioco di te e illuderti.
Non c’era l’impiegata-croupier della volta precedente che amava mischiare i documenti come un mazzo di carte francesi.
Sono stato invece accolto da un impiegato che sembra a disagio e fuori posto come un giornalista di un TG delle 6 del mattino.
Tipo costui:
Aveva un ininfluente inglese. Nel senso che, dato che sapeva dire “name” o “born” e poi null’altro, era poco rilevante.
Mi rendo conto che essendo io lo straniero debba io adeguarmi alla lingua locale: anche se, visto che il sito dell’UI è in inglese, magiaro e tedesco, così come i documenti sono compilabili in queste tre lingue, si presuppone che anche il personale sia linguisticamente versatile. Questo intoppo invece mi ha reso straniero stranito.
D’altro canto, i nostri uffici pubblici difettano spesso anche di italiano, quindi di cosa lamentarsi?
È entrato dopo poco in stato d’impasse perché non sapeva cosa fare con i miei fogli in inglese. Ha iniziato quindi a comportarsi come i giornalisti quando il servizio non parte e sono in tremendo imbarazzo, cioè fare finta di riordinare i fogli e poi alzare la cornetta del telefono ascoltando qualcuno che dall’altro capo non c’è.
Poi è passata una collega e lui l’ha accalappiata per chiedere aiuto. A lei ho dovuto spiegare il contenuto di ogni singolo foglio, contratto lavoro, contratto casa, estratti conto, pagamenti azienda. Dopo che avevo finito ho capito che lei non aveva compreso molto perché poi ha iniziato a farmi domande su ogni singolo foglio.
E poi mi ha chiesto di scrivere una dichiarazione in inglese in cui dichiaravo la stessa cosa che avevo già dichiarato sul modulo che ho scaricato da internet.
Avrei desiderato rispondere come Oscar Wilde: “I have nothing to declare, except my genius” ma forse non sarebbe stata compresa o non avrebbe fatto ridere.
Passata agli estratti conto, cioè dei semplice fogli con il nome della banca e un riquadro con una cifra, ne capiva ancor meno perché erano in italiano ovviamente. Tanto le interessava soltanto la cifra scritta in fondo.
A quel punto ho compreso che avrei potuto benissimo creare a casa su Word un foglio con il logo di una banca svizzera a caso e una cifra enorme in grassetto fingendo di essere un miliardario in incognito, perché tanto non avrebbero mai potuto verificare. Ho perso un’occasione per fingermi un riccone.
I conti andavano bene ma secondo lei il loro capo avrebbe dovuto visionarli per decidere se quelle cifre fossero adeguate per vivere qui.
A maggior ragione quindi avrei dovuto fingermi un Rothschild per non perdere tempo.
Seppur mezz’ora se ne fosse ormai andata, ero ancora fiducioso. Sembrava passato lo scoglio.
Invece stavo per entrare in una situazione kafkiana.
L’impiegato giornalista, rimasto solo, ha iniziato a leggere tutti i miei dati uno per uno punto per punto per poi, una volta finito, ricominciare da capo.
Ogni tanto scriveva qualche cosa al computer.
Poi rileggeva da capo tutti i documenti.
Nel mezzo, prendeva la mia carta d’identità o la mia tessera sanitaria e le girava e le rigirava tra le mani. Forse pensava fossero come quelle figurine che cambiano immagine a seconda dell’inclinazione.
Ha ispezionato anche la marca da bollo.
Un paio di volte poi è sparito per andare dall’edificio 2 (a destra nella foto in fondo a questo post) all’edificio 1 (a sinistra). Io stavo pensando di scappare via temendo di invecchiare lì dentro ma la mia carta d’identità e la tessera erano troppo lontane oltre il vetro e col braccio non ci arrivavo.
Alla fine ne sono uscito alle 10:38 con l’agognata registrazione anagrafica, dopo aver trascorso quasi un’ora e mezza allo sportello. Trascorrere 90 minuti più tedianti penso sia soltanto la visione di Chievoverona – Frosinone il sabato alle 18.
Anche se non ho certezza su cosa sia peggio.
Eppure mentre ero lì a un certo punto ho percepito di non provare astio verso il puntiglioso burocrate. La sua insicurezza, le unghie malamente mangiucchiate, l’aspetto ingobbito, mi hanno fatto rendere conto che il suo schematismo fosse vittima di un ambiente – la burocrazia in generale – chiuso a tutto ciò che è vitale e umano e l’unica via d’uscita risiede nel cercare antidoti alla noia e alla ripetitività degli schemi da seguire.
Spero quindi che un giorno vincerà la propria battaglia.
Non allenandosi su di me, di certo.
Visto che non avevo allegato nel precedente post una testimonianza fotografica, ecco l’UI. Una casa, accogliente a dire il vero, il cui ingresso è ben evidenziato da una pratica freccia. Gli interni sono decorati da foto, ritagliate da qualche rivista, di animali domestici esotici e non (alle spalle del mio giornalista c’era un’iguana, nella sala d’attesa conigli e pappagallini invece), .
A completare le stranezze che causano spreco di tempo, c’è stato l’autobus. Stesso numero e stesso tragitto in senso inverso, soltanto che all’andata – dal capolinea della metro all’UI – ci sono 2 fermate, al ritorno ce ne sono 4. Il motivo mi sfugge, ma, in fondo, è proprio necessario cercare una spiegazione in tutto? Non siamo puntigliosi, suvvia.
Il seguente post è rilasciato per gli usi previsti e consentiti dalla legge.
In fede,
Gintoki