Non è che il sarto parli con un filo di voce

Oggi sono stato a casa dal lavoro.

Una frase che non mi suona corretta. “dal lavoro”, come se il mio posto solito di appartenenza debba essere il lavoro e tutto il resto delle mie attività siano un’alternativa al lavoro e qualunque altra cosa io faccia sia lontana “dal lavoro”. È questo che il capitalismo e i Carlo Conti della società vogliono farci credere, insieme al fatto che la cellulite sia una malattia e che il foglio di alluminio si debba usare col lato opaco all’interno o forse era il contrario.

Oggi quindi ero a casa.

Dieci minuti dopo aver avvertito BB (non Brigitte Bardot), il Tacchino mi ha scritto un messaggio. Ciao, puoi lavorare da casa?.

Gli ho telefonato con la mia voce del moribondo. La voce del moribondo è una cosa che nasce nel petto e matura nella laringe prima di esprimersi all’esterno. È importante la fase di maturazione laringea, la voce deve invecchiarsi il giusto per dar la sensazione desiderata.

Esistono vari livelli di moribondo, a seconda del tipo di malanno che ci si vuol attribuire.

– Livello discorso di compunto cordoglio generalista politico: una lieve indisposizione;
– Livello cantante improvvisato che al karaoke si cimenta con Rino Gaetano e si risveglia il giorno dopo con la raucedine: febbre/mal di gola;
– Livello Barbara d’Urso che commenta la tragedia di una famiglia sterminata da un editoriale di Selvaggia Lucarelli: malaria/tubercolosi;
– Livello calciatore rantolante sul manto erboso che si tiene una mano sul volto e una sul ginocchio sbagliato perché quello colpito è l’altro: prossimità alla morte.

Dicevo, gli ho telefonato dicendo che ero malato avendo un gomito che mi faceva contatto col piede e un attacco di congiuntivo da cui cercavo di guarire assumendo compresse di Cremonini e che, no, non potevo lavorare da casa non avendo accesso al server, perché non server a nienter.

Essendo lui un individuo che ha l’ansia come uno che per l’ansia che si rompano i preservativi durante l’atto li rompe lui stesso prima per tranquillizzarsi, mi ha detto Bene allora manda una mail a tutti in cui spieghi i progetti in corso le cose da fare e bla bla bla.

Io ho scritto alla Castora su Skype due righe velocemente e poi ho spento tutto e mi sono rimesso sotto le coperte a giocare con lo smartphone e ad autodiagnosticarmi dell’olio di palma su Google.

Oggi, comunque, ho fatto una scoperta: la casa durante la mattinata fa dei rumori diversi.

Sono abituato ai rumori di casa mia – scricchiolii, mobili che “tlaccano” (cioè che fanno tlac) – ma sono i rumori della sera o i rumori del weekend. I rumori della mattinata non li avevo mai ascoltati o non ci avevo fatto caso mai per bene.

All’inizio al primo rumore improvviso mi ero preoccupato e stavo quasi per sparare, ma non conosco le leggi ungheresi in materia e, oltretutto, anche se fuori era nuvolo c’era comunque luce.

Anche voi avete scoperto le vostre case fare rumori diversi quando le avete sorprese in orari non abituali?

Non è che le dai appuntamento da Tezenis per stare più intimi

Entro fine maggio lascerò Budapest. Oggi ho comunicato al Tacchino la mia decisione.

Tralasciando tutti i contrattempi che ho avuto e la casa che poi mi picchiava, facendomi capire di essere indesiderato, pure la pianta di aloe è defunta dopo che tra febbraio e marzo era invece diventata un cespuglio rigoglioso. Era ora di levar le tende.

Per di più il sostituto di CR è il sosia di Sam Tarly e io non voglio essere il suo Giòn Snò.

Il Tacchino, quando gli ho parlato, ha reagito di primo acchito con Oh.

Ho già raccontato che molti ungheresi soffrono di ohite. Sia che gli si stia chiedendo di affettare una baguette in panetteria che di posare il portafoglio durante una rapina, la loro reazione sarà sempre la stessa: Oh.

Io me li immagino così in ogni ambito della loro vita.

Prendiamo ad esempio due giovani, Gabor e Judith – nomi tipici locali – colti in un momento di intimità in tutto il loro impaccio e imbarazzo come solo un ungherese è in grado di creare:

Gabor: Cara…pensavo…visto che è da un po’ che ci frequentiamo…ti…ti andrebbe di farlo?
Judith: Oh!
Gabor: Se non te la senti…va bene…
Judith: Oh no no, lo voglio!
Gabor: Oh!
Judith si spoglia
Gabor: Oh!
Gabor si spoglia
Judith: Oh…
Si stendono
Gabor: Oh!
Judith: Oh!
Gabor: Oh!
Judith: Oh!
Gabor: Oh! Oh!…O…h…Oh!!!
Judith: Oh…
Gabor: Scusa…è che mi piaci tanto…
Judith: Anche a Zoltan di Balatonfüred piaccio tanto, eppure è durato di più!
Gabor: Oh!

Non è che vai all’ufficio oggetti smarriti perché hai perso il lavoro

Avrei voluto iniziare la settimana Pasquale parlando di una tradizione folkloristica che c’è qui in Ungheria proprio per il giorno di Pasqua e che consiste nel fare un gavettone alle ragazze.

Questo venerdì, invece, un po’ in anticipo con questa tradizione, è arrivata una doccia fredda su CR.

È stata licenziata.

Senza preavviso. A meno che con preavviso non debba intendersi il “Mi spiace, devo darti una brutta notizia” da parte del Capo Tacchino. Al che alzo le mani. Su di lui.

La cosa strana è che le hanno sì comunicato di licenziarla ma davanti le hanno presentato un foglio di risoluzione consensuale da firmare. Non mi è ben chiaro dove risieda il consenso del licenziato. È un po’ come quando il Prof al liceo mi diceva “Gintoki, ti offri volontario o ti chiamo io?”.

La motivazione del licenziamento è che non la ritengono adatta a questo lavoro.

Dopo tre anni e mezzo e tre rinnovi contrattuali – fino all’ultimo dello scorso anno, a tempo indeterminato – è un po’ tardiva come presa di coscienza! Ma qui magari amano prendersi un tempo per ogni cosa.

La verità è che da quando il Tacchino è salito al rango di Capo l’estate scorsa, dando anche più spazio alla Castora, i rapporti col management si sono deteriorati alquanto. Mancava poco ci si scambiasse lanci di saliva negli occhi durante le riunioni.

Dopo aver ricevuto la pessima notizia, CR ha ricevuto una mail personale da parte della Castora in cui le comunicava tutto il suo dispiacere per una decisione che comunque fa bene a entrambi – società e dipendente – e le augurava poi tante care cose.

I rispettivi uffici distano due metri in linea d’aria e due porte di separazione. Lei però manda una mail. Purtroppo soffre di una grave forma di sbilanciamento del peso verso il deretano, che la porta a limitare i movimenti. Lo cantano anche Tiziano Iron e Carmen Sconsoli: Pesare il culo con entrambe le mani ci vuole coraggio.

Quando ha dato la notizia a me e S. la stagista, il Tacchino mi ha anche detto che sarei stato io il Senior dell’ufficio da ora in poi. Ne avrei fatto volentieri a meno.

Deve aver letto i miei pensieri, perché poco dopo, quando ha inviato una mail a tutti ringraziando CR per il lavoro svolto, ha scritto che la Castora coordinerà ora le attività.

Considerando che lei ha i modi di una tiranna sarmatica, la cosa non mi suona piacevole.

Praticamente io sono un Senior Pupazzo Rockfeller. Sento già la mano di lei nel sedere e i video su YouPorn: Hungarian longteeth & lazy ass, fisting Neapolitan Cat Worker.

Non è che per descrivere il Cenacolo parti con “Cena una volta…”

Prima di scrivere questo post ho riflettuto a lungo, per capire se realmente me la sentissi fino in fondo di condividere l’esperienza traumatica che ho vissuto.

Sono giunto alla conclusione che, forse, aprirmi e raccontare potrebbe aiutare altre persone a farsi coraggio e portare all’attenzione dell’opinione pubblica un tema così delicato.

La cena di Natale aziendale.

Ieri sera ho avuto la mia seconda cena natalizia con la Società di qui a Budapest.

L’anno scorso mi tediava un po’ l’idea di parteciparvi. Più che altro era dovuto alla mia avversione per i contesti sociali nuovi. Un po’ come portare un gatto in vacanza: la vivrà come un trauma.


Il primo giorno.
Dal secondo comincerà a farsi le unghie su ogni superficie raggiungibile dalle sue zampe.


Alla fine fu però una cena squisita – ancora sogno quel carpaccio di pescespada – e molto elegante. Non elegante come quelle di Berlusconi, s’intende.

Quest’anno, con la nuova direzione Tacchino&Castora, l’organizzazione era tutta a sorpresa.

Ci hanno portato, ignari della destinazione, camminando al freddo e al gelo, verso un edificio malmesso e chiuso da un immenso portone di ferro arrugginito.

Una ragazza ha aperto e ci ha condotti verso un seminterrato gelido e umido. Lì è stato chiaro che prima della cena ci sarebbe stato un gioco come aperitivo: il luogo trattavasi infatti di una escape room.

Il gioco sarebbe stato anche divertente, se non fosse che mi ritrovavo con la Castora in squadra. In quanto persona assetata di potere e protagonismo, non lasciava esaminare un enigma o una suppellettile della stanza senza che intervenisse a togliertelo dalle mani per dare ordini o dire la propria.

A un certo punto, esasperato, ho pensato di trastullarmi col mio pene e dirle “Vuoi sottrarmi anche questo?”, ma ho desistito perché sono un gentiluomo.


E perché faceva troppo freddo e non mi andava di far brutte figure.


Finito in qualche modo il gioco, è arrivata la seconda sorpresa: la cena si sarebbe tenuta lì dentro. Al freddo e al gelo in un seminterrato a grotta, per onorare la memoria del Sacro Bambino, probabilmente.

La terza sorpresa – e a questo punto eran già troppe – è stata che la cena consisteva in: tranci di pizza di Mamma Sophia.


E non era una gentile signora, la pizzeria si chiama Mamma Sophia. Non capisco perché il fake italiano all’estero debba essere sempre brandizzato “mamma”, “nonna”, “nonno”: e il cugino? E il cognato? Perché non ho mai visto una “Trattoria del cognato”? Cos’è questa discriminazione?


Queste sono le pizze della famosa “Mamma Sophia”:

mammasophia

E qualcuno potrebbe dire “Mah! L’aspetto non sembra male!

No.

Questa non è pizza.

Questa è pizza:

La pizza di Gino Sorbillo

Una volta per tutte: cornicione alto e soffice, l’interno non deve essere croccante e la mozzarella non deve essere ridotta in particelle atomiche bruciacchiate.

Tra l’altro, provenendo dall’esterno dove c’erano -4°, la pizza è arrivata con un principio di assideramento.

Nessuno inoltre aveva pensato che S., la stagista presente nel mio ufficio, non può mangiare farinacei. La poverina è andata al supermercato a comprarsi insalata e tonno (non a sue spese, precisiamo).

La quarta sorpresa erano i regali. Bisognava scegliere un pacchetto a caso e io mi sono fiondato su uno dalla forma familiare: o erano due bottiglie di vino o le guglie di Notre Dame. Era vino.

La quinta sorpresa era che, una volta scartati tutti i regali, ce li saremmo giocati a dadi. 5 turni a disposizione e ognuno poteva scegliere chi sfidare per vincergli il regalo. Nel qual caso, gli avrebbe dato in cambio il proprio.

Per 4 volte di seguito sono stato sfidato dall’ex capo, che puntava al mio vino. Ingordo, in quanto dal suo pacchetto era uscita una bottiglia di crema di liquore irlandese con due bicchieri.

Dopo averlo battuto tre volte – e la terza con un sorprendente 11 contro il suo 10 -, alla quarta ho dovuto capitolare.

Stavo già beandomi comunque della crema di liquore, quando la Castora nell’ultimo turno ha deciso di sfidarmi. Ho perso e alla fine mi sono ritrovato con una candela profumata:

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Credo che a me sia andata peggio di tutti gli altri.
Perfino di B.B. (non Brigitte Bardot), che è tornata a casa con un asciugamanino con su ricamato “Mr”.

Insomma, una tovaglietta da culo pur se maschile può sempre tornare utile, io cosa faccio con una candela profumata?

La accendo mentre faccio un bagno di schiuma come una diva del cinema? Non posso, non ho la vasca da bagno.

La accendo durante una cena seduttiva?
Neanche.
Qui a Budapest mi troverei solo io e il mio notebook con un video di Sasha Grey che, poverina, non potrebbe annusare la fragranza e quindi sarebbe tutto sprecato.

La cena delle beffe non è finita qui.

Al termine abbiamo anche dovuto ripulire tutto.

Sono ancora sconvolto dall’accaduto, ma scrivere mi ha fatto sentire meglio.

Non è che la gallina si faccia portare i bagagli dal tacchino

In quest’epoca di food-pornography sono contento di essere tra quelli che preferiscono ancora praticare, piuttosto che guardare o compiacersi nell’immortalare.

Assumendomi tutti i rischi del caso, perché riempirsi come un tacchino non è attività salutare. Eppure in questi giorni le cose vanno così, tocca adattarsi.

Dovevo capirlo sin dal mio ritorno che queste feste sarebbero state armate di cattive intenzioni.

Arrivo il 22 sera e mia zia mi propone una pizza: Sono mesi che non ne mangi una! esclama.
In realtà sarebbe un mese, ma nella testa dei parenti subentrano meccanismi di relatività temporale.

Il giorno dopo: pasta al forno di Madre.
La sera: un’altra pizza.

Tralasciamo 24, 25 e 26 pranzo per rispetto delle menti più impressionabili: veniamo a ieri sera. A cena faccio fuori dei tortellini avanzati, perché lo stomaco è come una trincea: nulla deve avanzare oltre!
Esco.
Chiama un amico: ha preparato una genovese che è ansioso di far gustare. Gli si dice di no? Giammai.

Forse era meglio il food-porno.

In questi giorni è un’attività che si è intensificata, dando vita anche a battaglie tra generi. Carnivori vs Non carnivori. Come se domani su YouPorn comparisse un duro confronto Anal vs Non Anal. Me li immagino i commenti delle due fazioni: È contronatura! Chi se ne frega, io lo faccio lo stesso, alla faccia di voi Non Anal! L’OMS dice che è dannoso se fatto tutti i giorni con un cavallo! e così via.

Così, da una parte c’è chi posta foto di un bue muschiato gettato direttamente in pentola con le verdure (perché due verdurine ci stan bene per mangiare sano, che non si dica che non si è attenti alla salute) alla faccia di chi non sa cosa si perde, dall’altra chi posta foto di un bel tacchino vegano ripieno, alla faccia di chi si avvelena con cose morte.


Perché non possono morire entrambi, alla faccia loro?


Che poi io vorrei che i vegani/vegetariani mi spiegassero perché mai chiamino i loro cibi con nomi carnivori.

A volte ho fatto acquisti in negozi vegani e sono sempre rimasto colpito dai nomi dei prodotti, infatti.
Mi dovrebbero dire il perché dell’esistenza del salame vegano, del prosciutto vegano, della bistecca alla fiorentina vegana. Chiamateli sguazz, blablidi, grugrugrul, inventate dei nomi a caso, insomma. Ma non si può sentire “carne alla pizzaiola vegana”. Giuro, ho visto un preparato in busta per fare la carne alla pizzaiola. Vegana.

È come se il brodo di pollo lo chiamassi “brodo vegetale carnivoro”, il formaggio di capra “tofu carnivoro”, gli hamburger “seitan di carne”.


Parentesi cibi vegetariani
Sono uno che comunque cerca di limitare il consumo di carne. Così, come dicevo, mi è capitato di acquistare prodotti alternativi nei negozi specializzati o nei supermercati, dove, sarà per “moda”, almeno nelle grandi città non è difficile reperirli.

A Budapest è un altro discorso.
Credo che lì i vegetariani vengano espulsi dal Paese.

Gli unici prodotti vegetariani li ho visti in un dm (negozio di una catena tedesca) e consistevano in un paio di confezioni di hamburger, di wurstel e dei tortellini di tofu che credo non acquisti mai nessuno. Quando ho preso gli hamburger, la cassiera ha fatto una faccia schifata e poi mi ha guardato con sufficienza secondo me pensando “E tu ti definiresti un uomo?…Il mio fidanzato uccide maiali a mani nude e li trasforma in prosciutti”.