Non è che fai una rivoluzione contro il regime alimentare

Ci sono cose di cui non hai mai sentito parlare e poi, d’improvviso, vengono nominate intorno a te più volte in poco tempo.


Magari si tratta di cose in giro da tempo ma che, nel mio caso, non mi arrivano perché ho un firewall che tenta di respingere il più possibile ciò che so non mi interesserà mai.


Questa settimana questo fenomeno si è verificato riguardo a quel che sembra l’ultimo ritrovato nel campo delle diete fai-da-te. La dieta chetogenica.

Nel giro di due giorni tre persone diverse me ne hanno parlato. Senza che io avessi chiesto di parlarmene, o entrassi in argomento del tipo “Ehi, per caso attualmente stai mangiando in base a quel che hai letto su Novella2000?”.

Però il nome mi incuriosiva. Tentavo di ricavarne un’etimologia: chetogenico. Generatrice di cheti? Rende chete le persone? Sarebbe fantastico!


No, purtroppo a quanto ho capito non serve a chetare. Un altro nome ingannevole per ingannare i gonzi come me! 


E non fatemi parlare di quando imboccai speranzoso Via Santa Passera a Roma. Una delusione.


A pensarci però potrebbe anche avere un che di inquietante: Chetogenico. Potrebbe essere un esemplare di una razza aliena malvagia.

Sono abbastanza integralista e intollerante verso chi sperimenta regimi alimentari senza supervisione di un esperto e, talvolta, senza effettiva necessità.

Per carità, ognuno col proprio corpo ci fa quel che vuole, ma a volte penso alle persone che si trovano realmente costrette per ragioni di salute o intolleranze a dover seguire un determinato regime e poi penso a quelli che, per sfizio, provano la dieta del fico secco o la dieta del salto della quaglia perché così gli gira.

O, ancora, penso a quelli che hanno deciso che bisogna mangiare senza glutine senza avere alcun problema. E la mia mente invece va a una mia amica che è celiaca sul serio e che le basta che una briciola di pane le cada sulla mano per avere una reazione allergica e vorrei prendere costoro a calci nel didietro per giorni fino a costringerli a una dieta senza glutei.

Il lato positivo di quest’ultima moda è che ora i supermercati sono più forniti di prodotti senza glutine e la mia amica ha meno difficoltà a trovare cibi adatti a lei.

Chissà, magari ci saranno risvolti positivi anche dall’invasione dei chetogenici. Magari stramazzano al suolo provati dall’alimentazione sbilanciata e non me ne parlano più.

Non è che l’erede al trono comprenda gli ultrasuoni perché è un Delfino

Nel precedente post avevo detto che avrei raccontato qualcosa in più sulla mia esperienza islandese. Ho riflettuto su cosa potessi dire:

– Che i giovani di Reykjavík amano sgommare ai semafori provando partenze da F1 e comportandosi proprio da kjavik?
– Che la birra è acquistabile solo nei negozi che hanno la licenza del monopolio statale, quella invece venduta nei supermercati fa al massimo 2,0 gradi, praticamente conviene sballarsi di RedBull?
– Che un tizio voleva a tutti i costi andare in giro in escursione con l’ombrello e credo a quest’ora stia sorvolando il Baltico, aggrappato al suo ombrellino?

E poi ho pensato di parlar di cetacei.

Le balene vengono nei fiordi dell’Islanda a trascorrere l’estate, mi han raccontato. Passano lì alcuni mesi per riposarsi perché non ci sono rotture di maglioni.

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Turisti sporcaccioni che lanciano tanga nell’oceano

Proprio pensando alle rotture di maglioni, ho chiesto alla guida che accompagna i turisti in nave a veder cetacei se tali attività non fossero di disturbo agli animali.

– Caghiamo di sicuro loro il cazzo.

Mi ha fatto capire.

Poi ha aggiunto:

– Ma, per quel che facciamo, al livello di una mosca per noi.

Io odio le mosche, quindi la sua risposta non mi ha rassicurato.

E poi mi ha spiegato come si approccia un cetaceo in modo da non arrecargli stress o non dargli modo di pensare che vogliamo andare in culo alla balena.

Innanzitutto non si usano metodi di ricerca tecnologici per trovarne una. Niente Tinder o siti di incontri, quindi. Si procede vecchia scuola: si naviga a vista osservando il pelo. Il pelo dell’acqua, s’intende.

In genere le balene salgono in superficie per respirare e poi si immergono per un periodo che va dai 5-6 agli 8-9 minuti. Dipende da che polmoni c’ha e se è fumatrice o meno.

Una volta avvistata si procede nella sua direzione e poi ci si ferma a debita distanza aspettando che riemerga.

Ma se l’animale non ha voglia di farsi vedere, vuoi perché si scoccia, vuoi perché non si è truccata o non si è fatto la barba e quindi si vergogna a non farsi vedere in tiro, può anche riemergere molto più lontano e fregarti! Questo è un chiaro messaggio che non vuole incontri ravvicinati e che quindi va lasciata stare.

Ricordate: se la balena dice No, vuol dire no. Non è tipo da far giochetti del tipo “Scappo perché voglio che tu mi insegua”.

Se invece è tranquilla e rimane in zona, la volta successiva che riemerge ci si può avvicinare di più. L’accortezza è quella di non tagliarle la strada passandole davanti: non è bello sentire una balena che ti bestemmia gli antenati e ti urla Chi ti ha insegnato a navigare?!.

Dopo averla seguita da dietro e aver appurato che si sente tranquilla, la si può affiancare.

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A quel punto lei ti guarderà un po’ di sottecchi come quando accosti qualcuno al semaforo che pensa tu lo voglia sfidare.

Dopo averti osservato e deciso che sei senza dubbio un parvenu, con uno sbuffo e una scodata si immergerà di nuovo, sdegnata, e filerà via come fanno i giovani di Reykjavík .

A quel punto sarà chiaro che i cetacei sono dei tamarri.

L’esemplare avvistato era lungo circa 7 metri. Pensate in città che scomodità sarebbe parcheggiarlo.

Non è che devi dire alla gente di scansarsi prima di lanciare un prodotto sul mercato

Il marketing è tra le cose che mi affascinano di più.

La genialità sta nell’andare sempre incontro ai bisogni della gente, di prevederli o anche, come sosteneva Stefano Lavoro, di crearli laddove non ce ne sono.

Così, quando qualcuno ha iniziato a diventare oliodipalmafobico, sono iniziati a comparire prodotti senza tal ingrediente.

Quando ha preso piede la follia collettiva del mangiare senza glutine pur non essendo celiaci, i supermercati hanno raddoppiato gli scaffali di prodotti gluten free.


Almeno questo è un bene per i veri celiaci, ovviamente: 15 anni fa ricordo che una mia compagna di classe, celiaca, doveva andare a comprare il cibo a 20 km di distanza. Su ordinazione.


Il cibo gourmet. Passi quello preparato da uno chef stellato, ma che il pub di Giggino il zozzoso serva un panino 5 piani hamburger, bacon fritto, anelli nuziali di cipolla, cheddar esausto (il famoso cheddar una volta…) funghi tribolati (hanno subìto maltrattamenti) con soppalco (abusivo ma poi condonato) di parmigiana di melanzane con totale di 1500 calorie – contorno di patate fritte nell’Agip Sint 2000 escluse – e me lo faccia pagare 13 euro perché “è gourmet” mi sembra un po’ una truffa.

La guerra dichiarata da alcuni anni alle taglie 40 e ai modelli di fisico troppo distanti dalla realtà ha indotto molte case di moda a utilizzare modelle di taglie superiori e/o non ritoccate con Photoshop.

Anche in questo caso, può essere visto come un bene e un piccolo passo di civiltà. Io non posso fare a meno di vederlo come un semplice tentativo di crearsi e/o esplorare altre fette di mercato, con buona pace della civiltà.

Non voglio comunque entrare nel merito di ciò, anche perché c’è già tanta gente che dibatte su quale utilizzo fare del corpo femminile. E quelli che dibattono, tipo me, non hanno neanche un corpo femminile. Alcuni non hanno neanche un corpo ma solo una testa di cazzo.

Tutti gli esempi che ho fatto sono soltanto propedeutici alle mie riflessioni su come entrare nel mondo del marketing, in quanto prima o poi debbo decidere cosa fare da grande.

Ho pensato quindi a delle idee che, forse, in futuro potrebbero ispirare nuove linee di prodotti appositi dopo una adeguata campagna di sensibilizzazione sociale.

Il gluteo-free: secondo uno studio dell’Università di Baden-Baden, nel Baden-Württemberg (Baden-Germania, Baden-Europa Centrale) la costrizione continua dei muscoli delle natiche ad opera dei capi di abbigliamento (in particolare i jeans) sarebbe collegata all’insorgenza di patologie. A prescindere da quali esse siano, se c’è una patologia e si indossano dei pantaloni, il collegamento è immediato anche se i grandi marchi di abbigliamento tendono a negare.

Sarebbe quindi consigliabile indossare capi che lasciano le natiche scoperte. Tra le star questo stile di vita è già noto e tra le prime a proporre il vestiario salutista fu, in tempi non sospetti, Christina Aguilera, qui in una diapositiva durante una convention gluteo-free:

Il gluteo-free è una filosofia perfettamente compatibile con la propria vita, come dimostra questo distinto signore che si reca al lavoro in scooter:

– Un altro studio, comparso sulla rivista di divulgazione scientifica Confidenze (che confida nel fatto che tu non lo dica ai Poteri Forti), ha invece illustrato i vantaggi della dieta Vegana.

Il corpo umano, infatti, seppur celebrato come macchina perfetta, si presenta alquanto debole e fragile.

Ne sa qualcosa Actarus, che per difendere i Terrestri dai forti nemici guidati dal Re Vega, deve ricorrere a un’astronave-robot. Che cosa mangiavano mai i Vegani per essere così grossi e temibili?

Vegani soddisfatti dei loro fisici possenti frutto di una corretta alimentazione.

D’altro canto, Goldrake sconfiggeva i Vegani mangiando libri di cibernetica e insalate di matematica, quindi secondo alcuni dissidenti il segreto di longevità sarebbe una dieta contro-Vegana!

– Il Professor Vlad dell’Università Carpatica della Transilvania, infine, ha illustrato il suo punto di vista sulla dieta del gruppo sanguigno.

Secondo il Professore, una dieta ben bilanciata deve contenere la giusta alternanza tra A, B, AB e 0.

Non d’accordo con lui il Professor Van Helsing, ma quest’ultimo è pagato dalla lobby dei venditori di aglio.


Questo post non intende offendere o deridere coloro che, per scelta o obbligo di salute, seguono un regime alimentare particolare. Ha invece l’intento di offendere e deridere coloro che si auto-prescrivono regimi alimentari secondo gli orientamenti del webbe.


Se non sono riuscito nell’intento di offendere e deridere coloro che si auto-prescrivono ecc. mi emendo.


Non è che il fruttivendolo non abbia più argomenti perché è alla frutta

Volevo condividere un fenomeno strano che mi accade.

Prima di acquistare della frutta al supermercato la sottopongo sempre  a un accurato controllo degno di un NAS (Nobile Amante del Saccarosio) volto ad accertarne l’integrità. Il tempo di arrivare a casa, però, e la trovo già in stato di decadimento psico-fisico.

Da notare che vivo a 200 metri da un supermercato, 800 da un altro: per arrivare a casa intendo quindi casa di qui, Budapest, non casa giù a Napoli; un tragitto lungo che invece giustificherebbe il decadimento fruttario ma che non ho mai tentato, non volendo aver problemi ai controlli all’aeroporto ed esser accusato di esportazione/importazione illegale di frutta, cosa che mi costringerebbe poi a trovar un buon avocado.

Ho elaborato alcune ipotesi.

1) Viviamo in un mondo insalubre, permeato da aria mefitica e irradiato da influssi venefici. Essendo la frutta più sensibile a tale malignità, finisce per risentirne molto più in fretta degli esseri viventi. I supermercati sono luoghi – come pochi in giro – ben protetti da tali radiazioni. Ci si sta bene all’interno: prova è che la gente vi passa molto tempo, anche quando vi entra per comprare soltanto mezza cipolla rinsecchita per un frugale soffritto.

Alla fine ne uscirà invece dopo un’ora col carrello pieno di tutto, tranne che della cipolla, per avere una scusa valida per tornare in un così bel posto e godere del suo benefico fattore protettivo (che, come ho detto all’inizio, protegge la frutta dal deperimento istantaneo).

2) La frutta è vittima della stessa sorte dei pesci rossi che da bambini si acquistavano al mercato: in perfetta salute nella vasca fetida di un losco individuo ma che una volta a casa erano pronti per il loro viaggio senza ritorno giù lungo lo scarico del water.

L’esperienza del pesce rosso comportava costi economici ed emotivi alla famiglia e vantaggi al losco trafficante e forse anche ai pesci stessi, che fingevano la loro dipartita per acquisire la libertà; quindi oggi negli scarichi potrebbero vivere gang di enormi pesci rossi, che hai contribuito a creare fornendo loro in pratica un servizio taxi, il che, come la gente impara sull’internet, ti qualificherebbe come una ONG che sta distruggendo Uber.

3) La frutta è programmata per autodistruggersi perché contiene messaggi che spie (nemiche? Amiche?) si stanno scambiando, il che metterebbe te, ignaro acquirente, al centro di un traffico internazionale di informazioni con gravi rischi per la tua incolumità.

4) Si tratta di frutta-soldato, con preparazione militaresca. Quindi, ad esempio, la pera…marcia.

5) La quinta ipotesi, che mi sembra la meno probabile ma che qui cito solo per rigore scientifico (anche se sto cercando di abbandonare tali manie da professorone perché, come mi insegnano, la vera cultura è la vita, infatti ha anche fondato una Università prestigiosa) è che la frutta che vendono sia una vera merda.

Fornirò ulteriori aggiornamenti nel caso io riesca a venire a capo di questa angosciosa e inquietante questione.

Foto di repertorio non mio (non ho repertori di frutta nel mio repertorio)

Non è che se i conti tornano gli altri nobili invece se ne restino via

Tornerò a Budapest.

Sussistono diversi punti positivi in questa vicenda. Fare un lavoro che già conosco, con persone che già conosco, in una città che già conosco. E per “conoscere” intendo “conoscere”, non “conoscere” per modo dire. È la stessa differenza che ci può essere tra conoscere una persona passandoci del tempo insieme e conoscerla sapendo che scarta i pomodori nelle insalate e va a letto con i calzini ai piedi.

Conoscere una città per me vuol dire sapere di dover fare la spesa in tre supermercati diversi, perché uno è più economico, in un altro prendi il pane che è migliore e nel terzo hanno il latte di soia al cioccolato più buono.

La cosa che mi tedia è il pensiero di dover partire di nuovo, armi e bagagli, e cercare casa.

Finora nelle precedenti esperienze me la son sempre cavata, non sono finito sotto un ponte o in case con un cadavere murato all’interno.

È proprio l’atto di ricerca che mi annoia. Spulciare annunci, identificare truffe, evitare topaie.

Va detto che qualcuno agevola il compito perché è onesto. Oggi ho visto l’annuncio di un monolocale. Abbastanza normale. Poi sono arrivato alla foto del cucinotto. O meglio, un angolo tra due pareti riempito da (leggere con la voce di Paolo Villaggio che descrive le peripezie di Fantozzi):

  • lavello di alluminio incrostato di calcare esausto malamente agganciato al muro, con secchio di plastica verde vomito al di sotto del sifone per raccogliere le perdite
  • sedia modello Quarta Internazionale su cui è poggiato un bollitore di tè dal design “Ogiva di missile Semyorka”
  • Mensola inchiodata di sbieco da falegname ubriaco di Pálinka, che regge un forno a microonde (che sembra nuovo, a essere sinceri, ma magari è solo dipinto)

Io volevo contattare l’autore dell’annuncio per complimentarmi dell’onestà. Non si è manco sforzato di togliere il secchio sotto al lavello, che dà subito l’idea che lì forse qualcosa non funzioni.

Cercare casa è una rottura.

Vorrei essere ricco.

Non per avere ville e Ferrari. La ricchezza si esplicita secondo me nella praticità.

Ad esempio, un uomo ricco partirebbe con solo i propri vestiti addosso e una valigetta, lasciando il compito a qualcun altro di trasferire tutti i suoi bagagli.

Un uomo ricco troverebbe già una casa pronta, perché qualcuno gliel’ha già trovata.

Un uomo ricco forse non avrebbe bisogno di trasferirsi in Ungheria: è l’Ungheria che verrebbe da lui!

Non è che hai simpatia per i monelli solo perché ti mancherà quella piccola Pest

Ricordo quando sbarcai a Budapest, il 26 novembre scorso.

L’aereo mi sputò in mezzo al nulla. C’erano 3 gradi di temperatura e nevischio e mezzo chilometro da fare a piedi in mezzo alla pista lungo un percorso di ferro che sembrava l’ingresso di un mattatoio.

Avevo dimenticato come fosse low cost il trattamento riservato ai viaggiatori low cost.

L’altroieri sbirciavo il tabellone dei voli, in attesa che comparisse il mio gate di partenza e, nel frattempo, mi divertivo a immaginare come fosse andare in una località a caso tra quelle in lista.

Finalmente poi viene annunciato il gate: A17.

Mi incammino fiducioso. A1…A4 (il preferito dalle stampanti)…A9…A11. Stop.

C’è qualcosa che non va. L’aeroporto è terminato.

Poi, sulla sinistra, noto un foglio stampato con una freccia che indica A12-A19. Mi incammino di nuovo fiducioso giù per delle scale.

Sono un po’ meno fiducioso quando mi trovo all’esterno. Scendo altre scalette e mi ritrovo di nuovo nel percorso-mattatoio.

Sono arrivato al gate poveracci: è un capannone di ferro. Grazie Budapest, mi hai fatto tornare alla mente il mio arrivo, come fosse una madeleine di Proust che poi sembra non fosse una madeleine.


Si dice, infatti, che nella prima stesura di Alla ricerca del tempo perduto non ci fosse alcuna madeleine ma l’equivalente di semplici fette biscottate.


Ci sono altre cose che ricorderò di questi sei mesi qui, cioè, lì.

L’odore che mi accoglieva quando entravo nel sottopassaggio di Nyugati, dalla fermata dei tram 4/6 che tagliano in due la città da Pest a Buda. Lì sotto c’è una hamburgeria che penso serva vomito di hamburger fritto, almeno a giudicare dall’odore di rancido misto a olio esausto misto ad afrore di ascella di runner con tuta di acrilico che pervade quel sottopassaggio.

Al Szimpla, locale labirintico dove se non ci si sta attenti non si esce più – i barbuti che si incontrano lì non sono hipster, è gente dispersa da anni lì dentro stile Cast Away– una cameriera ogni tanto fa il giro e distribuisce carote. Alla mia curiosità la spiegazione è stata che assorbono alcool. Io resto perplesso: se bevo, perché mai dovrei voler asciugare l’alcool?!

La rigida osservanza di alcune regole civili: ad esempio, le persone in fila alla cassa – i supermercati sono i miei luoghi preferiti per osservare il mondo – non posano la propria spesa sul nastro finché quello davanti non mette il divisorio.


Tale e quale come succede dalle mie parti, una volta avevo comprato farina, pomodori e mozzarella e poi è arrivato un tale che, senza attendere, ha riversato la sua spesa sopra la mia: alla cassa ho pagato una pizza margherita.


Una volta ho fatto una prova – la scienza non può avere remore se vuol arrivare alla conoscenza – e non ho piazzato il divisorio: se non fosse stato per la cassiera, quei poveretti dietro sarebbero ancora lì in piedi ad aspettare.

Il vero ricordo di questa esperienza è comunque lui. L’uomo-sandwich di cui avevo parlato qui.

Un eroe dei nostri tempi. Premio Stachanov. Mattina e sera, sole, pioggia o vento, lui è lui a trascinare quel cartellone. Credo, tra l’altro, che ogni tanto cambi articolo: quel che sta pubblicizzando nella foto dell’altroieri è il làngos (pronuncia làngosh), un tipo di frittella su cui sopra ci si può versare di tutto, panna acida, pollo a pezzettini, uova e prosciutto, patate e cipolla, buoi muschiati, servi della gleba e così via.

Ho censurato perché non sta bene fotografare le persone per strada. È un peccato non possiate godere del suo sguardo vivo come una monografia sul cinema muto armeno. Vorrei vedere te, sembra dire. Infatti io sarei ancor peggio.

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Sullo sfondo, a destra, il pullman che produce cinesi.


Non è che all’orologiaio nervoso si sia rotto il Casio

Avevo due post in mente quest’oggi ma che non vedranno la luce perché la serata è svoltata in negativo e, come mi accade in questi frangenti, mi trovo ad aver a che fare con la rabbia che monta e si accresce livello su livello. Costruisco castelli di rabbia.

Non so se sia un bene o un male ma mi trovo sempre da solo con i miei scatti di nervi e non so come sfogarmi. Allora cammino per la stanza, mi fermo, guardo fuori la finestra, agito i pugni per aria, cammino di nuovo e poi mi fermo e respiro gonfiando la pancia più che posso. È tutto inutile perché vorrei qualcuno con cui litigare e forse potrei prendermela con me stesso ma il problema è che dopo non posso dividermi.


E meno male che non mi trovo in Scandinavia: sennò avrei i nervi a fiordi pelle.


Comincio inoltre a mal sopportare questo Paese e le paranoie dei suoi abitanti.

Ad esempio, sono quasi quattro mesi che vivo qui e vado a comprare cose almeno 2-3 volte la settimana allo SPAR sotto casa, perché anche se devi comprare solo una cipolla per il soffritto è comodo.


Tanto poi finisce sempre che compri altre cose. E ovviamente dimenticherai la cipolla.


Ovviamente, non possono ricordarsi di me, visto che ogni giorno sarà frequentato da un centinaio di persone come minimo.

Ma almeno una volta a settimana mi capita di essere spiato da un sorvegliante. Inizialmente pensavo fossi io paranoico, ma dato che questa sensazione l’ho avuta più volte e con diversi sorveglianti e, soprattutto, soltanto in questo supermercato – in altri, seppur presente sorveglianza, non mi sono sentito a disagio – ho cominciato a pensare che fosse reale la mia impressione. Forse a volte è sospetto il mio girare avanti e indietro per una stessa corsia più volte, ma è soltanto perché, come accennavo in un altro post, qui la merce è esposta secondo il principo del “Dog’s Dick” e delle volte non trovo ciò che mi serve.

Già un po’ mi avevano rotto il Caucaso, come disse Stalin quando la Wehrmacht dilagò sul fronte orientale.

Quest’oggi siamo andati oltre.

Per comodità, io non prendo carrello o cesto ma uso la mia borsa della spesa personale, perché a me piace quando una cosa è sporta.

Nessuno mi ha mai detto nulla né lì né altrove né in altri supermercati che ho frequentato nella mia vita.

Questa sera, dopo che ero stato spiato da quello che credo sia il proprietario – un tipo che somiglia a Bob Kelso il primario di Scrubs -, un sorvegliante mentre ero in fila alla cassa mi ha avvicinato e prima voleva ispezionare il contenuto della borsa, poi mi ha chiesto se io avessi lo scontrino.


Ovviamente la conversazione è avvenuta tramite un’altra cliente che ha tradotto in inglese.


Devo dire che sono sempre più sorpreso da quanta gente qui, di diverse fasce d’età, parli un inglese quantomeno di livello base.


Io gli ho fatto presente che dovevo pagare prima per avere uno scontrino! Al che è stato chiarito l’equivoco: mi ha detto di non usare la borsa ma il cesto perché sennò si potrebbe pensare che io abbia con me merce presa all’esterno e la cosa poi genererebbe equivoci spiacevoli.

Ha senso e gli do ragione. E quindi non lo farò più.

Anche perché non entrerò mai più in quel supermercato.

Il lavoro intanto in questi giorni non sta procedendo bene.

Poi si è aggiunta la padrona di casa.
La vera padrona di casa, tornata di recente dalla Spagna. Fino a ora avevo avuto a che fare con la sorella minore, da lei delegata.

Padrona di casa ha deciso di attentare alla stabilità del sacco scrotale.
E io comincio a essere un po’ stanco di padrone di casa freakkoborghesi (borghesi freak) e dei loro modi impeccabili e signorili ma che sembrano celare tentativi di pegging non richiesto.


Cioè l’atto tramite il quale una donna penetra un uomo.


 

Non è che il vegano romano imprechi dicendo ‘tacci soia

Supermercato.
Arrivo alla cassa contemporaneamente a una ragazza che sopraggiunge da un’altra direzione. Le faccio segno di passare avanti, mi guarda interdetta e non si muove. Debbo insistere. Lei si adegua, ancora interdetta.

Comprendo che qui non siano avvezzi alla cortesia, ma che non mi guardassero come un alieno perché già mi capita di sentirmi strano di mio.


Oppure forse il gesto che ho fatto qui è fraintendibile.
Una amichevole mano aperta col palmo all’insù che si allontana da me e indica la cassa probabilmente qui significherà “Che ne direbbe di sdraiarci insieme così le mostro che è allungabile da qui sino a lì?”.


Non è l’unica cosa nei supermercati che mi ha dato da pensare di recente.

La frutta e la verdura, ad esempio.
In alcuni punti vendita è necessario pesarla ed etichettarla, in altri no, seppur facciano parte della stessa catena. Non comprendo il principio della differente scelta. Se capita di frequentare indifferentemente uno o l’altro supermercato, può capitare di presentarsi alla cassa senza il prodotto etichettato perché per la fretta ci si è confusi. La cassiera allora ti redarguirà e getterà il sacchetto in un angolo con vibrante disprezzo.

Ovviamente non rifarai la fila per 3 pomodori che volevi mettere in un’insalata e questo è fonte di frustrazione per uno che di suo già si ciba di un numero limitato di ortaggi e che si vedrà privato del giornaliero apporto di nutrienti.

Ci sono cassiere che invece si prendono la briga di andare a etichettare il sacchetto oppure chiedono a qualcuno di farlo o ancora chiedono il prezzo a una collega e lo digitano alla cassa. Ma non sono mai capitate quando ero io ad aver dimenticato l’etichetta oppure erano alla cassa di fianco la mia.


Che un po’ legge di Murphy come il principio de “La fila di fianco è sempre più veloce”: studi scientifici dicono che sia un inganno della mente, perché il cervello enfatizza la lentezza della nostra fila e sottostima quella della fila accanto, che, in realtà, non procede affatto più veloce.
Io non condivido tali studi e infatti ogni volta punto un cliente della fila di fianco che parte al mio stesso livello e, puntualmente, debbo constatare che se ne va mentre io sono ancora in coda perché davanti capita qualcuno che non ha etichettato il sacchetto oppure che deve digitare di nuovo il pin del bancomat oppure che paga in cambiali della banca della Cappadocia.


La disposizione della merce è un’altra cosa che mi crea ancora qualche difficoltà.

È risaputo che alcune cose di prima necessità (sale, latte, uova) sono dislocate in modo strategico lontane le une dalle altre per aumentare il tempo di permanenza del cliente tra gli scaffali. È un vecchio trucco del marketing della GDO.

Qui a Budapest questo concetto è esteso alle estreme conseguenze.
Nei vari supermercati che ho visto ho notato che la merce non segue alcuna logica nella propria disposizione.

Perché il cibo per animali è nello stesso scaffale della maionese e del ketchup? Perché gnocchi e tortelloni sono nel banco con i dolci?


Perché è l’unico banco frigo disponibile? No! È un punto vendita enorme pieno di banchi frigo, eppure l’associazione mentale è gnocchi+tiramisù, forse perché entrambi prodotti non tipici e quindi quello deve essere il banco prodotti esotici.


E poi perché mai il latte vegetale è disposto sopra al banco della carne? Non di fianco, non separato: in bella mostra proprio sopra un macinato fresco di maiale.


Un messaggio subliminale aggressivo, vegano infame per te solo salame?


Almeno credo che fosse maiale perché ho ancora qualche problema a ricordare come si chiama cosa e google translate spesso non trova le parole che cerco.


Una volta, invece, sconsolato dopo aver girato a vuoto inutilmente perché non trovavo l’olio, ho posato tutto ciò che avevo e sono uscito a mani vuote. Come atto di protesta.


Tutti i consumatori dovrebbero fare come me.


L’olio non era più dove avrebbe dovuto essere. Ne avevano cambiato posizione. Ogni tanto cambiano di posto alle cose, oppure altre volte le tolgono dalla vendita.

Una volta avevo trovato degli hamburger gradevoli e che non contenevano dieci altre cose sconosciute aromatizzanti miscelate dentro.


Perché mai all’estero capita a volte che con la carne debbano impastarci tante altre cose dentro tanto che alla fine di carne non c’è più il sapore non mi è chiaro.


Dopo averli acquistati una volta sono poi scomparsi.

Le fette biscottate: quelle del Mulino Bianco costano troppo, quelle dello SPAR sembrano fatte di segatura impastata.


Almeno fosse segatura di legno di cedro, invece sembra provenire da una scarpiera IKEA.


Avevo trovato una marca buona olandese che produceva quelle doppie e pastose. Sono riuscito ad acquistarle 3 volte, poi sono scomparse.

In genere quando i supermercati non si riforniscono di un prodotto è perché non vende.
Ciò mi fa sorgere dei dubbi: o è possibile che io abbia dei gusti così fuori dalla norma oppure che io sia una specie di tester al contrario. Se una cosa mi piace vuol dire che non sarà di successo.

Non è che la gallina si faccia portare i bagagli dal tacchino

In quest’epoca di food-pornography sono contento di essere tra quelli che preferiscono ancora praticare, piuttosto che guardare o compiacersi nell’immortalare.

Assumendomi tutti i rischi del caso, perché riempirsi come un tacchino non è attività salutare. Eppure in questi giorni le cose vanno così, tocca adattarsi.

Dovevo capirlo sin dal mio ritorno che queste feste sarebbero state armate di cattive intenzioni.

Arrivo il 22 sera e mia zia mi propone una pizza: Sono mesi che non ne mangi una! esclama.
In realtà sarebbe un mese, ma nella testa dei parenti subentrano meccanismi di relatività temporale.

Il giorno dopo: pasta al forno di Madre.
La sera: un’altra pizza.

Tralasciamo 24, 25 e 26 pranzo per rispetto delle menti più impressionabili: veniamo a ieri sera. A cena faccio fuori dei tortellini avanzati, perché lo stomaco è come una trincea: nulla deve avanzare oltre!
Esco.
Chiama un amico: ha preparato una genovese che è ansioso di far gustare. Gli si dice di no? Giammai.

Forse era meglio il food-porno.

In questi giorni è un’attività che si è intensificata, dando vita anche a battaglie tra generi. Carnivori vs Non carnivori. Come se domani su YouPorn comparisse un duro confronto Anal vs Non Anal. Me li immagino i commenti delle due fazioni: È contronatura! Chi se ne frega, io lo faccio lo stesso, alla faccia di voi Non Anal! L’OMS dice che è dannoso se fatto tutti i giorni con un cavallo! e così via.

Così, da una parte c’è chi posta foto di un bue muschiato gettato direttamente in pentola con le verdure (perché due verdurine ci stan bene per mangiare sano, che non si dica che non si è attenti alla salute) alla faccia di chi non sa cosa si perde, dall’altra chi posta foto di un bel tacchino vegano ripieno, alla faccia di chi si avvelena con cose morte.


Perché non possono morire entrambi, alla faccia loro?


Che poi io vorrei che i vegani/vegetariani mi spiegassero perché mai chiamino i loro cibi con nomi carnivori.

A volte ho fatto acquisti in negozi vegani e sono sempre rimasto colpito dai nomi dei prodotti, infatti.
Mi dovrebbero dire il perché dell’esistenza del salame vegano, del prosciutto vegano, della bistecca alla fiorentina vegana. Chiamateli sguazz, blablidi, grugrugrul, inventate dei nomi a caso, insomma. Ma non si può sentire “carne alla pizzaiola vegana”. Giuro, ho visto un preparato in busta per fare la carne alla pizzaiola. Vegana.

È come se il brodo di pollo lo chiamassi “brodo vegetale carnivoro”, il formaggio di capra “tofu carnivoro”, gli hamburger “seitan di carne”.


Parentesi cibi vegetariani
Sono uno che comunque cerca di limitare il consumo di carne. Così, come dicevo, mi è capitato di acquistare prodotti alternativi nei negozi specializzati o nei supermercati, dove, sarà per “moda”, almeno nelle grandi città non è difficile reperirli.

A Budapest è un altro discorso.
Credo che lì i vegetariani vengano espulsi dal Paese.

Gli unici prodotti vegetariani li ho visti in un dm (negozio di una catena tedesca) e consistevano in un paio di confezioni di hamburger, di wurstel e dei tortellini di tofu che credo non acquisti mai nessuno. Quando ho preso gli hamburger, la cassiera ha fatto una faccia schifata e poi mi ha guardato con sufficienza secondo me pensando “E tu ti definiresti un uomo?…Il mio fidanzato uccide maiali a mani nude e li trasforma in prosciutti”.


 

Oh, Madre!

Il mio soggiorno romano (per non parlare del bagno e della cucina romane) offre a Madre spunti di riflessione interessanti.

Premettiamo che, da buona esponente del Sud, l’interesse primario di Madre è il cibo. Non so che idea abbia di Roma, ma credo che corrisponda più o meno a questa immagine

Ma tutti ‘sti rotoli di fieno dove vanno a finire?

Cioè una terra isolata con un unico negozio nella zona che ha per giunta dichiarato fallimento. Sto esagerando? Non ne sono certo dopo le domande che ho sentito.

Tra l’altro, le domande non mi sono state poste una di seguito all’altra: una delle specialità di Madre, infatti, è il test della memoria basato sui discorsi interrotti.

Avete presente l’aneddoto su Dante in cui si celebra la sua memoria prodigiosa? Si racconta che un giorno un tale gli chiese quale fosse il cibo più buono. Il Sommo Poeta rispose “L’uovo”. Tempo dopo (dicono anni), il tale e Dante si incontrarono di nuovo. Il primo disse:
– Con cosa?
– Col sale.

Ecco, Madre agisce allo stesso modo. Un discorso lasciato cadere al mattino, viene senza preamboli né introduzioni ripreso dallo stesso punto in qualunque momento della giornata a caso o addirittura a una settimana di distanza.

– Ci sono supermercati dove stai tu?
– Madre, sono a Roma, una città dove il progresso è arrivato da un po’. Pensa che hanno anche l’acqua corrente in casa.
– E che supermercati sono? Come quelli dove andiamo noi?
– A parte che vorrei capire perché dovrebbero essere diversi (dove siamo? Qui giù fanno supermercati speciali per napoletani, come se ci fosse l’apartheid?), comunque ho a 10 minuti un Grosso Marchio Francese, vedi tu…
– E ce l’ha il banco macelleria? E ha pure il banco pescheria?
– (che supermercato sarebbe altrimenti??) Noo, infatti scrivono fuori supermercato per attirare la gente, poi dentro è vuoto e c’è uno che ti prende e poi ti svegli in un fosso tutto sudato e senza un rene.
– E ha pure lo scaffale coi prodotti tipici?
– Certo, sapessi quante barbabietole da zucchero che ci sono.
(sì ok si capiva che voleva sapere se ci fossero prodotti a chilometri zero, ma detta così però…)

Qui bisogna aprire una parentesi legata a traumi infantili durante le interrogazioni di geografia. Nel momento di elencare i prodotti tipici di una Regione o di un Paese, in caso di vuoti di memoria andava bene indicare sempre la barbabietola da zucchero, perché tanto era onnipresente.

Che io vorrei dire, ok che non sono un frequentatore abituale delle campagne, ma in trent’anni ho visto un solo campo di barbabietola da zucchero in vita mia, nel 1999 lungo una statale verso Foligno (lu centru de lu munnu), al che mi chiedo: ma se sono così tanto coltivate, dove sono nascoste? E più facile trovare piantagioni di marijuana che di barbabietola da zucchero. Allora perché nessuno cita la marijuana tra i prodotti tipici?!

Banane a un euro!

Ammetto di essere figlio del consumismo e amare aggirarmi tra gli scaffali di un supermercato.

Penso anche che però non sarà mai paragonabile a un mercatino rionale. Col suo vociare, il via vai di persone, le mani da poter infilare nei sacchi di legumi e sementi (sì, ho qualche vizio da Amélie). Tra l’altro, in un mercato di Belleville a Parigi ho scoperto che “banane a un euro” urlato in francese suona uguale al napoletano.

Il mercato rionale odora di verdura, pesce e olive. Nel supermercato si viene invece sempre accolti da un afrore di formaggio e detersivo. Una forma di parmigiano fatta col detersivo in polvere. E dicono pure che gli odori tra gli scaffali siano studiati a tavolino dagli scienziati del marketing.

Ora, qualcuno mi dica se si può essere mai attirati da un simile odore. Non lo so.

Insomma, io entrerei volentieri in un supermercato che invece profumasse di buon cibo (pizze, maccheroni, lasagne) o al limite di La vie est belle di Lancôme.

E poi ci sono cose che in un supermercato proprio non sopporto.

  • I prodotti senza prezzi.
  • La gente che arriva alla cassa con un prodotto senza prezzo, la cassiera che invoca l’intervento di “brvshmiliano (non si capisce mai) alla cassa 2” e la fila chilometrica che si forma dietro.
  • I clienti che ti scambiano per un commesso e ti chiedono cose improbabili. Per un breve periodo della mia vita tra i 20 e i 22 anni ho indossato polo colorate a tinta unita nere, blu, verdi: me ne pentivo quando scoprivo che coincidevano con la divisa ufficiale del commesso. Ora capite perché indosso solo camicie a quadri? Non  è per fare l’hipster!
  • La signora in fila alla cassa col carrello riempito come se dovesse arrivare la guerra, che si gira, vede te che hai in mano solo una confezione di Proraso e si gira di nuovo dall’altra parte perché ha paura che tu le chieda di poter passare avanti.
  • La signora che bla bla di cui sopra alla quale chiedi la cortesia di poter passare e che acconsente con la faccia di una a cui hanno presentato una cartella Equitalia.
  • Le cose che ti servono posizionate a chilometri le une dalle altre (anche questo, studiato a tavolino).
  • Le cose che ti servono che sono esaurite mentre tutto il resto trabocca dagli scaffali!
  • L’immancabile pirata della Standa che ti sperona il fianco con lo spigolo del carrello perché chissà cosa guardava o pensava.
  • Un classico: il carrello con la ruota bloccata o che ha la convergenza strabica che rende lo spingerlo una fatica di Sisifo. Meno male ci sono i carrellini o le ceste in plastica. Se magari le pulissero, di tanto in tanto…
  • Il prodotto scaduto non rimosso dal banco che, prima o poi, finirà nelle tue buste. Controlli sempre ogni volta le confezioni, leggi le etichette in maniera critica e attenta manco fossero un saggio di Proust, ma il prodotto scaduto ti attende nascosto da qualche parte in maniera subdola per finire tra la tua spesa quando meno te lo aspetti.
  • La cassiera che lancia i prodotti come se fossero bombe e tu ti penti di aver comprato biscotti friabili e uova.
  • Beccare la cassa che non ha spiccioli per il resto.
  • Beccare la cassa che invece ti riempie di spiccioli, tutti in monete da 1, 2 e 5 cents di cui non vedevano l’ora di liberarsi. Esci tintinnando come la slitta di Babbo Natale.
  • Il panico che ti viene quando ti sembra di non ricordare dove fosse l’auto. Era U6? V6?
  • Questa è di Aida in risposta a un mio post; tra l’altro è stato rileggendo questo commento che mi è venuto in mente di scrivere questo articolo: “L’ebete da supermercato è quello che ti si mette davanti con un carrello stracolmo. solitamente sono due ebeti, marito e moglie. Lei spinge il carrello fuori dalla cassa, lui mette i prodotti sul banco per pagarli. attende che esce lo scontrino e paga. la moglie ebete, anzichè iniziare ad imbustare la spesa, attende che il marito ebete adempie all’increscioso lavoro, perchè lei ha il carrello in mano, con 1 euro dentro, e lasciarlo libero significa essere derubata di un euro. Intanto le due corsie della cassa sono occupate dalla spesa della coppia di ebeti. Tu aspetti un lasso di tempo di 30 secondi. loro non si sbrigano. il commesso ha fretta e inizia a passare la tua spesa lanciandotela addosso perché se la mette nelle due corsie si confonde con la spesa da ebeti. tu ovviamente spazientito ma educato accetti la sconfitta, mentre l’ebete della moglie, con aria altezzosa, si degna finalmente di infilare l’ultimo pacco di pasta nella busta della spesa. tu intanto hai già finito da un pezzo

INFORMAZIONE DI SERVIZIO:  Ho rimesso in bozze per lavorarlo un post che avevo pubblicato ieri sera ma che rileggendo non mi convinceva. Non mi sono autocensurato e i commenti di chi ha scritto sono ancora lì 😀